Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 45833 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 45833 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 06/12/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME nato a MONTE SANT’ANGELO il 05/02/1973
avverso l’ordinanza del 10/06/2024 della CORTE ASSISE APPELLO di BARI
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni ex art. 611 c.p.p. del PG in persona del Sostituto Proc. gen. NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. NOME COGNOME a mezzo del proprio difensore di fiducia, adiva la Corte di Assise di Appello di Bari, in funzione di giudice dell’esecuzione, per il tramite della difesa, ex art. 657 cod. proc. pen., al fine di ottenere che venisse computato sull’attuale titolo esecutivo un periodo di custodia cautelare sofferto inutilmente per altro reato.
Il ricorrente ricordava di essere stato ristretto dal 28/10/1999 all’11/07/2001 in quanto destinatario di una misura di custodia cautelare in relazione al procedimento penale nr. 271/98 R.G.N.R. (cd. Processo della Faida del Gargano) in quanto indagato prima e imputato poi con altri per il reato di cui all’art. 416, comma 1, 2, 3, 4, 5 cod. pen. (“per essersi associati tra loro e con altre persone decedute o non identificate, in numero superiore a dieci e scorrendo in armi le pubbliche vie, per commettere più delitti contro la vita e l’incolumità individuale”) commesso in Monte S. Angelo ed altri luoghi dal 1979 fino a ottobre 1999. La custodia cautelare era poi venuta meno perché era stato assolto “perché il fatto non sussiste” con sentenza emessa dalla Corte di Assise di Appello di Bari emessa in data 11/07/2001, in riforma della sentenza di condanna emessa dal GUP di Foggia in data 06/06/2000
Successivamente, lo stesso NOME COGNOME veniva condannato alla reclusione di anni 26 e mesi 6 di reclusione, pena attualmente in espiazione, con sentenza emessa dalla Corte di Assise di Appello di Bari in data 15/07/2010, in relazione al procedimento penale nr. 14595/10 R.G.N.R. (c.d. Processo Iscaro-Saburo), in parziale riforma della sentenza emessa dalla Corte di Assise di Foggia in data 17/03/2009, irrevocabile il 04/10/2011 per i reati di cui agli artt. 416-bis e 74 d.P.R. 309/90 entrambi contestati come commesso “dal mese di ottobre 1999 e permanenti attualmente”.
La richiesta traeva fondamento dalla sostanziale sovrapposizione del tempo in cui erano stati commessi i reati oggetto dell’attuale titolo esecutivo con il periodo di carcerazione sopra indicato: in particolare, per il ricorrente, leggendo l’ordine di esecuzione per la carcerazione (il richiamo è al provvedimento della Procura Generale emesso il 7.10.2011 che viene allegato al ricorso), i delitti di cui all’art. 416 bis cod. pen. e 74 d.P.R. 309/1990 risultano commessi “in data ottobre 1999 e tuttora permanente”.
Nell’istanza si chiedeva al giudice dell’esecuzione di superare il dato formale della permanenza sino alla data della sentenza di primo grado attraverso una lettura sostanziale dei fatti, finalizzata a verificare in concreto il momento della cessazione delle condotte.
La Corte di Assise di Appello di Bari, con l’ordinanza in epigrafe, rigettava la richiesta affermando che: «…nel caso In questione la custodia cautelare oggetto dell’istanza di fungibilità, è stata sofferta – dal 28.10.1999 all’11.07.2001 – i epoca antecedente rispetto alla cessazione della permanenza dei reati associativi per i quali vi è stata condanna definitiva”.
I giudici pugliesi ricavavano tale assunto attraverso il richiamo di una precedente decisione, emessa dalla medesima Autorità Giudiziaria, che si era espressa sulla dedotta violazione del ne bis in idem con riguardo ai fatti oggetto dei due procedimenti penali celebrati nei confronti del COGNOME (l’uno terminato con sentenza di assoluzione, l’altro con pronuncia di condanna).
2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, NOME COGNOME a mezzo del proprio difensore di fiducia, deducendo, quale unico motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, co. 1, disp. att., cod. proc. pen, la violazione ed erronea applicazione dell’art. 657, comma 4, cod. proc. pen. nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
Rileva il ricorrente che secondo il giudice dell’esecuzione la condotta di cui all’art. 416 bis cod. pen., oggetto della condanna attualmente in esecuzione, sarebbe stata caratterizzata dalla permanenza cessata con la pronuncia della sentenza di primo grado. Tale circostanza osterebbe pertanto al computo della custodia cautelare – sofferta dal 28/10/1999 all’11/07/2001 – sul titolo in espiazione.
Tale argomentazione viene ritenuta non condivisibile.
In primo luogo, perché la Corte territoriale ometteva di verificare il periodo da ascrivere alla condotta relativa al reato di cui all’art. 74 d.p.r. 309/90, oggetto anch’esso della condanna di anni 26 e mesi 6 di reclusione decisa nei confronti del Li Bergolis. Lo stesso, invero, veniva condannato sia per aver fatto parte di una associazione di stampo mafioso, sia per aver fatto parte di una associazione dedita al traffico di stupefacenti, ciò imponendo un duplice controllo di tipo cronologico sulle diverse condotte riferibili ai due delitti. L’ordinanza, invece, mostrava di ri chiamare esclusivamente la condotta di cui all’art. 416 bis cod. pen.
In secondo luogo, la Difesa censura quanto argomentato nella motivazione di rigetto che, a sostegno di tale conclusione, richiamava una precedente decisione della medesima Corte relativa, però, ad un istituto differente – quello del ne bis in idem il cui riconoscimento, innanzi tutto, si fonda su criteri e principi diversi rispetto alla questione della fungibilità. Il provvedimento, di cui si riportava una parte del contenuto, inoltre, non sembrava superare il concetto formale della cessione della permanenza della condotta da farsi coincidere con la pronuncia di primo grado, violando dunque gli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità.
Il ricorrente ricorda il dictum di Sez. Fer. n. 33363/2023, alla luce del quale sostiene che non vi sarebbero dubbi circa l’errore in cui è incorsa la Corte di Appello, in quanto: a. ha effettuato una verifica solo parziale delle condotte di cui al titolo in espiazione, limitandosi a riportare esclusivamente il dato relativo alla permanenza della condotta del reato di cui all’art. 416 bis cod. pen., dovendosi al contrario procedere ad analoga operazione anche per il delitto di cui all’art. 74 d.p.r. 309/90; b. non ha analizzato in concreto il dato relativo alla cessazione della permanenza dei reati, richiamando acriticamente il contenuto di precedente provvedimento, intervenuto su istituto differente.
Ma per il ricorrente vi sarebbe di più, in quanto la difesa, su espressa richiesta dei giudici formulata in occasione della prima udienza del presente procedimento aveva depositato le sentenze riguardanti il ricorrente, ciò al fine di consentire al Collegio una valutazione concreta su quanto richiesto. Proprio per tale motivo, la prima camera di consiglio si concludeva con un rinvio a quella successiva del 10 giugno, in occasione della quale la Corte si riservava per la decisione.
Appare, dunque, illegittima e ingiustificata – tanto più laddove se ne aveva la possibilità essendo le sentenze di condanna a disposizione del decidente – l’omessa analisi del contenuto di dette pronunce.
Chiede, pertanto, annullarsi l’ordinanza impugnata, con ogni conseguenza di legge.
Il PG presso questa Corte ha reso le conclusioni scritte riportate in epigrafe.
CONSIDERATO IN DIRITTO
T:o da 1CICMotivo afferente all’insufficiente motivazione del provvedimento impugnato e, pertanto lo stesso va annullato con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte di assise di Appello di Bari.
Ed invero, l’istituto della fungibilità della pena detentiva è disciplinato dell’art. 657 cod. proc. pen. che prevede per il condannato la possibilità di computare i periodi di carcerazione sofferti in custodia cautelare o espiati sine titulo nella determinazione della pena detentiva da eseguire per altro reato.
Tale meccanismo di “compensazione” incontra tuttavia un limite temporale, previsto dal comma 4 del medesimo art. 657 cod. proc. pen., il quale dispone che “in ogni caso sono computate soltanto la custodia cautelare subita o le pene espiate dopo la commissione del reato per il quale deve essere determinata la pena da eseguire”. È anche evidente la ratio di tale previsione, ovvero la finalità di evitare che l’istituto della fungibilità finisca per divenire una sorta di stimolo
commettere reati, trasformando il pregresso periodo di carcerazione in una “riserva di impunità” utilizzabile per commettere impunemente ulteriori reati.
3. Il problema della individuazione del momento di commissione del reato per il quale è stato emesso l’ordine di esecuzione è particolarmente rilevante in casi come quello che ci occupa in cui le sentenze riguardano reati permanenti, quali quelli associativi, nei quali va rigorosamente verificato il momento della cessazione della permanenza – e non quello del suo inizio – onde esser certi che la carcerazione ingiustamente sofferta risalga ad epoca successiva alla consumazione del reato.
Dirimente appare, dunque, per verificare se ci sono periodi di detenzione fungibili, è appurare la data di cessazione della permanenza dei reati nel c.d. Processo della Faida del Gargano.
Se si guarda al mero dato formale, proprio di una giurisprudenza ormai risalente e che riporta al dictum di Sez. U, n. 11021 del 13/07/1998, COGNOME, Rv. 211385 che voleva ancorarsi la cessazione della permanenza alla pronuncia della sentenza di primo grado, quest’ultima sarebbe ampiamente successiva al periodo per il quale si chiede la fungibilità (28/10/1999-11/07/2001) in quanto la sentenza di primo grado della Corte di Assise di Foggia nel Processo Iscaro-Saburo è intervenuta in data 17/03/2009.
Fondatamente il ricorrente ricorda, però, che questa Corte di legittimità, di recente, nel giudicare una fattispecie relativa a richiesta di riconoscimento della continuazione in sede esecutiva, con applicazione del criterio di fungibilità delle pene previsto dall’art. 657, comma 4, cod. proc. pen., tra i delitti di cui agli artt 73 e 74, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, giudicati rispettivamente da due sentenze irrevocabili, di cui quella per reato associativo successiva alla prima, ha affermato il principio di diritto secondo cui nei casi di condanna per un reato associativo che sia stato contestato senza l’indicazione della data di ritenuta cessazione della condotta criminosa, l’esclusione del computo del periodo di pena espiata inutilmente per altro reato non deve prescindere, ove la sentenza di condanna di primo grado per il reato associativo sia successiva al periodo di detenzione subito in relazione all’altro reato, dalla verifica in ordine alla sussistenza della prova della effettiv permanenza della condotta sino alla data di pronuncia della sentenza di primo grado, non potendosi presumere che il momento consumativo coincida con la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado. E dunque ne discende che il giudice dell’esecuzione, per potere affermare che la custodia cautelare subita o le pene espiate sono precedenti o successive rispetto alla commissione del reato per il quale deve essere determinato il trattamento sanzionatorio eseguibile, laddove ci si riferisca a delitti associativi, deve individuare preliminarmente il mo-
mento della cessazione della permanenza di tali condotte illecite, correlandolo cronologicamente alle frazioni detentive per le quali si invoca la disciplina della fungibilità” (Sez. F, n. 33363 del 27/07/2023, COGNOME, Rv. 285215 – 01; conf. Sez. 1, n. 20238 del 22/03/2007, COGNOME, Rv. 236664 – 01).
La stessa Corte territoriale, peraltro, nell’ordinanza impugnata, in premessa (cfr. pag. 2) riconosce che questa Corte di legittimità «ha reiteratamente affermato il principio per il quale, ove il tempus commissi delicti non risulti esplicitamente indicato nel capo di imputazione, il giudice dell’esecuzione dovrà trarre i necessari riferimenti cronologici dalla motivazione della sentenza di condanna e, se occorre, anche dagli atti del procedimento con essa definito, non potendosi far riferimento al solo criterio formale per il quale la permanenza si intende cessata alla data di emissione della sentenza di condanna di primo grado».
Tuttavia, come fondatamente rileva il ricorrente, di tali principi il provvedimento impugnato non pare operare un buon governo laddove, in primis, ha effettuato una verifica solo parziale delle condotte di cui al titolo in espiazione, limitandosi a riportare esclusivamente il dato relativo alla permanenza della condotta del reato di cui all’art. 416 bis cod. pen., dovendosi al contrario procedere ad analoga operazione anche per il delitto di cui all’art. 74 d.P.R. 309/90.
Soprattutto poi, non mostra di avere analizzato in concreto il dato relativo alla cessazione della permanenza dei reati, richiamando acriticamente il contenuto di precedente provvedimento, intervenuto su istituto differente.
Tale deficit motivazionale, pertanto, andrà colmato dal giudice del rinvio.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame ad altra Sezione della Corte di Assise di Appello di Bari.
Così deciso il 06/122024