Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 14769 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 14769 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 04/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a PATERNO’ il 30/07/1983
avverso l’ordinanza del 16/07/2024 della CORTE APPELLO di CATANIA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette/sentite le conclusioni del PG
Il Procuratore generale, NOME COGNOME chiede dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. COGNOME NOME ricorre avverso l’ordinanza del 16 luglio 2024 della Corte di appello di Catania, che ha rigettato la richiesta di rideterminazione ex art. 657 cod. proc. pen. della pena di anni diciassette e mesi due di reclusione, di cui alla sentenza della Corte di appello di Catania del 17 aprile 2019, definitiva il 29 settembre 2020, in ordine ai reati di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e di produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti, aggravati dalla connessione mafiosa, ai sensi degli artt. 74, 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152 (convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203), commessi fino a gennaio 2013.
Tale sentenza, posta in esecuzione con provvedimento del 26 ottobre 2020 del pubblico ministero aveva riconosciuto il vincolo della continuazione tra i reati giudicati in quel procedimento e i seguenti ulteriori reati:
/) tre reati di tentata estorsione, aggravati dalla connessione mafiosa, ai sensi degli artt. 56, 629 cod. pen. e 7 d.l. n. 152 del 1991, commessi nel mese di ottobre 2005, giudicato dalla Corte di appello di Catania con sentenza del 22 febbraio 2007, divenuta definitiva, che aveva irrogato la pena eseguita dal 28 novembre 2005 al 14 febbraio 2009;
2) estorsione aggravata dalla connessione mafiosa, ai sensi degli artt. 629 cod. pen. e 7 d.l. n. 152 del 1991, commesso nel mese di settembre 2006, giudicato dal G.u.p. del Tribunale di Catania con sentenza del 16 febbraio 2010, divenuta definitiva, che aveva irrogato la pena di anni cinque di reclusione, rideterminata quale pena in continuazione con altri reati.
3) associazione di tipo mafioso, ai sensi dell’art. 416-bis cod. pen., commesso fino a maggio 2006, giudicato dalla Corte di appello di Catania con sentenza del 13 luglio 2012, definitiva il 27 novembre 2013, che aveva irrogato la pena rideterminata in continuazione in anni uno e mesi otto di reclusione.
Le sentenze sub 1, 2 e 3, contestualmente ad ulteriori tre sentenze di condanna, erano state oggetto di provvedimento di esecuzione di pene concorrenti della Procura generale della Repubblica presso la Corte di appello di Catania del 4 febbraio 2014 e la relativa pena era stata eseguita il 18 settembre 2014.
L’interessato aveva evidenziato di aver espiato periodi detentivi dal 28 novembre 2005 al 5 agosto 20110, dal 31 gennaio 2011 al 4 settembre 2012, dal 6 dicembre 2013 al 19 settembre 2014 e dal 24 febbraio 2016 a oggi, e, in forza di tali ragioni, aveva chiesto al giudice dell’esecuzione il computo ex art. 657,
comma 4, cod. proc. pen. di tali periodi di detenzione, quantomeno a decorrere da maggio 2006, data di cessazione della condotta permanente di cui al reato ex art. 416-bis cod. pen.
Il giudice dell’esecuzione ha rigettato la richiesta, dopo aver evidenziato che non vi erano elementi in forza dei quali poter affermare che i reati in forza dei quali erano state irrogate le pene oggetto dell’istanza fossero stati commessi prima del 28 novembre 2005, quale periodo di inizio dell’esecuzione della pena, o prima di maggio 2006, quale periodo di cessazione della permanenza del reato associativo ex art. 416-bis cod. pen.
2. Il ricorrente denuncia vizio di motivazione dell’ordinanza impugnata, perché il giudice dell’esecuzione avrebbe omesso di considerare che, in caso di reato permanente, deve trovare operatività l’istituto della fungibilità della pena quando la permanenza – come avvenuto nel caso di specie – non appare cessata dopo l’espiazione della pena senza titolo.
A tal fine, la giurisprudenza di legittimità avrebbe chiarito che il giudice di merito sia chiamato ad accertare in maniera rigorosa e motivata il momento di commissione del reato per il quale è stato emesso ordine di esecuzione, non potendosi questi limitare a rilevare la data di accertamento, soprattutto quando non è esplicitamente indicata nel relativo capo di imputazione.
Secondo il ricorrente, tale analisi non sarebbe avvenuta nel caso di specie, perché il giudice dell’esecuzione non avrebbe tenuto conto del fatto che il reato oggetto del titolo in esecuzione era stato riunito dal vincolo della continuazione con gli altri reati oggetto dell’odierna richiesta.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile, perché prospetta enunciati ermeneutici in palese contrasto con il dato normativo e con la consolidata giurisprudenza di legittimità.
Giova premettere che l’art. 657, comma 4, cod. proc. pen. limita rigorosamente la possibilità di computare la custodia cautelare subita o la pena espiata per reato diverso al dato cronologico che la custodia e la espiazione anzidette siano successive alla commissione del reato per il quale deve essere determinata la pena da eseguire.
La giurisprudenza di legittimità, nel rappresentare che la ratio di tale limitazione, costantemente riaffermata, è quella di non consentire ad alcuno di fruire di crediti di pena che possano agevolare la commissione di fatti criminosi nella consapevolezza dell’assenza di conseguenze sanzionatorie (tra le altre, Sez. 1, n. 12937 del 12/11/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 266181), ha rimarcato che
l’indicato principio trova applicazione anche nel caso in cui il c.d. credito di pena si sia formato a seguito del riconoscimento della continuazione fra taluni reati, con la conseguente determinazione di una pena complessiva inferiore a quella risultante dal cumulo materiale, e che, ove si pongano problemi di fungibilità tra le carcerazioni sofferte per i singoli reati unificati ex art. 81 cod. pen., il reato continuato, che può considerarsi reato unico solo ai fini specificamente previsti dalla legge, deve essere scisso nelle singole violazioni che lo compongono, sì da potersi individuare quelle commesse prima della detenzione senza titolo e stabilirsi l’aliquota di sanzione del relativo frammento di aumento per la continuazione per far luogo alla fungibilità, stabilendosi, quindi, la parte di custodia cautelare o di pena inutilmente sofferta.
In sintesi, il riconoscimento della continuazione tra più reati in sede esecutiva, con la conseguente determinazione di una pena complessiva inferiore a quella risultante dal cumulo materiale, non comporta che la differenza formatasi possa essere automaticamente imputata alla detenzione da eseguire, operando anche in detta eventualità il disposto dell’art. 657, comma 4, cod. proc. pen., per cui, a tal fine, vanno computate solo i periodi di custodia cautelare sofferti e le pene espiate sine titulo dopo la commissione del reato, e dovendosi conseguentemente scindere il reato continuato nelle singole violazioni che lo compongono (Sez. 1, n. 6072 del 24/05/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 272101).
Nel caso di specie, il giudice dell’esecuzione, correttamente applicando i sopra indicati principi di diritto, ha evidenziato che l’istituto della fungibilità non pote trovare applicazione, in quanto l’istanza era riferita a periodi di detenzione sofferti prima della commissione dei successivi reati, ivi compreso quello associativo ex art. 74 T.U. stup. (correttamente scisso dagli ulteriori reati), posto che la cessazione della sua permanenza era stata collocata a gennaio 2013, epoca successiva ai periodi di detenzione precedentemente sofferti.
D’altronde, l’istituto della fungibilità delle pene espiate senza titolo non è applicabile ai reati permanenti quando la permanenza sia cessata dopo l’espiazione senza titolo (Sez. 1, n. 6072 del 24/05/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 272102).
Per di più, il ricorrente ha lamentato la mancanza di un’indagine da parte del giudice sull’epoca precisa di commissione del reato associativo, che nemmeno viene indicata nel ricorso con riferimenti temporali tali da poter essere considerata incompatibile con la pronuncia del giudice dell’esecuzione, sicché lo stesso ricorso è affetto da palese genericità.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., ne consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché al versamento in favore della Cassa delle ammende di una somma determinata, equamente, in euro
3.000,00, tenuto conto che non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità» (Corte cost. n. 186 del 13/06/2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso il 04/02/2025