Furto in Parrocchia: Quando è Considerato Furto in Abitazione?
Un recente caso esaminato dalla Corte di Cassazione ha offerto importanti chiarimenti sulla qualificazione giuridica del furto in parrocchia, stabilendo quando questo possa integrare il più grave reato di furto in abitazione. La decisione, contenuta in un’ordinanza, analizza i limiti dell’impugnazione di una sentenza di patteggiamento e definisce il concetto di ‘privata dimora’ applicato a luoghi di lavoro come gli uffici parrocchiali.
I Fatti: Il Furto negli Uffici Parrocchiali
Il caso trae origine da un ricorso presentato da un individuo condannato con rito del patteggiamento dal Tribunale di Torino per il furto di una borsa avvenuto all’interno degli uffici di una parrocchia. L’imputato, tramite il suo legale, ha impugnato la sentenza davanti alla Corte di Cassazione, contestando non il fatto in sé, ma la sua qualificazione giuridica. A suo avviso, il fatto non avrebbe dovuto essere classificato come furto in abitazione (art. 624 bis c.p.), bensì come furto semplice.
L’Appello e i Limiti del Patteggiamento
Il motivo principale del ricorso si basava sulla presunta errata qualificazione giuridica del reato. Tuttavia, la Corte ha immediatamente richiamato i limiti specifici previsti per l’impugnazione delle sentenze di patteggiamento. In base all’art. 448, comma 2-bis, del codice di procedura penale, introdotto dalla Riforma Orlando, è possibile ricorrere in Cassazione per errata qualificazione giuridica solo se si tratta di un ‘errore manifesto’.
Cos’è l’Errore Manifesto?
La giurisprudenza ha costantemente affermato che l’errore, per essere ‘manifesto’, deve essere palesemente evidente dal testo stesso della sentenza impugnata, senza necessità di complesse analisi fattuali o probatorie. Non può trattarsi di una semplice diversa interpretazione della norma. La qualificazione data dal giudice deve apparire, in altre parole, ‘palesemente eccentrica’ rispetto ai fatti contestati.
Le motivazioni: Perché il furto in parrocchia è in abitazione
La Corte di Cassazione ha ritenuto che, nel caso specifico, non vi fosse alcun errore manifesto. Il punto centrale della questione era stabilire se gli uffici di una parrocchia potessero essere considerati ‘privata dimora’ ai sensi dell’art. 624 bis c.p.
Richiamando un consolidato principio affermato dalle Sezioni Unite, la Corte ha ribadito che la nozione di ‘privata dimora’ non si limita alla sola casa di abitazione. Essa comprende tutti i luoghi in cui si svolgono, anche in modo non continuativo, atti della vita privata, inclusi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale. La caratteristica fondamentale è che tali luoghi non siano aperti al pubblico in modo indiscriminato o accessibili a terzi senza il consenso del titolare.
Nel caso degli uffici parrocchiali, i giudici hanno osservato che essi rappresentano il luogo di lavoro del parroco, dove questi svolge tutte le attività connesse alla gestione della parrocchia. Di conseguenza, il parroco è titolare dello ‘ius excludendi alios’, ovvero del diritto di escludere chiunque non sia autorizzato. Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, tali uffici non sono liberamente aperti al pubblico, ma l’accesso è regolamentato secondo le indicazioni del sacerdote. Pertanto, qualificare tali locali come privata dimora e, di conseguenza, il furto al loro interno come furto in abitazione, non costituisce un errore manifesto.
Conclusioni: Le Implicazioni Pratiche della Decisione
L’ordinanza della Cassazione ha delle importanti implicazioni. In primo luogo, consolida un’interpretazione estensiva del concetto di ‘privata dimora’, includendovi anche luoghi di lavoro specifici come gli uffici parrocchiali, purché l’accesso sia controllato dal titolare. In secondo luogo, ribadisce la stretta interpretazione dei motivi di ricorso avverso le sentenze di patteggiamento, limitando la possibilità di contestare la qualificazione giuridica solo a casi di errore palese ed eclatante. La Corte ha quindi dichiarato il ricorso inammissibile, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria.
Un furto commesso negli uffici di una parrocchia può essere considerato furto in abitazione?
Sì. Secondo la Corte di Cassazione, gli uffici parrocchiali rientrano nel concetto di ‘privata dimora’ perché sono luoghi di lavoro dove il titolare (il parroco) svolge attività private e professionali e ha il diritto di regolare e limitare l’accesso a terzi.
È sempre possibile contestare la qualificazione giuridica di un reato in una sentenza di patteggiamento?
No. L’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. limita la possibilità di ricorrere in Cassazione avverso una sentenza di patteggiamento per errata qualificazione giuridica ai soli casi di ‘errore manifesto’, ossia un errore palese ed evidente dal testo della sentenza stessa, senza bisogno di ulteriori analisi di fatto.
Cosa si intende per ‘privata dimora’ ai fini del reato di furto?
La ‘privata dimora’ è un concetto ampio che include non solo l’abitazione, ma qualsiasi luogo in cui una persona svolge atti non occasionali della vita privata. Questo comprende anche luoghi di lavoro o professionali, a condizione che non siano aperti indiscriminatamente al pubblico e che l’accesso sia subordinato al consenso del titolare.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 8164 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 8164 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 29/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da: COGNOME nato il 05/10/1983
avverso la sentenza del 24/09/2024 del TRIBUNALE di TORINO
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
RG 39001/2024 – Consigliere COGNOME – Ud. 29 gennaio 2025
Rilevato che NOME COGNOME ricorre avverso la sentenza di patteggiamento del Tribunale di Torino che ha applicato la pena concordata tra le parti in relazione al reato di furto abitazione ascritto all’imputato con riferimento ad una borsa collocata negli uffici di un parrocchia.
Ritenuto che l’unico motivo di ricorso – che contesta il vaglio del Giudice del patteggiamento sulla qualificazione giuridica del fatto – non è consentito in sede di legittimità perché la possibilità di ricorrere per cassazione deducendo, ai sensi dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 1, comma 50, della legge 23 giugno 2017, n. 103, l’erronea qualificazione del fatto contenuto in sentenza, è limitata ai soli casi di errore manifesto, c conseguente inammissibilità della denuncia di errori valutativi in diritto che non risulti evidenti dal testo del provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 33145 del 08/10/2020, Cari, Rv. 279842; Sez. 6, n. 25617 del 25/06/2020, NOME COGNOME Rv. 279573; Sez. 3, n. 23150 del 17/04/2019, NOME COGNOME, Rv. 275971; Sez. 1, n. 15553 del 20/03/2018, COGNOME, Rv. 272619). In particolare, la sentenza Cari ha precisato che la verifica sull’osservanza della previsione contenuta nell’art. 444, comma 2, cod. proc. pen. deve essere condotta esclusivamente sulla base dei capi di imputazione, della succinta motivazione della sentenza e dei motivi dedotti nel ricorso. Tale esegesi è in linea con quella prevalente anche prima della riforma Orlando, laddove si era sancito che la qualificazione giuridica, per essere ritenuta erronea, dovesse essere palesemente eccentrica rispetto al contenuto del capo di imputazione, con conseguente inammissibilità di doglianze che presupponessero, quale necessario passaggio logico del motivo di ricorso, aspetti in fatto e probatori che non risultassero con immediatezza dalla contestazione (Sez. 7, Ordinanza n. 39600 del 10/09/2015, COGNOME, Rv. 264766).
Considerato che l’error iuris lamentato dal ricorrente non è connotato dall’evidenza sopra descritta. A questo riguardo, va ribadito il principio ormai consolidato nell giurisprudenza di legittimità secondo cui ai fini della configurabilità del reato previsto dall’ 624 bis cod. pen., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorati professionale (Cfr. Sez. U. , Sentenza n. 31345 del 23/03/2017; COGNOME; Rv. 270076 – 01). Nel caso di specie, se la valutazione deve essere svolta solo sulla base del capo di imputazione, il Collegio non può che rilevare che gli uffici delle parrocchie in astratto possono esser qualificati come luoghi di privata dimora, in quanto si tratta dei luoghi di lavoro dei parroci, questi ultimi svolgono tutte le attività connesse all’esercizio e alla gestione della parrocchi luoghi rispetto ai quali ciascun parroco è titolare dello ius excludendi alios e che, contrariamente a quanto assume il ricorrente, sono notoriamente aperti al pubblico solo sulla base delle indicazioni e della regolamentazione degli accessi voluta dal sacerdote.
Rilevato, pertanto, che – all’esito della procedura de plano di cui all’art. 610, comma 5bis cod. proc. pen. prevista ex lege nel caso di inammissibilità del ricorso avverso sentenza di patteggiamento – il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la condanna ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro quattromila in f della Cassa delle ammende.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese proce e al versamento della somma di quattromila euro in favore della cassa delle ammende. Così deciso il 29 gennaio 2025
Il consigliere estensore
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Il Presidente