Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 44707 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 44707 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 25/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto nell’interesse di:
d.lgs 196/03 in quanto:
D disposto d’ufficio
a richiesta di perte
imposto dalla legg
NOME COGNOME I, nato a I
GLYPH omissis
avverso la sentenza del 05/04/2024 della Corte di appello di Salerno; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico ministero, in persona del sostituto Procuratore generale dott. NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso; udito il difensore del ricorrente, avv. NOME COGNOME che ha insistito per l’annullamento della sentenza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Salerno, con la sentenza indicata in epigrafe, confermava integralmente la decisione del Tribunale in sede, che all’esito del giudizio abbreviato aveva condannato l’imputato alla pena ritenuta di giustizia per i delitti di rapina aggravata, maltrattamenti e resistenza a pubblico ufficiale.
1.1. Avverso tale sentenza ricorre l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, deducendo a motivi della impugnazione la violazione della legge penale incriminatrice ed il vizio esiziale di motivazione in appresso sintetizzati (in riferimento al solo delitto di rapina), ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.:
art. 606, comma 1, lett. b ed e, cod. proc. pen., per avere la Corte confermato il giudizio di responsabilità in riferimento alla contestata rapina del telefono cellulare acquistato dall’imputato e comodato alla persona offesa, pur non chiarendo in motivazione come possa ritenersi integrato il “tipo” incriminato ove la sottrazione violenta abbia avuto ad oggetto la cosa propria solo imprestata alla persona che la deteneva e cui fu poi sottratta.
CONSIDERATO IN DIRITTO
E’ infondato il motivo relativo alla condanna per la rapina avente ad oggetto il telefono cellulare (capo 1 dell’imputazione) sottratto con violenza alla persona offesa, che lo deteneva e lo usava, per averlo ricevuto in comodato dallo stesso agente, subito dopo l’acquisto.
1.1. I giudici di merito, pur prendendo atto della dichiarazione esplicita della persona offesa (ascoltata in udienza camerale a seguito della richiesta di definizione con rito abbreviato condizionato alla escussione nel contraddittorio), che aveva affermato di aver subito la sottrazione violenta del telefono cellulare che lo stesso imputato aveva acquistato per sé, per poi imprestarglielo, hanno ritenuto configurabile la rapina, atteso che nelle dichiarazioni rese nella immediatezza del fatto la persona offesa aveva sempre riferito di aver subito la sottrazione violenta del proprio apparecchio cellulare (evidentemente quello che usava e deteneva). La successiva precisazione, con la quale la persona offesa chiariva i termini della proprietà della res e della detenzione della stessa, è stata tenuta in assoluto non cale dalla Corte di merito, atteso che è stata ritenuta non credibile la “ritrattazione” successiva rispetto al tenore delle prime dichiarazioni
rese nell’immediatezza e certamente utilizzabili ai fini del decidere, in ragione del rito prescelto.
1.2. Orbene, va premesso che non appare affatto manifestamente irragionevole l’argomento che tende a privilegiare l’attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa nella immediatezza del fatto, rispetto a quelle successivamente meditate, trattandosi di questione attinente alla valutazione della prova, patrimonio del giudice del merito (Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, F., Rv. 262575 – 01); come pure deve rilevarsi che il profitto tratto dalla condotta illecita sottrattiva può consistere in qualsiasi vantaggio o utilità, non necessariamente patrimoniale (Sez. 2, n. 37861 del 9/6/2023, COGNOME, Rv. 285190). Del pari, non può sottacersi che la peculiarità della fattispecie descritta in imputazione s, distingue per la sottrazione ed il successivo impossessamento anche dei contenuti informativi e rappresentativi dello strumento informatico già acquistato dall’agente e poi comodato alla vittima della spoliazione, il che consente di ritenere comunque integrato il tipo (Sez. 2, n. 23177 del 16/04/2019, COGNOME, Rv. 276104 – 01; Sez. 2, n. 11467 del 10/03/2015, COGNOME, Rv. 263163 – 01), attesa la rappresentazione della chiara volontà di sottrarre il “contenitore-hardware” al fine di controllarne i contenuti informatici.
1.2.1. Il tema specifico posto in diritto con il motivo di ricorso è però quello dell’ammissibilità del furtum rei suae. Il legislatore del 1930 ha tenuto a superare l’equivoco cui dava luogo la formulazione dell’art. 402 del codice (Zanardelli) del 1889 “si impossessa della cosa mobile altrui … senza il consenso di colui al quale essa appartiene”, focalizzando i termini oggettivi della incriminazione sui concetti di sottrazione, impossessamento, altruità della cosa e detenzione della stessa da parte di chi ne subisce la sottrazione. Resta quindi chiarito che il titolare del diritto di proprietà sulla cosa possa essere persona diversa da chi, per un titolo qualsiasi la detiene materialmente, potendo quindi rivendicarne il possesso ex actis facendosi ragione da sé medesimo.
Quello dell’altruità rappresenta un elemento normativo delle fattispecie di furto e di rapina, il cui accertamento comporta anzitutto il richiamo e l’eventuale applicazione delle regole civilistiche in materia di acquisto della proprietà dei beni mobili, di possesso, del loro uso e godimento (diritto di godere e disporre in modo pieno ed esclusivo delle cose, naturalmente entro limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti ex lege). Tuttavia, la dottrina penalistica si è posta il problema di verificare se la soluzione che scaturisce dall’applicazione delle regole civilistiche risulti conforme alle esigenze di tutela proprie del diritto penale, e di comprendere se il termine «altrui» indichi una cosa di proprietà di un altro soggetto oppure indichi una cosa che è legata ad un soggetto anche diverso dal proprietario, da un vincolo di interesse che si concreti un diritto di uso, di godimento o di garanzia.
La necessità di una precisa definizione del concetto di altruità si acutizza dinnanzi al quesito se possa configurarsi il c.d. furtum rei propriae.
Per dirimere i dubbi circa la configurabilità del furtum rei propriae, occorre definire, quindi, il concetto di altruità, che tendenzialmente varia a seconda del bene giuridico ritenuto presidiato dalla incriminazione. Una prima opinione ruota attorno alla nozione civilistica di proprietà e ritiene che tale diritto sulla res debba sussistere necessariamente in capo ad un soggetto diverso dall’agente. Tale dottrina si richiama al dato sistematico: l’art. 627 cod. pen., che sanziona la sottrazione di cose comuni, non indica un bene nel contemporaneo possesso di più soggetti, bensì il bene di proprietà di più persone. Se ne ricava che nel sistema dei reati contro il patrimonio, per stabilire se una cosa sia altrui o comune occorre avere riguardo alla proprietà e non al possesso. Si ritiene, inoltre, che sarebbe incongruo sanzionare con una pena più mite una cosa solo in parte di altri e con una pena maggiore chi sottrae una cosa interamente sua. Pertanto, secondo questa impostazione, «altrui» sarebbe solo la cosa di proprietà di altri a pena di incorrere nella violazione del principio di non contraddizione. Ad avviso di altra dottrina, che si origina dai sostenitori della teoria del rapporto fattuale, è perfettamente configurabile la fattispecie del furtum rei propriae, dovendo ritenersi sufficiente che la cosa sia sottratta alla sfera possessoria di un soggetto diverso dall’agente. Il requisito di altruità della cosa mobile scolpito nel codice vigente va pertanto letto in armonia con i precetti della Costituzione repubblicana successivamente intervenuta. Ne discende una lettura dell’elemento normativo della fattispecie alla luce dell’art. 42 Cost., che ha ridimensionato l’estensione dei confini della proprietà privata, tutelandola nella misura in cui questa rivesta anche una utilità sociale. Alla luce di tale principio, dovrebbero essere escluse interpretazioni della norma che possano in qualsiasi modo legittimare eventuali abusi da parte del proprietario, in contrasto con gli interessi della collettività. L’ammissione della configurabilità del furto di cosa propria non sarebbe invece in conflitto con il principio di non contraddizione, perché se su una cosa di proprietà di una persona insistono diritti di godimento o di garanzia facenti capo ad altri, quella cosa è da ritenersi facente parte sia del patrimonio del proprietario, che di quello dei titolari dei già menzionati diritti. Non vi sarebbe nemmeno un contrasto con il principio di proporzione, in quanto l’art. 627 cod. pen. concerne una fattispecie del tutto diversa dal furto anche in riferimento all’oggettività giuridica e in quanto l’art. 334 cod. pen. indicherebbe una ulteriore ragione per ammettere la figura del furto di cosa propria. Si argomenta, infatti, che se ai sensi dell’art. 334 cod. pen. si punisce la sottrazione di una cosa su cui il creditore pignoratizio ha solo un diritto di ritenzione, non avrebbe senso non punire la sottrazione della cosa propria su cui altri vantino ben più pregnanti diritti di godimento. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
L’ammissibilità del furto di cosa propria, in definitiva, è la conclusione più coerente con l’oggettività giuridica del reato e con gli scopi di tutela perseguiti con l’incriminazione. Se infatti il furto tutela non la proprietà ma la detenzione e lo stato di fatto che lega le cose mobili all’interesse di una o più persone, non appare coerente escludere la rilevanza penale delle sottrazioni compiute dal proprietario su cose versate nella legittima disponibilità altrui.
Per cosa altrui, pertanto, si deve intendere (agli effetti penali) quella legata ad un soggetto, anche diverso dal proprietario, da una effettiva relazione di interesse o da ogni tipo di diritto che, nel caso concreto, abbia un peso economico e sociale maggiore del diritto di cui è titolare il soggetto attivo del reato.
1.2.2. Anche nella giurisprudenza non vi è, sul punto, unanimità di vedute. Diverse decisioni di questa Corte hanno tracciato gli elementi distintivi fra il reato di furto e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma sempre sul presupposto che si trattasse di cose altrui (Sez. 5, n. 55026 del 26/09/2016, Rv. 268907; Sez. 5, n. 32383 del 19/02/2015, Rv. 264349; Sez. 5, n. 4975 del 13/12/2006, dep. 2007, Rv. 236316). Alla nozione di altruità come indicatrice di una relazione di interesse con qualsiasi soggetto, si è rifatto un primo orientamento di questa Corte, per ritenere configurabile il furto del proprietario della cosa mobile ai danni del creditore pignoratizio, «secondo la più recente dottrina e giurisprudenza il requisito dell’altruità di cui all’art. 624 c.p. no interviene a limitare il numero dei soggetti attivi del reato, bensì, è messo a precisare che il vincolo tra un soggetto e la cosa, in cui consiste la detenzione, merita di essere penalmente salvaguardato a conazione che vi sia almeno un soggetto, diverso dall’agente, il quale, al momento del fatto, si legato alla cosa stessa da un’effettiva relazione d’interesse: nel caso di specie il pegno» (Sez. 4, n. 229 del 24/01/1995, Rv. 201297). Con altra successiva pronuncia, questa Corte ha escluso che anche il proprietario, che non abbia il possesso della cosa possa commettere furto: ciò alla luce di una «interpretazione sistematica degli artt. 624, 334 e 388 cod. pen., e in particolare dell’art. 334 cod. pen., comma terzo e art. 388 cod. pen., comma terzo, che prevedono una pena minore quando la sottrazione o il danneggiamento di una cosa sottoposta a sequestro o a pignoramento viene commessa dal proprietario della cosa non affidata alla sua custodia. Infatti, si è rilevato in dottrina che se il termine “altrui” non veniss inteso nel significato di proprietà di altri si cadrebbe nell’assurdo di punire il proprietario che sottrae un bene proprio dato in pegno in maniera più grave del proprietario che sottrae un bene sottoposto a sequestro o a pignoramento, e non sembra dubbio che questa seconda fattispecie sia più grave, perché finisce con il ledere, oltre all’interesse funzionale della pubblica amministrazione, nell’art. 334 cod. pen., o all’interesse all’osservanza dei provvedimenti giudiziali, nell’art. 388 Corte di Cassazione – copia non ufficiale
cod. pen., anche l’interesse patrimoniale a tutela del quale sono stati disposti il sequestro o il pignoramento. Anche un bene dato in pegno -si è aggiunto- potrebbe formare oggetto di un pignoramento o di un sequestro e, se si dovesse seguire la tesi giurisprudenziale innanzi richiamata, “si dovrebbe concludere che la sottrazione del bene al creditore pignoratizio da parte del proprietario integra normalmente un furto, ma costituisce il meno grave reato di sottrazione di cosa sottoposta a sequestro o a pignoramento, nelle diverse ipotesi previste dall’art. 344 c.p., comma terzo e art. 388 c.p., comma terzo, nel caso in cui il bene dato in pegno sia stato anche sequestrato o pignorato”» (Sez. 5, n. 46308 de.’ 24/10/2007, Rv. 238292). La pronuncia certamente più autorevole è quella delle Sezioni unite (Sez. U, n. 40354 del 18/07/2013, COGNOME, Rv. 255975). Chiamate a dirimere due questioni controverse nella giurisprudenza di legittimità, le Sezioni unite hanno osservato ed enunciato il principio di diritto secondo cui «il bene giuridico protetto dal delitto di furto è individuabile non solo nella proprietà o nei diritti reali personali o di godimento, ma anche nel possesso – inteso come relazione di fatto che non richiede la diretta fisica disponibilità – che si configura anche in assenza di un titolo giuridico e persino quando esso si costituisce in modo clandestino o illecito, con la conseguenza che anche al titolare di tale posizione di fatto spetta la qualifica di persona offesa e, di conseguenza, la legittimazione a proporre querela» (sulla base di questo ultimo principio è stata riconosciuta al responsabile di un supermercato, persona diversa dal proprietario danneggiato, la legittimazione a proporre querela).
1.2.3. Consegue che, affinché possa concepirsi un furto (così come la rapina) da parte del proprietario sulla cosa propria, è necessario che questa sia effettivamente passata nel possesso (dominio di fatto) altrui. Difatti, la mera detenzione materiale della cosa altrui, senza che il detentore possa esercitare sopra di essa alcuna attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà o d’altro diritto reale, non è possesso e perciò non solo la proprietà, ma altresì il possesso rimangono in tal caso al proprietario. L’art. 624 cod. pen. parla bensì della cosa sottratta «a chi la detiene», ma richiede che l’agente «si impossessi» di tale cosa, il che evidentemente presuppone che l’agente stesso non abbia già il possesso della cosa medesima, e dimostra che altro è la semplice detenzione materiale, ed altro il fatto giuridico del possesso. Quando una persona, diversa dal proprietario, detiene la cosa di costui per un titolo che importi l’uso o il godimento della medesima, in base ad un diritto reale o ad un diritto d’obbligazione, al proprietario manca il possesso, che è invece nell’altro. Quindi il primo, sottraendo per trarne profitto o per altra utilità la cosa posseduta dal secondo, toglie una cosa «altrui» e, perciò, commette il delitto di furto, sempreché non agisca per esercitare un preteso diritto. Se l’azione è diretta a quest’ultimo fine, essa è punibile a norma
dell’art. 392 o 393 soltanto se commessa con violenza sulle cose o alle persone ovvero con minaccia; altrimenti il fatto è indifferente per il diritto penale.
Una cosa può essere astrattamente «propria», e concretamente, in tutto o in parte, «altrui», come accade inoltre nell’ipotesi della cosa comune o dell’eredità indivisa, nel quale caso la legge espressamente dichiara possibile il furto da parte del comproprietario, socio o coerede non detentore. La nozione del furto, come quella che presuppone un impossessamento e un correlativo spossessamento, assume il termine «altrui» in senso concreto; vuole cioè designare con esso la mancanza di possesso nell’agente e la preesistenza del possesso medesimo in chi ne venne spogliato (in questi sensi Sez. 2, n. 37818, del 25/11/2020, Antinori, Rv. 280361, in motivazione, pag. 26, sub 5).
1.3. Nel caso di specie, questa ratio fonda la decisione di rigetto del motivo di ricorso proposto nell’interesse dell’imputato, giacché la persona offesa non si caratterizza quale mera detentrice del telefono cellulare comperato e di proprietà dell’agente, bensì quale comodataria dello stesso. Inoltre, come già sopra riferito, nonostante la proprietà del “contenitore” permanga in capo all’agente, è pacifico che i dati contenuti all’interno del telefono cellulare non siano in titolarità dello stesso, quanto, invece, della persona offesa. Pertanto, non può dubitarsi della rispondenza al tipo della condotta contestata.
Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 25 ottobre 2024.