Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 3873 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 3873 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 13/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME nata a NAPOLI il 21/08/1980 avverso la sentenza del 06/03/2024 della CORTE D’APPELLO di POTENZA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME lette le richieste del Sostituto Procuratore Generale, NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte d’appello di Potenza ha confermato la condanna di NOME COGNOME per il delitto di furto in abitazione in concorso con altre due perone rimaste ignote, aggravato dall’essersi i correi presentati come incaricati di pubblico servizio per conto del Comune di Marsicovetere, dal numero (tre) delle persone concorrenti, dal danno di rilevante entità e dalla minorata difesa.
Ha proposto ricorso per cassazione l’imputata, limitatamente al riconoscimento delle circostanze aggravanti sulla base di quattro motivi.
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2.1. Col primo motivo si eccepisce la violazione degli artt. 521-522 cod. proc. pen., 24 e 111 Cost, 6 CEDU, in relazione alla condanna per l’aggravante di cui all’art. 625, comma 1, n. 5, cod. pen., relativa al fatto commesso da persona che simuli la qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.
Si deduce che tale aggravante non sarebbe stata contestata ab origine nel capo di imputazione, nel quale il richiamo della norma che la prevede, l’art. 625, comma 1, n. 5, cod. pen., doveva intendersi riferito all’altra aggravante indicata nella medesima disposizione, del fatto commesso da tre o più persone, realmente enucleato nella rubrica.
2.2. Con il secondo motivo si denuncia la carenza di motivazione sull’aggravante del fatto commesso da tre o più persone.
Si assume che nulla in concreto fosse emerso sul terzo concorrente, su cui le persone offese non avevano saputo specificare alcunché, non essendo neppure chiaro se si fosse trattato di un uomo o una donna, se lo stesso fosse entrato in casa assieme alle due donne oppure no, cosa avesse esattamente fatto e come avesse potuto rinvenire, a colpo sicuro, l’armadio in cui era riposta la borsa contenente i monili sottratti.
2.3. Col terzo motivo parte ricorrente lamenta violazione di legge e vizi di motivazione in relazione alla ritenuta aggravante del danno di rilevante gravità.
A suo dire, la somma di euro 2.900,00 – specie se rapportata al reddito annuo nazionale medio di una famiglia italiana e considerata la giurisprudenza di questa Corte, che la ritiene per la sottrazione di beni dal valore di almeno 20.000,00 euro – non rappresenterebbe un siffatto danno in modo oggettivo.
Insufficiente al riguardo sarebbe il richiamo, nella sentenza d’appello, alle non buone condizioni economiche delle vittime: requisito sussidiario illogicamente desunto dal fatto che le stesse vittime avessero dato ingresso ai correi ritenendoli assistenti sociali e senza prova che costoro conoscessero dette condizioni.
Si lamenta, infine, la valorizzazione di altri parametri estranei all’aggravante de qua, quali il numero e il valore affettivo dei beni sottratti, la vulnerabilità d vittime, le modalità di condotta e la violazione del domicilio domestico.
2.4. Col quarto motivo, infine, parte ricorrente deduce la violazione degli artt. 125, 521 e 522 cod. proc. pen., nonché 61, numero 5, cod. pen., contestando la ricorrenza delle condizioni di minorata difesa.
Si assume, in particolare, l’insufficiente richiamo, nella sentenza d’appello, sia dell’età delle vittime – non particolarmente elevata, avendo le stesse 71 e 76 anni al momento del fatto, e comunque non indice assoluto di ridotta capacità di comprensione – sia delle modalità del fatto, per avere, cioè, ingenuamente le persone offese fatto entrare in casa individui a loro del tutto sconosciuti.
Lamenta la difesa, ancor più a monte, che, in tal modo, la Corte d’appello avesse connotato l’aggravante in modo difforme da come contestata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso, per diversi profili inammissibile, è nel complesso infondato.
1.1. Il primo motivo – circa il difetto di contestazione dell’aggravante del fatto commesso da persona che simuli la qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio – è inammissibile.
Il Tribunale nella sua sentenza ha ritenuto contestata e sussistente la detta aggravante nei seguenti termini: “Sussistono poi tutte le contestate aggravanti, la cui contemporanea sussistenza integra l’ipotesi aggravata di cui all’art. 624-bis 4 3° comma c.p. Va a tal fine preliminarmente chiarito come dalla lettura del capo di imputazione sia evincibile la chiara contestazione delle aggravanti di cui agli artt. 625, 10 comma, n° 5) e quelle di cui agli artt. 61, nn° 5 e 7, per mera svista tutte rubricate sotto l’art. 625 c.p. ma in realtà descritte in modo chiaro e inequivocabile come relative alla minorata difesa ed alla rilevante gravità del danno, non configurandosi in tale ipotesi alcuna violazione dell’art. 521 c.p.p. e non essendo necessaria, a tal proposito, “la specifica indicazione della norma che la prevede, ritenendo sufficiente la precisa enunciazione fattuale della stessa, in modo che l’imputato possa avere cognizione degli elementi di fatto che la integrano e predisporre al riguardo la propria linea difensiva essendo sufficiente ” (cfr. Cass., sez. VI, n° 10406/2018). Ciò premesso, con riguardo all’aggravante di cui all’art. 625, 1° comma, n° 5) c.p., la stessa è integrata allorché l’agent millanti, al fine di agevolarsi nella perpetrazione del furto, di rivestire la quali di pubblico ufficiale od incaricato di pubblico servizio oppure – in via alternativa dall’essere il furto stato commesso da tre o più persone. Nel caso di specie sono contemporaneamente ricorse ambo le ipotesi, avendo la COGNOME finto di essere un’assistente sociale del Comune di Marsicovetere onde spingere la COGNOME a farla entrare nella sua abitazione ed avendo agito in concorso con altri due complici (la seconda donna che aveva intanto distratto il COGNOME ed il terzo complice che materialmente ha prelevato i monili)”. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Dunque, il primo giudice ha espressamente ritenuto non solo che sussistesse, ma anche – si ripete – che fosse stata correttamente contestata la menzionata aggravante: e tale ultima statuizione non è stata oggetto di appello.
È noto che, ex artt. 606, comma 3, e 609, comma 2, cod. proc. pen., non possono essere dedotte in Cassazione questioni non prospettate nei motivi di
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appello, tranne non siano rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio o tratti di questioni che non sarebbe stato possibile dedurre in grado d’appello (perché, ad esempio, prospettate per la prima volta proprio nel provvedimento impugnato in Cassazione): se così non fosse, sarebbe invero inevitabile l’annullamento del provvedimento a causa di un altrettanto inevitabile, da parte del giudice a quo, difetto di motivazione su una questione sottratta – in ipotesi, anche strumentalmente – alla sua cognizione, non essendogli stata devoluta (così, tra le tante, Sez. 2, n. 26721 del 26/04/2023, Rv. 284768-02; Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, Rv. 270316-01; Sez. 4, n. 10611 del 04/12/2012, dep. 2013, Rv. 256631-01).
Orbene, come anticipato, nella specie non risulta né dalla sentenza d’appello, né dal ricorso in esame, né comunque dall’analisi dell’atto d’appello che le questioni sollevate in questa sede al riguardo siano state prospettate al giudice d’appello. In particolare, dalla lettura dell’atto d’appello emerge come l’odierna ricorrente abbia in quella sede contestato non il difetto di correlazione tra accusa e sentenza, bensì l’insussistenza in fatto dell’aggravante: a suo dire non dimostrata, non avendo, gli autori del delitto, simulato la qúalità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, in quanto la ragazza indicata come avente i capelli lunghi e neri aveva proposto la stipula di polizze assicurative.
Dunque, la stessa ricorrente ha prestato acquiescenza all’affermazione del Tribunale circa la corretta contestazione dell’aggravante in discussione.
In siffatta peculiare ipotesi, pertanto, non si reputa di poter fare applicazione del principio secondo cui la diversità del fatto accertato rispetto a quello contestato possa essere rilevata d’ufficio dal giudice d’appello ogni qual volta sia investito con l’atto di impugnazione, della richiesta di verificare la sussistenza dell’addebito (in tal senso, ad esempio, Sez. 6, n. 43336 del 09/09/2016, Rv. 268441-01).
Tale orientamento, invero, non nega che il potere di annullare la sentenza di primo grado per difetto di corrispondenza tra accusa e sentenza, ex artt. 521 e 598 cod. proc. pen., debba essere esercitato nel rispetto del principio di devoluzione di cui all’art. 597, comma 1, cod. proc. pen., affermando, anzi, espressamente l’operatività di tale principio anche in questo caso: seppur ritenendo che sia sufficiente, di norma, affinché tale principio sia rispettato, che l questione attenga al punto della decisione interessato dall’atto di appello.
Sennonché, nel particolare caso di specie la decisione di prime cure ha i , non solo statuito circa la fondatezza dell’accusa, ma anche, espressamente, circa l’eccezione, sollevata dalla difesa, in ordine alla sua non corretta formulazione, rigettandola ed affermando che non vi sia stata alcuna violazione dell’art. 521 cod. proc. pen.
Orbene, in siffatta peculiare circostanza, allora, non può ritenersi che basti che su un determinato punto il giudice d’appello debba comunque pronunciarsi. Proprio in ossequio al principio devolutivo, invero, selezionando le eccezioni da devolvere alla cognizione del giudice d’appello, è la stessa difesa ad aver escluso da esse quella decisa in modo difforme a quanto dalla medesima dedotto in primo grado: omettendo di riproporla e, nello specifico, di contestare ulteriormente, con l’appello, che l’accusa fosse stata correttamente formulata, limitandosi a dedurre, nel merito, la sua insussistenza.
Per le ragioni anzidette, la doglianza sollevata al riguardo è inammissibile.
1.2. Il secondo motivo – circa la commissione del fatto da parte di tre persone – è nel complesso infondato, specie in relazione all’addotta omessa motivazione, per quanto presenti anche profili di inammissibilità, laddove finisce per chiedere a questa Corte una nuova valutazione del materiale istruttorio.
Parte ricorrente lamenta infondatamente, invero, carenze motivazionali che non sussistono, ove si consideri che le decisioni di merito conformi, come noto, si saldano tra loro in un unicum motivazionale da valutare nel suo complesso (Sez. 3, n. 13926 del 1/12/2011, dep. 2012, Rv. 252615-01; Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Rv. 197250-01).
Orbene, la sentenza di primo grado, a cui quella d’appello espressamente rinvia, ha chiaramente valorizzato, al fine di ritenere che al furto abbia partecipato una terza persona, le dichiarazioni delle vittime – le quali, naturalmente, hanno potuto specificare al riguardo quel che sono riuscite a percepire, essendo intente a parlare con le due donne che si erano introdotte nell’abitazione – e i rilievi degl inquirenti circa l’assenza di segni di effrazione: circostanza, quest’ultima, che avvalorava la conclusione secondo cui il furto, di cui non si contesta più la commissione da parte ricorrente, fu certamente perpetrato materialmente da una terza persona che entrò in casa senza forzare porte o finestre.
Al riguardo, come anticipato, è radicalmente inammissibile ogni censura che si risolva in doglianze in fatto che sottopongano al giudice di legittimità una diversa valutazione delle prove raccolte. Tanto esula dal novero dei vizi deducibili ex art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., salvo non emergano omissioni, contraddizioni o illogicità manifeste. Queste ultime, in quanto «manifeste», devono essere tali da apparire di lapalissiana evidenza per esser la motivazione fondata su congetture innplausibili o per avere la stessa trascurato dati di superiore valenza (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, COGNOME, Rv. 207944-01; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, COGNOME, Rv. 205621-01; Sez. 1, n. 45331 del 17/02/2023, Rv. 285504-01; Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, Rv. 278609-01).
Nella specie, per quanto anzidetto, nessuna illogicità manifesta emerge dalla
ricostruzione operata dal Tribunale e fatta propria dalla Corte d’appello, rispetto alla quale qui, semplicemente, e fuori dai detti limiti normativi, si contrappone una diversa lettura delle prove, non consentita, in questa sede.
1.3. Il terzo motivo è infondato.
I giudici di merito, con valutazione non censurabile, in questa sede, perché non manifestamente illogica, hanno ritenuto che il valore dei beni in questione fosse da considerarsi rilevante, anche – ma non solo – considerato che si trattava di monili di famiglia, ovvero non recuperabili col mero ristoro del loro valore intrinseco.
In modo, poi, che non si reputa manifestamente illogico, la Corte d’appello ha pure valorizzato, al riguardo, la circostanza che le vittime avessero fatto entrare in casa i sedicenti assistenti sociali, che avevano detto di occuparsi, per conto del Comune, della cura di persone anziane: il che rendeva evidente che si trattasse di soggetti non certo in condizioni economiche particolarmente agiate.
1.4. Il quarto motivo è, infine, infondato.
Non v’è stata la lamentata violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., per essere stata emessa una condanna in relazione all’aggravante della minorata difesa, asseritamente non contestata nei termini ritenuti dalla Corte d’appello. In realtà, quanto ritenuto in sentenza è stato chiaramente indicato nel capo d’imputazione.
Nella specie, le modalità della condotta valorizzate dalla Corte d’appello ovvero l’aver le vittime ingenuamente fatto entrare in casa tre persone a loro del tutto sconosciute, facendosi distrarre da due di loro e perdendo il controllo di ciò che faceva la terza – sono chiaramente indicate nell’imputazione, oltre che essere comunque emerse nel corso del procedimento, e su di esse parte ricorrente ha avuto sin da subito ogni possibilità di articolare le sue difese. E comunque nulla di concreto si dice, nel ricorso, sul reale pregiudizio al diritto di difesa di cui sare stata vittima l’imputata.
Ed è noto che solo una trasformazione radicale dell’accusa, nei suoi elementi essenziali, che determini incertezza sull’oggetto dell’imputazione e un reale pregiudizio dei diritti della difesa, comporti la nullità per difetto di correlazione accusa e sentenza (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, COGNOME, Rv. 248051-01; confronta, negli stessi termini: Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, COGNOME, Rv. 205619; Sez. 3, n. 7146 del 04/02/2021, Ogbeifun Hope, Rv. 281477; Sez. 2, n. 34969 del 10/05/2013, NOME e altri, Rv. 257782). E tanto vale anche per tutte quelle circostanze comunque emerse dalle risultanze probatorie e, dunque, note all’imputato (Sez. 6, n. 47527 del 13/11/2013, COGNOME, Rv. 257278; Sez. 3, n. 10742 del 15/2/2022, non massirnata).
La restante parte della doglianza è infondata.
In modo del tutto logico e, dunque, qui incensurabile, la Corte d’appello ha ritenuto che, oltre all’età avanzata delle persone offese, la loro fragilità foss desumibile dalle modalità del furto, avvenuto per avere le stesse acconsentito a tre persone sconosciute di entrare liberamente in casa con una banale scusa e per aver, poi, distratte da due di loro, permesso ad un terzo complice di depredarle senza alcuna difficoltà.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., alla declaratoria di rigetto segue l condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali Così deciso in data 13/11/2024
Il C sigliere estensore
Il Presidente