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Furto in privata dimora: quando un box è luogo di lavoro?

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibili i ricorsi di due individui condannati per furto in un box auto. Il caso verteva sulla definizione di privata dimora. La Corte ha ribadito che anche i luoghi destinati ad attività lavorativa, come un box per custodire merce, rientrano nella nozione di privata dimora ai fini del reato di furto, confermando la decisione dei giudici di merito. Questa interpretazione estensiva del concetto di **furto in privata dimora** ha portato alla condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria.

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Pubblicato il 12 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Furto in Privata Dimora: Quando un Box Auto Usato per Lavoro Rientra nel Reato

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in esame, torna a pronunciarsi su un tema di grande rilevanza pratica: la definizione di furto in privata dimora. La questione centrale riguarda se un luogo non abitativo, ma utilizzato per scopi lavorativi come un box auto adibito a magazzino, possa essere considerato “privata dimora” ai sensi dell’articolo 624-bis del codice penale. Questa pronuncia chiarisce i confini di un reato percepito come particolarmente grave, data la sua capacità di violare la sfera personale e di sicurezza dell’individuo.

I Fatti del Caso Giudiziario

Due soggetti venivano condannati in primo e secondo grado per concorso in furto aggravato e ricettazione. Nello specifico, il furto era avvenuto all’interno di un box auto di proprietà della persona offesa. Quest’ultima utilizzava il box non solo come garage, ma anche come deposito per i beni legati alla sua attività lavorativa di venditore. Gli imputati, attraverso i loro difensori, presentavano ricorso in Cassazione sostenendo, tra le altre cose, che il box non potesse qualificarsi come “privata dimora”, dal momento che era destinato a un’attività commerciale.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato i ricorsi inammissibili, confermando in toto la valutazione dei giudici di merito. La decisione si fonda su un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, che offre un’interpretazione ampia del concetto di privata dimora. Secondo la Corte, la contestazione sollevata dalle difese era manifestamente infondata, poiché già la Corte d’Appello aveva fornito una motivazione corretta e coerente con il “diritto vivente”.

La nozione di furto in privata dimora e la sua estensione

Il cuore della questione risiede nell’interpretazione dell’art. 624-bis del codice penale. La Corte ha richiamato una fondamentale sentenza delle Sezioni Unite (n. 31345 del 2017), la quale ha stabilito che nella nozione di privata dimora rientrano “esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare”. La stessa sentenza ha precisato che in questa categoria sono inclusi anche i luoghi destinati ad attività lavorativa o professionale.

Le Motivazioni

La motivazione della Cassazione è chiara e lineare. Il box in questione, sebbene utilizzato per custodire beni legati all’attività di venditore, era un luogo in cui la persona offesa svolgeva parte della sua vita professionale. Essendo uno spazio chiuso, non aperto indiscriminatamente al pubblico e accessibile solo con il consenso del proprietario, esso possiede tutte le caratteristiche per essere qualificato come privata dimora. La Corte sottolinea che la tutela penale rafforzata prevista per il furto in privata dimora non si limita all’abitazione in senso stretto, ma si estende a tutti quei luoghi che costituiscono un’estensione della sfera privata dell’individuo, compresa quella lavorativa. L’inammissibilità dei ricorsi deriva dalla palese infondatezza delle argomentazioni difensive, che si scontravano con un principio di diritto ormai pacifico. Di conseguenza, i ricorrenti sono stati condannati al pagamento delle spese processuali e di una somma di tremila euro ciascuno alla Cassa delle ammende.

Le Conclusioni

L’ordinanza ribadisce un principio di fondamentale importanza: la protezione accordata alla “privata dimora” è ampia e comprende anche gli spazi in cui si svolge l’attività professionale di una persona. Un magazzino, un ufficio, uno studio o, come in questo caso, un box auto adibito a deposito, se non sono aperti al pubblico, godono della stessa tutela dell’abitazione. Questa decisione offre una maggiore sicurezza a commercianti, artigiani e professionisti, riconoscendo che la violazione dei loro spazi di lavoro costituisce un’intrusione grave nella loro sfera privata, meritevole della più severa sanzione prevista per il reato di furto.

Un box auto utilizzato per custodire merce per un’attività lavorativa è considerato “privata dimora” ai fini del reato di furto?
Sì. La Corte di Cassazione ha confermato che rientrano nella nozione di privata dimora anche i luoghi destinati ad attività lavorativa, a condizione che non siano aperti al pubblico o accessibili a terzi senza il consenso del titolare.

Per quale motivo i ricorsi degli imputati sono stati dichiarati inammissibili?
I ricorsi sono stati giudicati inammissibili perché la loro argomentazione principale, ovvero che il box non fosse una privata dimora, era manifestamente infondata e in contrasto con l’orientamento consolidato della giurisprudenza, già correttamente applicato dai giudici dei gradi precedenti.

Quali sono le conseguenze per i ricorrenti a seguito della dichiarazione di inammissibilità?
La dichiarazione di inammissibilità ha comportato la condanna definitiva degli imputati e l’obbligo per loro di pagare sia le spese processuali sia una somma di tremila euro ciascuno a favore della Cassa delle ammende.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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