Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 43138 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 43138 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 22/10/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da NOME COGNOME, nato in Cina il DATA_NASCITA; NOME COGNOME, nato in Cina il DATA_NASCITA; avverso la sentenza in data 11/12/2023 della Corte d’appello di Firenze; visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni trasmesse dal Procuratore generale nella persona del AVV_NOTAIO che ha chiesto di rigettare o dichiarare inammissibile i ricorsi e quella trasmesse dall’avv.to NOME COGNOME, difensore degli imputati, che ha chiesto l’accoglimento dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
GLYPH Con sentenza in data 11/12/2023, la Corte d’appello di Firenze confermava la sentenza, in data 2/10/2020, con cui il Tribunale di Firenze aveva ritenuto responsabili NOME COGNOME e NOME COGNOME del reato di cui agli artt. 56, 515 cod. pen., per avere tentato di vendere “nr. 18468 accessori elettronici per computer, telefonia e vari, nr. 2509 impianti di video sorveglianza, nr. 169.492 articoli d’illuminazione, nr. 2600 coltelli multiuso, nr.3456 stick di colla, nr. 33486 luminarie natalizie, nr. 280 bombolette di neve spray, NUMERO_DOCUMENTO articoli elettrici
recanti il marchio CE contraffatto e sprovvisti del fascicolo tecnico a necessario corredo”, non riuscendo nel proprio intento per cause indipendenti dalla loro volontà, e li aveva condannati alla pena ritenuta di giustizia.
Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore, gli imputati.
Con il primo motivo, hanno denunciato l’inosservanza degli artt. 56 e 515 cod. pen. assumendo che non fosse rimasto provato che i prodotti di cui all’imputazione fossero destinati alla vendita. Si deduce che non vi era prova che i pochi articoli esposti nel negozio “fossero della medesima categoria di quelli custoditi nel magazzino”, avendo il teste COGNOME dichiarato di non ricordare la circostanza. Con riferimento all’elemento soggettivo, ancora, si deduce che gli agenti di PG, in relazione alle merci “con marchio CE contraffatto”, non avevano chiesto agli imputati di esibire le certificazioni e la documentazione tecnica attestante la conformità degli articoli ai requisiti comunitari per cui nessun valore indiziario poteva essere attribuito al fatto che tale documentazione non fosse stata prodotta né nel corso delle indagini preliminari né in sede processuale.
Con il secondo motivo, hanno denunciato l’inosservanza dell’art. 515 cod. pen. in relazione ai “dispositivi elettrici con marchio CE conforme alla normativa ma privi del fascicolo tecnico” sostenendo che la detenzione di tali prodotti integrava l’illecito amministrativo di cui all’art. 18 d.l.vo 86/2016 e non in reato ritenuto quanto Li COGNOME al momento del controllo, aveva fornito le “attestazioni di conformità fornite dal produttore in lingua cinese e da una società italiana che dichiarava il rispetto dei parametri europei”.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorsi sono manifestamente infondati.
In premessa, e in via generale, va ricordato che quando le sentenze di primo e secondo grado concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo (così, tra le altre, Sez. 3, n. 44418 del 16/7/2013, COGNOME, Rv. 257595; Sez. 4, n. 15227 dell’11/4/2008, COGNOME, Rv. 239735; Sez. 2, n. 5606 dell’8/2/2007, Conversa e altro, Rv. 236181; Sez. 1, n. 24 8868 dell’8/8/2000, COGNOME, Rv. 216906; Sez. 2, n. 11220 del 5/12/1997, COGNOME, Rv. 209145).
Secondo il meno rigoroso orientamento di legittimità, inoltre, “il vizio di travisamento della prova può essere dedotto con il ricorso per cassazione, nel caso di cosiddetta “doppia conforme”, solo nell’ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati
probatori non esaminati dal primo giudice, o quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti. (Sez. 4, n. 35963 del 03/12/2020, Tassoni, Rv. 280155 – 01; Sez. 1, n. 34715 del 12/6/2024, Berlingieri; Sez. 2, n. 5336 del 09/01/2018, L., Rv.272018; Sez. 4, n. 44765 del 22/10/2013, Buonfine, Rv. 256837).
Venendo al caso di specie, entrambe le sentenze di merito hanno ravvisato la sussistenza del delitto in contestazione, correttamente qualificato alla stregua del tentativo di frode in commercio, ritenendo provata la destinazione alla vendita dei prodotti. Tale finalità è stata desunta, da una parte, dalla collocazione di molti dei prodotti che presentavano il marchio CE contraffatto negli espositori del negozio e, dall’altra, dalla collocazione della restante merce nei locali adibiti a magazzino adiacenti all’esercizio commerciale.
Si legge nella sentenza di primo grado che tali dati sono stati tratti dalle prove dichiarative e documentali acquisite nel corso dell’istruttoria nonché dagli atti irripetibili già presenti nel fascicolo di primo grado.
La conclusione cui sono pervenuti i giudici di merito in ordine alla corrispondenza esistente fra i prodotti con il marchio CE contraffatto esposti nel negozio e quelli collocati nel magazzino è, quindi, fondata sulla valutazione di molteplici fonti di prova e non è invalidata dalla sintesi del passo della deposizione di COGNOME riportata nei ricorsi. Giova ricordare che qualora la prova che si assume omessa o travisata, vizio peraltro neanche denunciato nel caso di specie, abbia natura dichiarativa, il ricorrente ha l’onere di riportarne integralmente il contenuto, non limitandosi ad estrapolarne alcuni brani, giacché così facendo viene impedito al giudice di legittimità di apprezzare compiutamente il significato probatorio delle dichiarazioni e, quindi, di valutare l’effettiva portata del viz dedotto (Sez. 2, n. 25315 del 20/03/2012, COGNOME, Rv. 253073; Sez. F, n. 32362 del 19/08/2010, COGNOME, Rv. 248141; Sez. 4, n. 37982 del 26/06/2008, COGNOME, Rv. 241023). GLYPH
PI I ricorrenti, ancora, non contesta bb il significato probatorio attribuito dai giudici di merito ai verbali di perquisizione e sequestro versati in atti.
Tanto precisato, va rilevato che Questa Corte ha ripetutamente chiarito che integra “il reato di tentativo di frode in commercio il detenere, anche presso un esercizio commerciale di distribuzione e vendita all’ingrosso di prodotti privi di marcatura “CE” o con marcatura “CE” contraffatta, in quanto la fattispecie di cui all’art. 515 cod. pen. è posta a tutela sia dei consumatori sia degli stessi commercianti ed il deposito di prodotti siffatti in magazzini nei quali non si effettua la vendita diretta ai singoli consumatori rappresenta un atto idoneo, diretto in
modo non equivoco alla frode in commercio, poiché è prodromico alla immissione nel circolo distributivo di un prodotto che presenta caratteristiche diverse da quelle indicate e normativamente previste (vedi Sez. 3, 8.9.2004, n. 36056, P.G. in proc. Botindari)” (Sez. 3, n. 27704 del 21/04/2010 Cc. (dep. 16/07/2010) Rv. 248133 – 01; Sez. 3, n. 5437 del 13/1/2023, COGNOME).
Nel caso in esame, i giudici di merito hanno fatto corretta applicazione del principio ora evocato, ravvisando la sussistenza del delitto in contestazione, correttamente qualificato alla stregua del tentativo di frode in commercio, desumendo la destinazione alla vendita della merce dal numero elevato dei prodotti che presentavano “l’illecita marcatura”, dall’esposizione di molti di essi nel negozio e dalla collocazione della restante parte nel magazzino.
Va, anche, segnalato che la validità del processo inferenziale sviluppato dai giudici di merito non è infirmata da alcun elemento probatorio idoneo ad accreditare una causale alternativa che possa spiegare perché gli imputati avessero acquistato prodotti, rientranti fra quelli da loro commercializzati, che presentavano il marchio CE contraffatto o non erano corredati dalla documentazione tecnica necessaria per l’immissione sul mercato dell’Unione, e li avessero depositati nel magazzino adiacente al loro negozio collocando molti campioni negli espositori posizionati nelle sale cui accedevano i clienti.
La difesa, ancora, contestata la valenza indiziaria ai fini della sussistenza del dolo della mancanza di documentazione tecnica che deve accompagnare l’apposizione del marchio CE assumendo che, “in relazione alle merci con marchio CE contraffatto non veniva posta in essere alcuna condotta ostruzionistica da parte degli imputati volta a mascherare le presunte irregolarità. Piuttosto gli agenti di P.G. omettevano di richiederla…”.
La doglianza difensiva non si confronta con le motivazioni che sorreggono il verdetto di condanna.
La sentenza di primo grado differenzia i prodotti su cui il marchio “apposto direttamente dal produttore cinese non è quello originale CE ma quello, assai affine, acronimo di RAGIONE_SOCIALE” da quelli in cui il marchio, “stavolta apposto dall’importatore”, è “assai più affine all’originale” (pag. 4). Ebbene, per questa seconda categoria di prodotti, il Tribunale dà atto che i militari della finanza chiesero l’esibizione dei fascicoli tecnici ottenendo solo l’esibizione di documentazione irrilevante, ossia “alcuni certificati di conformità di società aventi sedi in Cina ed uno riferibile ad una società italiana, sul quale apposto un marchio non conforme all’originale”. In relazione ai prodotti con il marchio riconducibile all’acronimo RAGIONE_SOCIALE, invece, il Tribunale ha ritenuto integrato l’elemento oggettivo del reato per effetto della sola apposizione di tale segno distintivo stante la sua capacità a ingenerare nel consumatore la convinzione che
la merce abbia le caratteristiche e gli standard richiesti per la immissione sul mercato dell’Unione.
La sentenza di primo grado, ancora, aveva desunto il dolo richiesto dalla fattispecie incriminatrice dalla “quantità dei beni oggetto dell’illecita marcatura”, espressione della “scelta aziendale di immettere sul mercato merce priva degli standards europei” nonché dall’applicazione del logo “anche sui beni estranei alla disciplina euro-unitaria”, disvelatrice dell’ “indiscriminata volontà di offrire una mendace rappresentazione dei requisiti qualitativi dei prodotti da loro commercializzati”.
Tale apparato motivazione è integrato dall’argomento sviluppato dalla Corte d’appello volto a valorizzare l’indisponibilità da parte degli imputati della documentazione tecnica che deve accompagnare la commercializzazione di prodotti sul marchio CE ai fini della prova del dolo.
Il ragionamento probatorio sviluppato dai giudici di merito per dimostrare la sussistenza del dolo, pertanto, non soltanto non presenta il vizio di violazione di legge denunciato, risultando l’elemento soggettivo ritenuto come provato corrispondente a quello richiesto dalla previsione normativa, ma è in linea con i rigori della logica in quanto valorizza una serie di elementi, tutti univocamente sintomatici dell’elemento intenzionale del delitto di frode, rimarcando come la valenza significativa degli stessi non è intaccata da elementi di segno contrario, offerti dalla difesa, fra i quali indubbio rilievo avrebbe potuto avere la produzione di documentazione atta a dimostrare la buona fede degli imputati.
Manifestamente infondato risulta anche il secondo motivo dei ricorsi.
Il Tribunale, infatti, aveva escluso che il disvalore del fatto integrasse il solo illeci amministrativo valorizzando la clausola di riserva prevista dall’art. 14 comma 5 del d.lgs. n. 86/2016. Tale opzione interpretativa, sia pure implicitamente, viene seguita anche dalla Corte d’appello che respinge la censura rilevando che, nel caso di specie, non viene in rilievo la sola detenzione del materiale ma un tentativo di frode in commercio.
Con gli argomenti sviluppati dai giudici di merito i ricorrenti non si confrontano, limitandosi a privilegiare fra la norma penale e quella che definisce l’illecito amministrativo quest’ultima, in forza del principio di specialità, senza però tener conto delle clausole di riserva inserite nei commi 5, 6 e 7 dell’art. 14 del d.l.vo 86/2016.
Va anche chiarito che alla medesima conclusione contestata dalla difesa perviene il precedente richiamato nell’atto di appello che, a fronte di una condotta del tutto simile a quella in esame, ha affermato la rilevanza penale della detenzione contestata sostenendo che “il contrassegno CE apposto sui prodotti elettrici detenuti dall’imputata, in quanto falsamente indicatore di una merce non rispondente a quanto garantito in ordine ad origine e a provenienza, costituisce,
1 b GLYPH
in quanto lesivo del leale esercizio dell’attività commerciale, elemento costitutivo del reato”, precisando altresì che “il marchio CE non garantisce la sola provenienza del bene dall’Europa ma attesta la sussistenza dei requisiti essenziali di sicurezza aprioristicamente standardizzati dalla normativa comunitaria (Sez. 3, n. 45916 del 18/09/2014 – dep. 06/11/2014, Tebai, Rv. 260914), che possono perciò essere scelti dall’acquirente in ragione della loro origine e provenienza controllata alla fonte” (Sez. 3, n. 17686 del 14/12/2018, dep. 2019,1a).
11. Alla stregua delle considerazioni svolte, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che si determina equitativamente in euro tremila.
P.Q.M.
dichiara inammissibile i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 22/10/2024