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Furto in abitazione: quando si applica a un ufficio?

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di un imputato condannato per furto in abitazione, commesso in un luogo destinato ad attività professionale. La Suprema Corte ha confermato che anche un ufficio può essere qualificato come privata dimora se in esso si svolgono, anche in modo non occasionale, atti della vita privata e l’accesso non è libero al pubblico. Il ricorso è stato giudicato generico e non in grado di criticare efficacemente le motivazioni della sentenza d’appello.

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Pubblicato il 28 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Furto in abitazione: Anche l’ufficio può essere considerata privata dimora

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 34388/2025, ha affrontato un’importante questione relativa al reato di furto in abitazione, chiarendo i confini del concetto di ‘privata dimora’. Questa decisione conferma un orientamento consolidato, secondo cui anche un luogo destinato ad attività lavorativa o professionale può rientrare in tale nozione, con significative conseguenze sulla qualificazione giuridica del reato e sulla pena applicabile.

I Fatti di Causa

Il caso trae origine dal ricorso presentato da un imputato avverso una sentenza della Corte d’Appello. Quest’ultima, pur riformando parzialmente la sentenza di primo grado riconoscendo la prevalenza delle attenuanti generiche, aveva confermato la sua responsabilità penale per il delitto di furto aggravato, commesso all’interno di locali adibiti ad attività professionale.

L’imputato, tramite il suo difensore, aveva basato il ricorso su due motivi principali:
1. Violazione di legge: sosteneva che il luogo del furto non potesse essere qualificato come ‘privata dimora’ ai sensi dell’art. 624-bis del codice penale.
2. Vizio di motivazione: lamentava che la Corte d’Appello non avesse adeguatamente risposto alle specifiche argomentazioni difensive, volte a dimostrare che il luogo non avesse le caratteristiche di una privata dimora.

La nozione di furto in abitazione in un luogo di lavoro

Il punto centrale della controversia riguarda l’interpretazione del concetto di ‘privata dimora’. L’articolo 624-bis c.p. punisce più severamente chi commette un furto in un ‘luogo di privata dimora o nelle pertinenze di essa’. La giurisprudenza ha progressivamente ampliato questa nozione, andando oltre la semplice abitazione domestica.

La Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso, ha ribadito che per ‘privata dimora’ si intende qualsiasi luogo, anche diverso da quello di abitazione, in cui la persona compia, in modo non occasionale, atti della vita privata e dal quale abbia il diritto di escludere chiunque altro. In questo contesto, anche un ufficio, uno studio professionale o un laboratorio, sebbene destinati primariamente all’attività lavorativa, possono essere considerati privata dimora se al loro interno si svolgono anche attività personali e l’accesso è riservato e controllato dal titolare.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile per manifesta infondatezza e genericità. I giudici hanno osservato che la Corte d’Appello aveva correttamente motivato la sua decisione, basandosi sugli elementi emersi dalla rinnovazione dell’istruttoria, in particolare da una testimonianza. Era stato accertato che nel luogo del reato, pur essendo destinato ad attività professionale, si svolgevano non occasionalmente atti della vita privata. Inoltre, il luogo non era aperto al pubblico né accessibile a terzi senza il consenso del titolare.

La motivazione della sentenza impugnata era, quindi, congrua e in linea con la giurisprudenza consolidata delle Sezioni Unite (sent. D’Amico, n. 31345/2017). Il ricorso, al contrario, non si è confrontato con tale motivazione, limitandosi a riproporre le stesse doglianze già respinte, senza sviluppare una critica effettiva e puntuale del provvedimento impugnato. Questa mancanza di specificità ha portato inevitabilmente alla declaratoria di inammissibilità.

Le conclusioni

La decisione della Corte ha due importanti implicazioni pratiche. La prima è che il concetto di furto in abitazione è applicabile a una vasta gamma di luoghi, inclusi quelli di lavoro, a condizione che sia dimostrato lo svolgimento di atti della vita privata e un accesso non libero. Questo rafforza la tutela penale per tutti quei luoghi in cui la sfera privata di un individuo si manifesta.

La seconda implicazione riguarda la tecnica di redazione dei ricorsi per cassazione. La Corte ribadisce che non è sufficiente lamentare un vizio, ma è necessario confrontarsi criticamente con le argomentazioni della sentenza impugnata. Un ricorso generico o meramente ripetitivo è destinato all’inammissibilità, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende, come avvenuto nel caso di specie con la condanna al pagamento di 3.000 euro.

Un furto commesso in un ufficio può essere considerato furto in abitazione?
Sì, secondo la sentenza, un furto in un luogo destinato ad attività lavorativa può essere qualificato come furto in abitazione (art. 624-bis c.p.) se si dimostra che in tale luogo si svolgono non occasionalmente atti della vita privata e se non è aperto al pubblico né accessibile a terzi senza il consenso del titolare.

Perché il ricorso è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché i motivi erano manifestamente infondati e generici. L’imputato non ha formulato una critica efficace e puntuale alla motivazione della sentenza d’appello, la quale era invece congrua e conforme alla giurisprudenza consolidata sul tema della privata dimora.

Cosa comporta la dichiarazione di inammissibilità del ricorso per il ricorrente?
La dichiarazione di inammissibilità, ai sensi dell’art. 616 del codice di procedura penale, comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Inoltre, data la colpa nell’aver proposto un’impugnazione evidentemente inammissibile, è stato condannato a versare una somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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