Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 1001 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 1001 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 18/12/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato il 23/07/1974
avverso la sentenza del 22/04/2024 della CORTE APPELLO di ROMA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
svolta la relazione dal Consigliere NOME COGNOME
il Procuratore generale, in persona della sostituta NOME COGNOME riportandosi alla memoria depositata, ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso;
l’avv. NOME COGNOME del foro di Roma, per COGNOME NOME COGNOME ha insistito nei motivi di ricorso, chiedendone l’accoglimento.
Ritenuto in fatto
1. La Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza con la quale il Tribunale cittadino aveva condannato NOME COGNOME NOME COGNOME per il reato di furto in abitazione aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 11, cod. pen. (in Roma’ 04/12/2020). Nel ricostruire la vicenda, quel giudice ha precisato che la persona offesa, NOME COGNOME aveva sporto denuncia-querela per il patito furto di monili e vari oggetti di valore sottratti dalla sua abitazione, addebitandolo all’imputata In particolare, secondo il racconto della persona offesa, costei era stata ricoverata in ospedale da fine luglio a inizio settembre 2020 e, in quel periodo, la propria collaboratrice domestica, odierna imputata, si era recata spesso presso l’abitazione per svolgere il suo lavoro, il relativo rapporto essendo iniziato già l’anno prima. Dopo le dimissioni dall’ospedale, la donna era stata assistita dall’imputata che aveva libero accesso a ogni stanza dell’abitazione, disponendo anche delle chiavi. Il maltolto era occultato all’interno di un pianoforte, ove gli oggetti erano stati riposti da dichiarante con l’aiuto della COGNOME, unica persona a conoscenza del nascondiglio. A seguito di perquisizione, erano stati rinvenuti presso l’imputata alcuni monili, direttamente consegnati dalla donna ai militari, altri preziosi non essendo stati invece recuperati. La condotta contestata è stata ritenuta aggravata dal rapporto di lavoro con la persona offesa, in virtù del quale l’imputata aveva avuto anche la disponibilità delle chiavi di casa.
2. La difesa ha proposto ricorso, formulando due motivi.
Con il primo, ha dedotto violazione di legge e vizio della motivazione quanto alla prova della sottrazione degli oggetti, mai riconosciuti dalla persona offesa.
Con il secondo, ha dedotto vizio di motivazione in ordine all’omessa riqualificazione del fatto da ipotesi di cui all’art. 624 bis, cod. pen. a furto ai sensi dell’art. 624, stesso codice, atteso che la ragione della presenza dell’imputata nell’abitazione della persona offesa era da ricondursi all’espletamento dell’attività lavorativa, l’introduzione essendo avvenuta con il consenso della titolare e non al fine di perpetrare l’azione predatoria.
Il procedimento, già assegnato dal magistrato addetto all’esame preliminare dei ricorsi alla Settima Sezione penale di questa Corte, è stato rimesso alla Quarta Sezione per la trattazione.
Il Procuratore generale, in persona della sostituta NOME COGNOME ha rassegnato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso, non avendo la doglianza costituito oggetto di apposito motivo di gravame.
Considerato in diritto
Il ricorso va accolto nei termini che si vanno a esporre.
2. Il primo motivo è infondato.
I giudici di merito hanno richiamato la circostanza che era stata la stessa imputata a consegnare agli inquirenti due delle collane sottratte alla COGNOME e la difesa non ha contestato tale assunto che, pertanto, ha sostenuto anche la conclusione implicita che tali oggetti, così come quelli mai ritrovati, fossero stati prele dall’imputata dal nascondiglio a lei noto. Trattasi di motivazione che non tradisce alcun vizio, essendo in sé logica e scevra da contraddizioni rispetto al materiale probatorio acquisito, la conclusione essendo giustificata dalla consegna di alcuni degli oggetti facenti parte del gruppo di quelli nascosti dalla persona offesa, non avendo la difesa introdotto elementi, eventualmente pretermessi dai giudici di merito, idonei a incrinare la portata dimostrativa di quelli valutati.
3. Il secondo motivo è, invece, fondato.
In ordine alla qualificazione giuridica del fatto addebitato all’imputata, deve intanto premettersi che il Supremo collegio di nomofilachia, nel comporre un contrasto giurisprudenziale sul discrirnine tra le fattispecie di cui agli artt. 624 e 624 bis, cod. pen., ha optato per una interpretazione assai rigorosa della nozione di privata dimora, constatandone una dilatazione ermeneutica da parte della giurisprudenza di legittimità, a tratti stridente con il principio di maggior offensività che deve orienta giudice nel valutare le connotazioni di maggior severità sanzionatoria rispetto all’ipotesi di furto “base”. Pertanto, ai fini della configurabilità del più grave r previsto dall’art. 624 bis cod. pen., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale (Sez. U, 31345 del 23/03/2017, COGNOME, Rv. 270076 – 01).
Alla stregua di tale rigorosa lettura, si è dunque escluso che nella nozione rientrino, per esempio, i luoghi di lavoro, salvo che il fatto sia avvenuto all’interno un’area riservata alla sfera privata della persona offesa, mentre vi rientrano quelli adibiti «in modo apprezzabile sotto il profilo cronologico allo svolgimento di atti dell vita privata, non limitati questi ultimi soltanto a quelli della vita familiare e i
(propri dell’abitazione)», nonché i luoghi che, ancorché non destinati allo svolgimento della vita familiare o domestica, abbiano, comunque, le caratteristiche dell’abitazione. Sono stati, così, evidenziati tre elementi necessari ai fini della sussistenza dell’ipote di reato in esame: a) l’utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne; b) la durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità; c) la non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare (in motivazione Sez. U, COGNOME cit.).
Ora, nella specie, non è in discussione la natura del luogo nel quale il furto è stato consumato, né la relazione tra lo stesso e la persona offesa, bensì la relazione tra il luogo e l’agente, come emerge dallo stesso dato letterale della norma incriminatrice («Chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, mediante introduzione in un edifi o in un altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze d essa»). In ciò va colto l’errore in diritto dei giudici territoriali, sul quale la dif posto l’accento.
Infatti, sotto tale, specifico aspetto, questa Sezione ha già chiarito, in un cas nel quale l’agente aveva posto in essere la condotta sfruttando la relazione di ospitalità con la vittima, che, ai fini della configurabilità del reato di furto in abita è necessario che sussista il nesso finalistico – e non un mero collegamento occasionale – fra l’ingresso nell’abitazione e l’impossessamento della cosa mobile, in quanto il nuovo testo dell’art. 624 bis cod. pen., novellato dall’art. 2, c. 2, della legge n. 128/2001, pur ampliando l’area della punibilità in riferimento ai luoghi di commissione del reato, non ha innovato quanto alla strumentalità dell’introduzione nell’edificio, quale mezzo per commettere il reato, già preteso dalla previgente normativa di cui all’art. 625, comma 1, n. 1, cod. pen. (in motivazione, Sez. 4, n. 18792 del 28/03/2019, COGNOME, Rv. 276087 – 01, in cui si opera un richiamo anche a Sez. 5, n. 21293 del 01/04/2014, COGNOME, Rv. 260226 – 01 e n. 14868 del 15/12/2009 dep. il 2010, COGNOME, Rv. 246886 – 01; ma vedi anche Sez. 4, n. 3450 del 20/12/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275115 – 01, sempre in fattispecie in cui l’agente aveva avuto accesso all’abitazione in quanto ospite del proprietario).
Anche in questa sede, va quindi ribadito che la mera occasionalità della presenza all’interno del luogo di privata dimora o nelle sue pertinenze, è insufficiente configurare la fattispecie contestata, sia in relazione all’abrogato art. 625 c. 1, co pen., sia mutatis mutandis a quella successivamente introdotta dell’art. 624 bis, cod. pen. Infatti, la dizione «…mediante introduzione in un edificio o in un altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa», contenuta nel testo attuale, esprime in maniera chiara il rapporto di strumentalità
dell’introduzione nell’edificio rispetto all’azione predatoria posta in essere, essendo u mezzo per commettere il reato, non diversamente da quanto era precedentemente espresso nel testo abrogato con le parole «…per commettere il fatto, si introduce o si intrattiene in un edificio .. ».
Del resto, il legislatore, quando ha voluto prescindere dal nesso finalistico, ha agito diversamente, correlando ad esempio le aggravanti di cui all’art. 625 nn. 6 e 7, cod. pen. alla pura e semplice collocazione delle cose sottratte in determinati luociihi, uffici o stabilimenti. E, infatti, l’esegesi letterale della norma (come affermato in Se 5, n. 21293/2014, COGNOME, cit., in motivazione) porta anche a rilevare che la nuova disposizione non ha riprodotto la possibilità di configurare la fattispecie anche nel caso in cui l’impossessamento sia realizzato durante l’abusivo trattenimento nell’edificio, previsto invece espressamente dall’art. 625, n. 1, cit. In quel caso, infatti, quest Corte di legittimità ritenne correttamente configurabile solo l’aggravante di cui all’ar 61 n. 11, cod. pen.
Viceversa, si avrà furto in abitazione quando l’introduzione nell’abitazione del soggetto passivo avvenga a seguito di consenso di quest’ultimo carpito con l’inganno (Sez. 5, n. 13582 del 02/03/2010, Torre, Rv. 246902 – 01), poiché la fattispecie incriminatrice dettata dall’art. 624 bis richiama indubbiamente la sottostante condotta di violazione di domicilio, sanzionata dall’art. 614, cod. pen., norma che riguarda comportamenti di introduzione nell’altrui dimora, realizzati “con inganno” o “contro la volontà espressa o tacita di chi ha diritto di escluderlo”.
4. Ciò posto, correttamente il Procuratore generale ha rilevato che la doglianza di cui al secondo motivo in esame non ha costituito oggetto di apposito motivo di gravame, ma da ciò non può derivare la conseguenza rappresentata nelle rassegnate conclusioni. Costituisce, infatti, principio consolidato quello secondo il quale l questione sulla qualificazione giuridica del fatto può essere decisa dalla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 609 cod. proc. pen. e, pertanto, dedotta per la prima volta in sede di giudizio di legittimità, purché l’impugnazione non sia inammissibile e per la sua soluzione non siano necessari accertamenti di fatto (Sez. U, n. 40150 del 21/06/2018, COGNOME, in motivazione; Sez. 2, n. 17235 del 17/01/2018, COGNOME F;:v. 272651 – 01; Sez. 5, n. 23391 del 17/03/2017, Alama, Rv. 270144 – 01), entro i limiti in cui esso sia stato già storicamente ricostruito dai giudici di merito (Sez. 2, 7462 del 30/01/2018, COGNOME, Rv. 272091 – 01; Sez. 6, n. 6578 del 25/01/2013, COGNOME, Rv. 254543 – 01; Sez. 1, n. 13387 del 16/05/2013, COGNOME, Rv. 259730 01) e se la parte è messa in condizione di interloquire sulle diverse possibili definizioni giuridiche del fatto (Sez. 6, n. 41767 del 20/06/2017, COGNOME, Rv. 271391 – 01).
Fatta tale premessa, deve osservarsi che, nella specie, non è dubbio che l’azione predatoria sia stata contestata alla COGNOME essendosi la stessa giovata delle chiavi, legittimamente detenute, che ne abilitavano l’accesso nella casa della persona offesa e che tale possesso era ricollegato proprio al rapporto di lavoro di collaborazione domestica. Trattasi di circostanza che non necessita di alcuna verifica, avendo i giudici del merito ricostruito i fatti alla stregua di quanto denunciato dal p.o., secondo la quale l’imputata era divenuta sua collaboratrice domestica sin dall’anno precedente ai fatti, era consegnataria delle chiavi di casa e autorizzata ad entrarvi anche in sua assenza per l’espletamento delle incombenze lavorative.
Peraltro, l’erronea qualificazione giuridica risulta dalla stessa formulazione dell’imputazione, con la quale è stata contestata all’imputata l’aggravante dell’abuso della relazione d’opera che presuppone, per l’appunto, quella relazione qualificata che esclude che, nella specie, l’introduzione nel luogo di privata dimora sia avvenuto al fine di commettere l’azione predatoria, essa avendo costituito solo l’occasione del commesso furto.
La sentenza, pertanto, deve essere annullata limitatamente alla qualificazione giuridica del fatto ex art. 624 bis, cod. pen., dovendosi correttamente riqualificare quale furto ai sensi degli artt. 624 e 61 n. 11, cod. pen., rinviandosi, per conseguente rideterminazione della pena, ad altra Sezione della Corte d’appello di Roma, con rigetto nel resto del ricorso e declaratoria di irrevocabilità dell affermazione di responsabilità.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla qualificazione giuridica del fatto ex art. 624 bis cod. pen. anziché ex artt. 624 e 61 n. 11 cod. pen., qualificazione corretta, e rinvia, per la conseguente rideternninazione della pena, ad altra Sezione