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Furto in abitazione con inganno: Cassazione conferma

La Corte di Cassazione dichiara inammissibili i ricorsi di due individui condannati per furto in abitazione. La sentenza ribadisce che il consenso all’ingresso ottenuto con l’inganno (fingendosi tecnici di una compagnia energetica) non esclude il reato di furto in abitazione. Inoltre, conferma la corretta applicazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per una durata fissa di cinque anni, in caso di condanna superiore a tre anni di reclusione, respingendo l’argomentazione che dovesse essere pari alla pena principale.

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Pubblicato il 29 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Furto in Abitazione con Inganno: Il Consenso non Salva dal Reato

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha affrontato un caso emblematico di furto in abitazione con inganno, fornendo chiarimenti cruciali sulla validità del consenso ottenuto con la frode e sulla corretta applicazione delle pene accessorie. La vicenda riguarda due individui che, fingendosi operatori di una compagnia energetica, si sono introdotti nell’abitazione della vittima per commettere un furto. La Suprema Corte ha dichiarato i loro ricorsi inammissibili, confermando la condanna e ribadendo principi giuridici di notevole importanza pratica.

I Fatti alla base della Decisione

Due soggetti sono stati condannati in appello per furto aggravato in abitazione, commesso nell’ambito di un medesimo disegno criminoso. La loro strategia consisteva nel presentarsi presso l’abitazione della vittima come dipendenti di una nota compagnia energetica, con il pretesto di effettuare controlli sulle forniture. Una volta ottenuto l’ingresso grazie a questo stratagemma, si impossessavano di beni mobili presenti nell’appartamento. Contro la sentenza di condanna, entrambi hanno proposto ricorso per Cassazione.

I Motivi del Ricorso

I ricorsi si basavano su due argomenti principali:
1. Il primo ricorrente contestava la durata della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Essendo stato condannato a tre anni e cinque mesi di reclusione, sosteneva che l’interdizione dovesse avere la stessa durata, e non quella di cinque anni inflitta dai giudici di merito.
2. Il secondo ricorrente sosteneva che non si potesse configurare il reato di furto in abitazione, poiché l’ingresso nell’immobile era avvenuto con il consenso della persona offesa. A suo dire, il fatto che la vittima li avesse fatti entrare volontariamente, anche se sulla base di un pretesto, escludeva uno degli elementi costitutivi del reato.

L’Analisi della Cassazione sul furto in abitazione con inganno

La Corte di Cassazione ha smontato completamente la tesi difensiva relativa al consenso. Gli Ermellini hanno richiamato un principio consolidato in giurisprudenza: il delitto di furto in abitazione sussiste anche quando l’agente si introduce nella dimora altrui con il consenso del proprietario, se tale consenso è stato ‘carpito mediante inganno’.

Il fatto che gli imputati si siano presentati come tecnici per un controllo fittizio costituisce proprio l’inganno che vizia alla radice il consenso prestato dalla vittima. La finalità reale dell’ingresso non era quella lecita dichiarata (il controllo), ma quella illecita (il furto). Pertanto, il consenso ottenuto è giuridicamente irrilevante e non esclude la punibilità per il reato di cui all’art. 624-bis del codice penale.

La Questione delle Pene Accessorie

Anche il motivo relativo alla pena accessoria è stato giudicato manifestamente infondato. La Corte ha chiarito che l’articolo 29 del codice penale stabilisce in modo inequivocabile che la condanna alla reclusione per un tempo superiore a tre anni comporta l’interdizione dai pubblici uffici per la durata di cinque anni. Si tratta di una durata fissa, predeterminata dalla legge, che non lascia spazio a discrezionalità del giudice. La norma residuale dell’articolo 37, che lega la durata della pena accessoria a quella della pena principale, si applica solo nei casi in cui la legge non preveda una durata specifica, circostanza che non ricorre nel caso in esame.

Le Motivazioni della Decisione

Sulla base di queste considerazioni, la Suprema Corte ha dichiarato entrambi i ricorsi inammissibili. La Corte ha ritenuto le argomentazioni dei ricorrenti ‘manifestamente infondate’, evidenziando una ‘colpa’ nel proporre impugnazioni prive di evidente fondamento giuridico. Di conseguenza, oltre alla conferma della condanna, i ricorrenti sono stati condannati al pagamento delle spese processuali e di una somma di tremila euro a favore della Cassa delle ammende, come previsto dall’articolo 616 del codice di procedura penale.

Conclusioni

Questa ordinanza rafforza due principi fondamentali. Primo, nel contesto del furto in abitazione con inganno, il permesso di entrare ottenuto con un pretesto non ha alcun valore scriminante; ciò che conta è l’intenzione criminale e l’introduzione illegittima nel domicilio altrui. Secondo, le pene accessorie, quando previste dalla legge in una misura fissa, devono essere applicate secondo tale previsione, senza possibilità di adeguamento alla durata della pena principale. La decisione serve da monito sulla necessità di valutare attentamente la fondatezza dei motivi prima di adire la Corte di Cassazione, per evitare ulteriori conseguenze economiche in caso di inammissibilità.

Entrare in una casa con il permesso del proprietario, ma con l’intenzione di rubare, è considerato furto in abitazione?
Sì. Secondo la Corte di Cassazione, se il consenso all’ingresso è stato ottenuto con l’inganno (ad esempio, fingendosi tecnici o rappresentanti), tale consenso è viziato e non esclude il reato di furto in abitazione (art. 624-bis c.p.).

Qual è la durata della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per una condanna a più di tre anni di reclusione?
Per una condanna alla reclusione superiore a tre anni, la legge (art. 29 c.p.) prevede una durata fissa e non discrezionale di cinque anni per la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Cosa succede se si presenta un ricorso in Cassazione ritenuto ‘manifestamente infondato’?
Se la Corte di Cassazione dichiara un ricorso inammissibile per manifesta infondatezza, il ricorrente viene condannato non solo al pagamento delle spese processuali, ma anche al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, il cui importo è determinato equitativamente dalla Corte stessa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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