Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 22108 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 22108 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a CETRARO il 04/05/1978
avverso l’ordinanza del 21/06/2024 della CORTE APPELLO di CATANZARO
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME lette/sentite le conclusioni del PG
Letta la richiesta del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza in epigrafe la Corte di appello di Catanzaro, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha dichiarato inammissibile la richiesta, avanzata nell’interesse di NOME COGNOME di rideterminare la pena inflitta (nella misura di anni diciotto di reclusione), all’esito di giudizio abbreviato, con la sentenza della stessa Corte in data 27 giugno 2013, in ordine al delitto di cui all’art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e ai connessi reati fine, previa esclusione dell’aggravante di cui al comma 3 dello stesso articolo, e, in via subordinata, di promuovere questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 cod. proc. pen., per violazione degli artt. 3, 2 e 27 Cost., nella parte in cui non prevede che il giudice dell’esecuzione possa rideterminare la pena nel caso in cui venga riconosciuta aggravante di natura oggettiva e questa venga dichiarata insussistente. I difensori nella suddetta istanza evidenziavano che al termine del distinto e separato processo dibattimentale, l’associazione finalizzata al narcotraffico, della quale COGNOME era stato ritenuto partecipe, era risultata composta solo da otto soggetti e, quindi, da un numero di sodali inferiore a dieci, circostanza che imponeva di escludere la sopra indicata circostanza aggravante, stante la palese insussistenza dei suoi elementi costitutivi.
Avverso l’ordinanza propone ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore di fiducia (di cui alla firma digitale del ricorso), deducendo violazione di legge e vizio di motivazione.
La difesa lamenta che la Corte di appello è incorsa in confusione, in quanto non era stata avanzata alcuna richiesta di revisione della sentenza di condanna in relazione alla sussistenza dell’aggravante, ma era stato solo chiesto di colmare un vuoto all’interno del sistema dell’esecuzione penale, che non pone rimedi diretti all’eliminazione di una parte di pena che è illegittima, per effetto di un’aggravante non più esistente, ma non illegale.
Osserva che, non consentendo la giurisprudenza di legittimità al giudice dell’esecuzione di sacrificare il giudicato penale, una volta che sia definitivamente accertata l’insussistenza dell’aggravante, salvo il caso di illegalità della pena, andava sollevata la questione di illegittimità costituzionale come richiesto.
Il difensore insiste, pertanto, per l’annullamento del provvedimento impugnato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile, in quanto le censure di cui allo stesso, oltre che manifestamente infondate, sono reiterative e aspecifiche, a fronte delle argomentazioni scevre da vizi logici e giuridici dell’ordinanza impugnata, con le quali dimostrano di non confrontarsi.
La Corte territoriale, in primo luogo, precisa che la stessa Corte, con precedente ordinanza del 4/03/2022, nei confronti della quale veniva proposto ricorso per cassazione rigettato in data 18/01/2023, aveva deciso altra identica istanza proposta nell’interesse del suddetto, rilevandone l’infondatezza sul presupposto che non rientrasse nei poteri del giudice dell’esecuzione correggere una pena, che, nell’ambito del giudizio di cognizione, era stata comminata con sentenza definitiva, secondo i parametri di legge; e che, pertanto, l’istanza sarebbe inammissibile in quanto ripetitiva di argomentazioni già ritenute destituite di fondamento, sia dalla medesima Corte che dalla Corte di cassazione.
Ribadisce, quindi, che «non rientra nei poteri del Giudice dell’esecuzione, che oggi viene nuovamente adito, correggere o modificare una pena che rientra nei parametri edittali e che è stata legittimamente irrogata dal Giudice della cognizione, le cui statuizioni anche in punto di sussistenza delle aggravanti contestate, hanno retto al vaglio dei Giudici dell’impugnazione». Sottolinea a tale riguardo che la sentenza definitiva di cui si chiede la rideterminazione della pena, «nel determinare il trattamento sanzionatorio, irrogato all’imputato, ha riconosciuto (anche) la sussistenza dell’aggravante che qui occupa, ha necessariamente operato un vaglio incidentale delle posizioni di altri almeno nove coimputati, accusati di essere i componenti della medesima associazione finalizzata al narcotraffico; di talché deve ritenersi che anche tale parte della decisione, avendo assunto il crisma della irrevocabilità (perché non impugnata o confermata nei successivi gradi di giudizio), è fondata su elementi di prova certi, idonei a dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, non solo lo status di partecipe del singolo sodale, ma anche la composizione soggettiva dell’associazione oggetto del giudizio (nella misura che ha permesso di consentire di ritenere configurabile l’aggravante in questione)». Aggiunge che «a fronte di tale definitivo accertamento, a nulla rileva il fatto che, in altri separ processi non sia stato riconosciuto, per ragioni che non sono state neppure indicate, il medesimo assetto soggettivo della struttura associativa (in quanto non è stato confermato lo status di partecipi di un numero di coimputati pari o superiore a dieci), atteso che tale “contrasto” sicuramente non inficia la legittimità della prima sentenza , né rende illegale la pena che in essa è stata comminata, come sul punto precisato dalla Suprema Corte di Cassazione nella sentenza con la quale è stato rigettato il ricorso presentato avverso l’ordinanza» di cui si è detto.
2
Con riguardo al profilo della legittimità costituzionale del limite relativo ai poter del giudice dell’esecuzione, la Corte ricorda che la Corte costituzionale in diverse sentenze emesse in relazione all’istituto della revisione delle sentenze di condanna di cui all’art. 630 cod. proc. pen. ha già riconosciuto la ragionevolezza e la conformità ai principi di cui agli artt. 3, 24, 27 e 11 Cost., 6 e 13 Cedu di un assetto normativo che consente di superare il giudicato solo in presenza di elementi che conducano al proscioglimento e non, invece, al solo scopo di ottenere un trattamento sanzionatorio meno afflittivo o la condanna per un reato meno grave. Evidenzia che ciò è stato ribadito in due recenti pronunce con le quali la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 631 nella parte in cui esclude l’ammissibilità della domanda di revisione che non mira ad ottenere il pieno proscioglimento dell’imputato (ma solo una riduzione della pena irrogata, anche in conseguenza della esclusione di una circostanza aggravante). Conclude che ciò vale anche per il rimedio della revoca delle sentenze per abolizione del reato di cui all’art. 673 cod. proc. pen., trattandosi di istituto che il legislat secondo le sue insindacabili valutazioni discrezionali, ha espressamente limitato alle ipotesi di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, escludendo qualsiasi altra causa potenzialmente incidente sulla decisione definitivamente assunta.
Di contro, il ricorrente ‘non solo non si confronta con la premessa dell’ordinanza, ribadita nella parte finale della medesima, della mancata proposizione di questioni nuove rispetto a quelle già valutate con precedente ordinanza, che risulta avere anche superato il vaglio dei Giudici di legittimità (con sentenza n. 14814 del 18 gennaio 2023) e, quindi, con l’argomento dirimente dell’inammissibilità ai sensi dell’art. 666, comma 2, cod. proc. pen., ma reitera gli argomenti che, nonostante la premessa, la Corte territoriale nuovamente affronta in questa sede (anche quello della illegittimità costituzionale). E ciò senza neppure relazionarsi con la parte motiva del provvedimento che, oltre a fare leva sull’autonomia dei processi (quello de quo abbreviato), rileva la genericità della richiesta, evidenziando come la stessa neppure specifichi le ragioni per le quali non sarebbe stato riconosciuto nel processo ordinario il medesimo assetto soggettivo della struttura associativa.
Alla inammissibilità del ricorso, che si dichiara, consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, non ricorrendo ipotesi di esonero, al versamento di una somma alla cassa delle ammende, determinabile in tremila euro, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, 1’11 marzo 2025.