Furto in abitazione: Anche l’ufficio può essere considerata privata dimora
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 34388/2025, ha affrontato un’importante questione relativa al reato di furto in abitazione, chiarendo i confini del concetto di ‘privata dimora’. Questa decisione conferma un orientamento consolidato, secondo cui anche un luogo destinato ad attività lavorativa o professionale può rientrare in tale nozione, con significative conseguenze sulla qualificazione giuridica del reato e sulla pena applicabile.
I Fatti di Causa
Il caso trae origine dal ricorso presentato da un imputato avverso una sentenza della Corte d’Appello. Quest’ultima, pur riformando parzialmente la sentenza di primo grado riconoscendo la prevalenza delle attenuanti generiche, aveva confermato la sua responsabilità penale per il delitto di furto aggravato, commesso all’interno di locali adibiti ad attività professionale.
L’imputato, tramite il suo difensore, aveva basato il ricorso su due motivi principali:
1. Violazione di legge: sosteneva che il luogo del furto non potesse essere qualificato come ‘privata dimora’ ai sensi dell’art. 624-bis del codice penale.
2. Vizio di motivazione: lamentava che la Corte d’Appello non avesse adeguatamente risposto alle specifiche argomentazioni difensive, volte a dimostrare che il luogo non avesse le caratteristiche di una privata dimora.
La nozione di furto in abitazione in un luogo di lavoro
Il punto centrale della controversia riguarda l’interpretazione del concetto di ‘privata dimora’. L’articolo 624-bis c.p. punisce più severamente chi commette un furto in un ‘luogo di privata dimora o nelle pertinenze di essa’. La giurisprudenza ha progressivamente ampliato questa nozione, andando oltre la semplice abitazione domestica.
La Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso, ha ribadito che per ‘privata dimora’ si intende qualsiasi luogo, anche diverso da quello di abitazione, in cui la persona compia, in modo non occasionale, atti della vita privata e dal quale abbia il diritto di escludere chiunque altro. In questo contesto, anche un ufficio, uno studio professionale o un laboratorio, sebbene destinati primariamente all’attività lavorativa, possono essere considerati privata dimora se al loro interno si svolgono anche attività personali e l’accesso è riservato e controllato dal titolare.
Le motivazioni della Corte di Cassazione
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile per manifesta infondatezza e genericità. I giudici hanno osservato che la Corte d’Appello aveva correttamente motivato la sua decisione, basandosi sugli elementi emersi dalla rinnovazione dell’istruttoria, in particolare da una testimonianza. Era stato accertato che nel luogo del reato, pur essendo destinato ad attività professionale, si svolgevano non occasionalmente atti della vita privata. Inoltre, il luogo non era aperto al pubblico né accessibile a terzi senza il consenso del titolare.
La motivazione della sentenza impugnata era, quindi, congrua e in linea con la giurisprudenza consolidata delle Sezioni Unite (sent. D’Amico, n. 31345/2017). Il ricorso, al contrario, non si è confrontato con tale motivazione, limitandosi a riproporre le stesse doglianze già respinte, senza sviluppare una critica effettiva e puntuale del provvedimento impugnato. Questa mancanza di specificità ha portato inevitabilmente alla declaratoria di inammissibilità.
Le conclusioni
La decisione della Corte ha due importanti implicazioni pratiche. La prima è che il concetto di furto in abitazione è applicabile a una vasta gamma di luoghi, inclusi quelli di lavoro, a condizione che sia dimostrato lo svolgimento di atti della vita privata e un accesso non libero. Questo rafforza la tutela penale per tutti quei luoghi in cui la sfera privata di un individuo si manifesta.
La seconda implicazione riguarda la tecnica di redazione dei ricorsi per cassazione. La Corte ribadisce che non è sufficiente lamentare un vizio, ma è necessario confrontarsi criticamente con le argomentazioni della sentenza impugnata. Un ricorso generico o meramente ripetitivo è destinato all’inammissibilità, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende, come avvenuto nel caso di specie con la condanna al pagamento di 3.000 euro.
Un furto commesso in un ufficio può essere considerato furto in abitazione?
Sì, secondo la sentenza, un furto in un luogo destinato ad attività lavorativa può essere qualificato come furto in abitazione (art. 624-bis c.p.) se si dimostra che in tale luogo si svolgono non occasionalmente atti della vita privata e se non è aperto al pubblico né accessibile a terzi senza il consenso del titolare.
Perché il ricorso è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché i motivi erano manifestamente infondati e generici. L’imputato non ha formulato una critica efficace e puntuale alla motivazione della sentenza d’appello, la quale era invece congrua e conforme alla giurisprudenza consolidata sul tema della privata dimora.
Cosa comporta la dichiarazione di inammissibilità del ricorso per il ricorrente?
La dichiarazione di inammissibilità, ai sensi dell’art. 616 del codice di procedura penale, comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Inoltre, data la colpa nell’aver proposto un’impugnazione evidentemente inammissibile, è stato condannato a versare una somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 34388 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 34388 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 10/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME a FASANO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 24/06/2024 della CORTE APPELLO di BARI
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
Rilevato che COGNOME NOME ricorre avverso la sentenza della Corte di appello di Bari che, parziale riforma della sentenza di primo grado, ha ritenuto la prevalenza delle attenuanti generi e ha ridetermiNOME in mitius il trattamento sanzioNOMErio, confermandone la penale responsabilità per il delitto di cui agli artt. 624-bis e 625, comma 1, n. 2 cod. pen.;
considerato che il primo motivo di ricorso – che denuncia la violazione della legge penal con riguardo agli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 624-bis cod. pen. – e i motivo di ricorso – che deduce il vizio di motivazione, in quanto il provvedimento impugNOME no avrebbe argomentato sulle specifiche doglianze formulate dall’appellante (relative alla missi prodotta per escludere che il fatto sia stato commesso in un luogo di privata dimora – so manifestamente infondati e generici in quanto la Corte territoriale, sulla scorta degli ele acquisiti a seguito della rinnovazione dell’istruttoria (e, segnatamente, della testimonianza assun ha indicato gli elementi da cui ha tratto che nel luogo del commesso reato (di cui ha fornito si descrizione sia l’ordinario utilizzo: cfr. p. 7 s. della sentenza impugnata), pur essendo destina attività lavorativa o professionale, si svolgessero non occasionalmente atti della vita privata fosse aperto al pubblico né accessibile a terzi senza il consenso del titolare, così argomentando conformità alla consolidata giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. U, n. 31345 del 23/03/2 COGNOME, Rv. 270076 – 01; cfr. pure Sez. 4, n. 18793 del 28/03/2019, COGNOME, Rv. 275762 – 01), così disattendendo in maniera congrua la prospettazione difensiva; e il ricorso non si è confront con tale motivazione difettando, dunque, di un’effettiva critica nei confronti del provvedim impugNOME (Sez. 6, n. 8700 del 21/01/2013, COGNOME, Rv. 254584 – 01; conf. Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, Camnnarota, Rv. 262575 – 01);
ritenuto che, pertanto, deve essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso, cui consegue ex art. 616 cod. proc. pen. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché ravvisandosi profili di colpa in ragione dell’evidente inammissibilità dell’impugnazione (cfr. cost., sent. n. 186 del 13/06/2000; Sez. 1, n. 30247 del 26/01/2016, Failla, Rv. 267585 – 01) versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che appare equo determinare in euro tremila;
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spes processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 10/09/2025.