Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 30029 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 30029 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 29/05/2025
n ew i SET, 2025
SENTENZA
FUNZ;G. , : Lua sul ricorso proposto da NOME COGNOME nato a Capo d’Orlando il 08/11/1966; avverso la sentenza del 26/03/2024 del Tribunale di Messina; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 26 marzo 2024, il Tribunale di Messina ha, per quanto qui rileva, dichiarato l’imputato odierno ricorrente non punibile per particolare tenuità del fatto, per il reato previsto dall’art. 256, comma 1, lettera a), e comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006, così riqualificato il fatto ascritto nel capo di imputazione. Tribunale ha condannato altresì l’imputato al risarcimento dei danni in favore del
Comune di Messina, quale parte civile, da liquidarsi nella competente sede, nonché alla rifusione, a favore della stessa parte civile, delle spese di rappresentanza e difesa. Infine, ha ordinato la confisca dell’autocarro di cui al verbale di sequestro del 25 maggio 2020, nonché il dissequestro e la restituzione all’avente diritto dell’area sequestrata.
Avverso la sentenza, l’imputato ha proposto, tramite difensore, un’impugnazione qualificata come appello, trasmessa alla Corte di cassazione dalla Corte di appello di Messina, ai sensi dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen.
2.1 Con un primo motivo di censura, si lamentano la violazione dell’art. 546, comma 1, lettera e) , cod. proc. pen., oltre a vizi della motivazione, in ordine alla condotta oggetto del capo di imputazione, nonché la mancata indicazione delle ragioni per le quali il giudice monocratico abbia reputato non attendibili le prove contrarie. Più precisamente, il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto che COGNOME, operaio dipendente della ditta dell’imputato, avesse agito in maniera non conforme alla normativa, non considerando la produzione della documentazione attestante il possesso di regolare abilitazione del mezzo per lo smaltimento dei rifiuti.
Inoltre, secondo la prospettazione difensiva, non era necessaria alcuna autorizzazione, dal momento che, in base a quanto disposto dall’art. 183 del d.lgs. n. 152 del 2006, i rifiuti non pericolosi, ove ricorrano determinate condizioni, possono essere riposti temporaneamente in altro sito. La difesa contesta che, nel momento in cui veniva accertato il fatto di reato, ci si trovasse in piena emergenza pandemica e che le discariche idonee al trasferimento del suddetto materiale risultassero avere aperto solo il giorno prinìa dell’avvenuto accertamento. Inoltre, si evidenzia come nel caso di specie, il suddetto materiale, relativo ad un lavoro di manutenzione, non fosse versato in area pubblica ma depositato in un terreno di proprietà della ditta COGNOME e sotto il costante controllo del produttore.
2.2. Con secondo motivo di doglianza, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 546, comma 1, lettera e) , cod. proc. pen., con espresso riguardo ai motivi per i quali il Tribunale non avrebbe considerato gli elementi addotti dalla difesa a discarico dell’impianto accusatorio. Più precisamente, il Tribunale avrebbe omesso di considerare quanto riferito dal teste COGNOME il quale confermava che COGNOME era stato perentorio nell’imporre agli operai di conferire in discarica e di non depositare altrove i rifiuti, dal momento che, per ogni conferimento in discarica, era previsto un rimborso economico per la ditta. Secondo la prospettazione difensiva, non vi sarebbe stato un coinvolgimento diretto da parte dell’imputato, dal momento che il dipendente COGNOME aveva agito di propria autonoma iniziativa, contro le direttive e all’insaputa del datore di lavoro stesso.
2.3. Con un terzo motivo di doglianza, in parte sovrapponibile per contenuto al secondo motivo, la difesa lamenta vizi della motivazione con riferimento all’omesso riconoscimento delle esimenti dell’adempimento del dovere o dello stato di necessità, di cui agli artt. 51 e 54 cod. pen. Più precisamente, la difesa sostiene che vi era l’esigenza di eseguire i lavori e di non lasciare il materiale di risulta per strada, stanti le sanzioni previste dal Comune di Messina ed il periodo di emergenza pandemica in cui si sarebbero svolti i fatti.
2.4. Con un quarto motivo, si lamentano vizi della motivazione in relazione alla condanna dell’imputato al risarcimento dei danni in favore del Comune di Messina. Più precisamente, non vi sarebbe stato alcun danno nei confronti del suddetto Comune, dal momento che i materiali venivano scaricati su un terreno di proprietà dell’imputato e che la bonifica dell’area e lo smaltimento dei rifiuti erano stati immediatamente eseguiti.
2.5. Con un quinto motivo di doglianza, la difesa lamenta vizi della motivazione in riferimento alla disposta confisca del veicolo da parte del Tribunale. Nel caso di specie, il mezzo sequestrato apparteneva alla ditta COGNOME e non a colui che aveva posto in essere la condotta illecita, ovvero RAGIONE_SOCIALE
2.6. La difesa ha depositato memorie in data 9 maggio 2025 e 19 maggio 2025, con le quali ribadisce quanto già dedotto, anche replicando alla requisitoria scritta del pubblico ministero, formulata nel senso dell’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
L’impugnazione, che deve essere qualificata come ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen., perché proposta contro sentenza non appellabile, ai sensi dell’art. 593, comma 3, cod. proc. pen., è inammissibile.
I motivi proposti non possono essere ricondotti, neanche in via interpretativa, alle categorie di cui all’articolo 606 codice procedura penale, perché tutti riferi alla “violazione dell’art. 546, comma 1, lettera e) , cod. proc. pen., con espresso riguardo alla mancata osservanza dell’obbligo di relazionare i motivi in fatto ed in diritto, su cui la decisione è fondata, con l’indicazione di risultati acquisiti e criteri di valutazione della prova”. Le censure sono, dunque, basate sull’asserita mancanza della motivazione della sentenza, sotto diversi profili; mancanza che deve essere esclusa sulla base della semplice lettura della sentenza stessa e, a ben vedere, della stessa prospettazione difensiva, che contiene continui riferimenti alla motivazione. La difesa non invoca, invece, vizi di manifesta illogicità o contraddittorietà, perché non spiega quali sarebbero le lacune o le incongruenze
delle argomentazioni del giudice, limitandosi a proporre un’alternativa ricostruzione dei fatti, preclusa in sede di legittimità.
Dev’essere infatti ribadito che sono precluse al giudice di legittimità la rilettur degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (ex plurimis, Sez. 1, n. 45331 del 17/02/2023, Rv. 285504; Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, Rv. 280601) e che non è sindacabile, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, .la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sull rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la sce tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (ex plurimis, Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, Rv. 271623).
1.1. Tali considerazioni si attagliano pienamente ai primi due motivi di doglianza, relativi alla penale responsabilità dell’imputato e orientati a sollecitare un nuovo giudizio nel merito.
In ogni caso, è sufficiente qui ricordare che il Tribunale ha confutato, in modo logico l’asserita ignoranza dell’imputato sulla destinazione d’uso dell’area, sottolineando invece il suo sostanziale consenso all’attività, che permette di fondare il rimprovero penalistico.
E infatti, il giudice di merito ha correttamente valorizzato (pag. 7 del provvedimento) la circostanza per cui non vi erano deleghe per il deposito dei rifiuti presso la contrada INDIRIZZO, né, più in generale, una delega di funzioni; pertanto, l’iniziativa di abbandonare i rifiuti nel deposito non era frutto di un’ide dell’ultimo minuto del coimputato COGNOME COGNOME quanto piuttosto costituiva oggetto di una vera e propria politica di impresa ascrivibile al titolare COGNOME, cui aderiva operativamente il COGNOME, tanto più che il deposito di materiale non risultava occasionale, ma ripetuto. Oltretutto, l’imputato e il teste COGNOME non erano stati in grado, nel corso del giudizio di primo grado, di indicare un qualsiasi referente del COGNOME, ovvero il nome di qualcuno la cui posizione intermedia, tra operano e titolare, lo rendesse in grado di impartire ai subordinati determinati ordini. Contrariamente alla prospettazione difensiva, inoltre, il teste COGNOME non ha espresso certezze in ordine al fatto che il COGNOME fosse o meno autorizzato, come ben evidenziato dal giudice, così da confermare la piena responsabilità dell’imputato.
Ed è superfluo ricordare che, nel reato contravvenzionale, qual è quello in esame, l’agente risponde della sua azione, sia essa dolosa o colposa, purché la medesima sia cosciente e volontaria. Detti requisiti sussistono nell’ipotesi in cui il reo autorizzi altra persona all’uso di cosa propria che, per le sue caratteristiche e
natura, non può che essere adoperata, se non per lo scopo inerente alle medesime. In tal caso il cosciente e volontario consenso dato dall’agente al terzo per l’unico uso possibile della cosa implica l’adesione al comportamento illecito che della medesima farà la persona autorizzata, con ogni conseguenza in ordine al concorso nel reato da costei commesso (ex plurimis, Sez. 1, n. 3822 del 03/03/1994, Rv. 196988). Inoltre, la circostanza che la discarica avesse riaperto solo il giorno precedente, lungi dal giovare in prospettiva discolpante, conferma pienamente la responsabilità dei due imputati, essendo quel giorno la ditta obbligata a depositare in discarica. Non risulta, inoltre, che al riguardo fosse stata data precisa direttiv da parte di COGNOME di tornare a conferire in discarica, come egli avrebbe dovuto diligentemente fare. E ciò, a prescindere dalla totale genericità delle argomentazioni difensive relative alla disponibilità della discarica e dall’assunto, totalmente privo di fondamento normativo, per cui in mancanza di una forma lecita di gestione dei rifiuti possono essere adoperate forme illecite.
Per questi motivi, il fatto di aver “tollerato” che il Bontempo utilizzasse il fond di proprietà di COGNOME per finalità non consentite non è configurabile – anche a voler seguire l’implausibile prospettazione difensiva – come connivenza non punibile, divenendo un vero e proprio concorso nell’illecito posto in essere da quest’ultimo, come ben evidenziato dal giudice di primo grado.
1.2. Il terzo motivo di doglianza, relativo al mancato riconoscimento dell’adempimento del dovere o dello stato di necessità, è altresì inammissibile, per le ragioni già esposte sub 1.
Nel caso in esame, l’imputato ha invocato le esimenti, sostenendo che la condotta contestata sarebbe stata giustificata dall’oggettiva impossibilità, al tempo dei fatti, di conferire i rifiuti presso impianti autorizzati, temporaneamente non operativi.
Al di là della considerazione che la prospettazione difensiva si basa su mere affermazioni, deve osservarsi, sul punto, che, secondo quanto sostanzialmente ammesso dallo stesso ricorrente, mancano nel caso di specie i requisiti per il deposito temporaneo, perché i rifiuti non erano raggruppati, in via temporanea ed alle condizioni previste dalla legge, nel luogo della loro produzione; il lor raggruppamento, invece, era effettuato in luogo diverso da quello in cui essi erano prodotti e fuori della sfera di controllo del produttore. Infatti, come evidenziato da giudice di merito (pag. 5 del provvedimento), lo smaltitore risultava essere sprovvisto di autorizzazione per il deposito temporaneo dei suddetti rifiuti nell’area di proprietà della ditta e al momento dell’accertamento vi si trovavano già depositati anche altri rifiuti per un totale di 300 mc, mentre il cassone da cui veniva scaricato nell’occasione il materiale aveva una dotazione di 5 mc. Lo stesso teste COGNOME aveva riferito che, se la discarica era chiusa, o non si effettuavano lavori
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o si decideva volta per volta il da farsi. Pertanto, gli stessi rifiuti avrebbero dovu essere depositati temporaneamente sul luogo della loro produzione e, soprattutto, non sulla nuda terra, bensì sui cassoni scarrabili che la ditta esecutrice dei lavori avrebbe dovuto rendere disponibili, o direttamente conferiti in discarica. In ogni caso – lo si ripete – la ditta non era autorizzata al deposito dei rifiuti in l diverso dal cantiere, come quello ove furono rinvenuti, tanto più che gli stessi rifiuti, sia quelli del 25 maggio 2020 che quelli già presenti, erano depositati i modo incontrollato sulla nuda terra, a nulla giovando l’affermazione difensiva secondo cui le discariche avevano riaperto solo il giorno precedente. E infatti non può ritenersi che tale condotta risponda all’adempimento di un dovere giuridico inderogabile, in quanto nessuna norma impone al privato l’obbligo di smaltire i rifiuti in modo illecito in caso di indisponibilità temporanea degli impianti pubbli o privati; al contrario, la normativa ambientale predispone specifici strumenti alternativi proprio per evitare il ricorso ad azioni illecite che comportino rischi p l’ambiente e la salute pubblica. Pertanto, la condotta posta in essere dall’imputato si colloca al di fuori dell’ambito di operatività degli artt. 51 e 54 cod. pen., n potendosi configurare né come esercizio di un diritto, né come adempimento di un dovere, mancando sia il presupposto oggettivo (dovere giuridico assoluto), sia quello soggettivo (assenza di alternative lecite), né come stato di necessità, mancandone evidentemente i presupposti, in presenza di un’attività dettagliatamente regolamentata dalla legge, ma svolta in violazione della stessa.
1.3. Il quarto motivo di censura, relativo all’illegittimità del dispos risarcimento dei danni a favore del Comune di Messina, è anch’esso inammissibile. Infatti, il Comune ha una legittimazione autonoma a costituirsi parte civile nei procedimenti per reati ambientali, in quanto ente esponenziale della collettività locale e soggetto titolare di interessi diffusi – tra cui la tutela dell’ambiente, del salute pubblica, del decoro urbano e del territorio. Sul punto, questa Corte ha più volte affermato che la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reat ambientali spetta non soltanto al Ministro dell’Ambiente per il risarcimento del danno ambientale ma anche agli enti locali territoriali, i quali deducano di aver subito, per effetto della condotti illecita, un danno diverso da quello ambientale, avente natura anche non patrimoniale (ex plurimis, Sez. 1, n. 44528 del 25/09/2018, dep. 31/10/2019, Rv. 277148 – 03). Pertanto, è pacifico che il Comune possa costituirsi parte civile, anche se la discarica abusiva si trovi su fondo privato, purché ne derivino danni al territorio comunale, alla salute dei cittadini all’ambiente o al decoro urbano, come avvenuto nel caso di specie, stante la reiterazione della condotta ed il deposito non autorizzato del suddetto materiale.
Quanto all’entità del danno, la stessa sarà valutata dal giudice civile nella competente sede, senza che risulti logicamente preclusiva a tal fine la circostanza
dell’avvenuta bonifica del sito, trattandosi di uno degli elementi che potranno essere presi in considerazione.
1.4. Il quinto motivo di doglianza, relativo all’illegittimità della confisca mezzo su cui veniva trasportato il materiale, è inammissibile, in quanto rivalutativo
delle emergenze processuali. La difesa non incentra la sua censura né sul presupposto normativo della confisca, né sulla questione della sua applicabilità in
caso di riconoscimento della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod.
pen.; sostiene, invece, che la stessa non avrebbe potuto essere disposta a fronte di una responsabilità esclusiva del COGNOME per il reato e della terzietà dello
COGNOME rispetto allo stesso. Ma tale ricostruzione fattuale è stata – come visto – motivatamente smentita dal Tribunale e non può essere riproposta in questa sede,
sia perché già ritenuta manifestamente implausibile, sia perché il giudizio di legittimità incontra i limiti di cui all’art. 606 cod. proc. pen.
2. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere
che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in C 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 29/05/2025.