Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 20321 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 20321 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 21/05/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato il 28/07/1963 a NAPOLI RAGIONE_SOCIALE
avverso la sentenza in data 01/10/2024 della CORTE DI APPELLO DI PALERMO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
letta la requisitoria del Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità de i ricorsi;
letta la nota dell’Avvocato NOME COGNOME che, nell’interesse della costituita parte civile nei RAGIONE_SOCIALE, ha concluso per l’inammissibilità del ricorso o, in via subordinata, per l’estinzione dei reati prescritti , con conferma delle statuizioni civili e condanna di COGNOME NOME alle spese del giudizio;
letta la nota dell’Avvocato NOME COGNOME che, nell’interesse della costituita parte civile RAGIONE_SOCIALE, che ha concluso per l’inammissibilità o per il rigetto del ricorso, con condanna in solido dei ricorrenti al pagamento delle spese del grado di giudizio;
letta la nota dell’Avvocato NOME COGNOME che, nell’interesse della parte civile costituita RAGIONE_SOCIALE ha concluso per l’inammissibilità o il rigetto del ricorso, con condanna in solido dei ricorrenti al pagamento delle spese di giudizio.
letta la nota dell’Avvocato NOME COGNOME che, nell’interesse dei ricorrenti, ha replicato alla requisitoria del pubblico ministero e ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME e la società RAGIONE_SOCIALE nella persona del legale rappresentante, per il tramite del comune procuratore speciale e con ricorsi congiunti, impugnano la sentenza in data 01/10/2024 della Corte di appello di Palermo, che -per quello che qui interessa- ha parzialmente riformato la sentenza in data 04/09/2023 del Tribunale di Palermo, dichiarando la prescrizione del reato in data 10/03/2016 contestato a COGNOME al capo a) della rubrica, rideterminando conseguentemente la pena e confermando nel resto la condanna dello stesso COGNOME per i reati di appropriazione indebita (art. 646 cod. pen.) , frode nell’esercizio del commercio (art. 515 cod. pen.) e vendita di prodotti industriali con segni mendaci (art. 517 cod. pen.). La corte di appello ha confermato anche la condanna della società RAGIONE_SOCIALE ai sensi dell’art. 25 -bis decreto legislativo n. 231 del 2001 e le statuizioni civili.
Deducono:
1.1. Violazione degli artt. 130 e 516 cod. proc. pen., in relazione alla modifica della contestazione di cui al capo D) del decreto che ha disposto il giudizio.
Il motivo si rivolge alla modifica del capo D) del decreto di citazione diretta, di cui il pubblico ministero chiedeva la correzione all’udienza del 24.07.2023 , in quanto, nel contestare l’art. 25 -bis del decreto legislativo n. 231 del 2001, faceva riferimento all’art. 646 cod. pen. del capo A), non ricompreso tra i reati cui la norma menzionata collega la responsabilità della persona giuridica.
A tale proposito si evidenzia che già in quella sede la difesa eccepiva che non si poteva ricorrere alla procedura di correzione dell’errore materiale previsto dall’art. 130 cod. proc. pen., in quanto l’errore ver teva su un elemento essenziale dell’imputazione, così che andava applicata la disciplina prevista dall’art. 516 cod. proc. pen..
Si deduce, quindi, l’erroneità della decisione assunta dalla corte di appello, che ha ritenuto che non vi fosse stata alcuna violazione del diritto di difesa, in quanto le parti erano a conoscenza del fatto.
1.2. Violazione di legge in relazione all’art. 646 cod. pen..
I ricorrenti sostengono che non poteva ritenersi configurato il possesso, né la detenzione, in quanto le operazioni di ricarica erano istantanee e la consegna avveniva da parte di un soggetto legittimato al possesso delle stesse, che ne ordinava l’attività di riempimento.
«Quindi -scrive la difesa- mai la condotta contestata a COGNOME e alla RAGIONE_SOCIALE assumeva il carattere di autonoma disposizione su un bene che, in realtà, rimaneva nella sfera giuridica del soggetto legittimato».
Deduce, perciò, la mancanza di interversione del possesso, negando la configurabilità del delitto di appropriazione indebita.
1.3. Violazione di legge in relazione all’art. 515 cod. pen..
A tale proposito si assume che manca il soggetto passivo del reato, atteso che le persone che portavano le bombole per la ricarica non rientrano nella nozione di consumatori.
Si aggiunge che l’ origine e la qualità e, in definitiva, la diversità del bene è del tutto insussistente, attesa la natura fungibile del gas che non si presta a valutazioni di differenze tali da integrare l’elemento necessario alla configurazione del reato, anche alla luce della dottrina, che non considera le energie quali beni mobili dotati di valore economico.
1.4. Violazione di legge in relazione all’art. 517 cod. pen..
In questo caso si rimarca che i segni distintivi sulle bombole erano veri, mentre la fungibilità del gas non consente di operare differenze qualitative, così mancando il requisito della sussistenza di segni mendaci.
1.5. Violazione di legge in relazione alla prescrizione.
Si osserva, infine, che i reati, pur tenendo in considerazione il tempus commissi delicti indicato dalla corte di appello e 64 giorni di sospensione per la disciplina emergenziale Covid-19, devono considerarsi prescritti alla data del 12/10/2024.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono inammissibili.
1.1. Il primo motivo d’impugnazione, con il quale si denuncia la violazione dell’art. 516 cod. proc. pen., è inammissibile.
Il decreto di citazione diretta notificato all’imputato, nella sua originaria formulazione, al capo D), contestava alla società RAGIONE_SOCIALE l’art. 25 -bis del decreto legislativo n. 231 del 2001, facendo rinvio ai delitti di cui ai precedenti capi A) e B).
Il capo A) conteneva la contestazione dei fatti di appropriazione indebita; il capo B) conteneva la contestazione del delitto di frode in commercio.
1.2. Va rammentato che l’articolo 25bis e l’art. 25 -bis .1 del decreto legislativo 231/2001 disciplinano la responsabilità amministrativa delle persone
giuridiche in relazione alla commissione di reati da parte dei loro rappresentanti, organi o dipendenti, stabilendo che l’ente è responsabile per le sanzioni pecuniarie e interdittive in caso di condanna delle persone che lo rappresentano, lo dirigono o che sono suoi dipendenti per reati specifici tassativamente annoverati dalle norme, tra i quali rientrano i delitti contro l’industria e il commercio previsti ne gli articoli 513, 513bis , 514, 515, 516, 517, 517ter e 517quater del codice penale, (per come stabilito dall’art. 25 -bis.1), ma non anche il delitto di appropriazione indebita contemplato all’art. 646 cod. pe n.
1.3. Il pubblico ministero, avvedutosi che il delitto di appropriazione indebita contestato al capo B) della rubrica non rientrava tra i delitti presupposto dell’illecito in esame, chiedeva la correzione del capo D), mediante l’eliminazione del riferimento al capo A).
Veniva lasciato inalterato il riferimento al capo B), relativo al reato di frode in commercio, ricompres o nel novero dei reati di cui all’art. 25 -bis.1 decreto legislativo n. 231 del 2001.
Il ricorrente sostiene che tale correzione doveva essere attuata ai sensi dell’art. 516 cod. proc. pen..
1.4. Così delineata la questione, va rilevata l ‘inammissibilità del mot ivo per carenza d’interesse.
V a ricordato che l’interesse a impugnare, così come richiamato dall’art. 568, comma 4, cod. proc. pen. quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussist e solo se l’impugnazione sia idonea a costituire, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente; tanto vale a dire che sussiste un interesse concreto solo ove dalla denunciata violazione sia derivata una lesione dei diritti che si intendono tutelare e nel nuovo giudizio possa ipoteticamente raggiungersi un risultato non solo teoricamente corretto, ma anche praticamente favorevole (cfr. Sez. U, n. 42 del 13/12/1995, COGNOME, Rv. 203093 -01, seguita da moltissime conformi, fino alla più recente Sez. 3, Sentenza n. 30547 del 06/03/2019, COGNOME, Rv. 276274 -01).
In altre parole, l’interesse ad impugnare si identifica con l’interesse a conseguire un vantaggio concreto dalla riforma o dall’annullamento del provvedimento impugnato.
Vantaggio concreto che -invero- non si rinviene nel caso in esame, né viene prospettato dal ricorrente.
A tale proposito va rilevato come, con l’eliminazione del riferimento al capo A), il pubblico ministero ha sostanzialmente contratto l’accusa, concentrandola soltanto in relazione al capo B), così che dalla correzione di cui oggi ci si duole è sortito un effetto favorevole per la società, che ha visto restringers i l’ambito delle condotte contestate.
Questa, infatti, in esito alla correzione, non si è dovuta più difendere dalla contestazione dell’art. 25 -bis decreto legislativo n. 231 del 2001 sia in relazione al capo A), sia in relazione al capo B), per come previsto n ell’originaria formulazione, ma soltanto in relazione al capo B), che già gli era stato contestato e in relazione al quale non si è avuta alcuna immutazione del fatto.
Da ciò discende che l’eventuale accogliment o della censura in esame non produrrebbe alcun effetto pratico favorevole, con conseguente inammissibilità del primo motivo d ‘impugnazione .
2. Anche i restanti motivi d ‘impugnazione sono inammissibili.
Va premesso che le contestazioni a carico dell’odierno imputato sono correlate al fatto (non contestato) che negli stabilimenti della RAGIONE_SOCIALE venivano rinvenute centinaia di bombole con marchio (tra tanti altri) RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, che venivano imbottigliate e distribuite senza autorizzazione.
2.1. I ricorrenti, con il secondo motivo d ‘impugnazione , in relazione ai fatti di appropriazione indebita, sostengono l’insussistenza del requisito del possesso e della sua interversione, atteso che le bombole venivano portate dagli utenti e immediatamente imbottigliate e restituite.
La deduzione è manifestamente infondata già in punto di fatto, visto che gli investigatori hanno rinvenuto e sequestrato centinaia di bombole presso la sede della società, così che non trova riscontro l’assunto difensivo secondo cui esse venivano portate da utenti esterni al solo fine del loro riempimento, con immediata restituzione.
A fronte di tale dato oggettivo, la corte di appello ha osservato che il possesso e la sua interversione discendono da una precisa norma di legge, ossia l’art. 10, comma 3, decreto legislativo 22 febbraio 2006, n. 128 , che impone a ‘chiunque detenga’ bombole per GPL di restituirle alle imprese distributrici, anche tramite il rivenditore.
I magistrati dell’appello hanno correttamente individuato l a condotta indebitamente appropriativa nel fatto che le bombole in questione, detenute nei locali dell’RAGIONE_SOCIALE, anziché essere restituite alle proprietarie RAGIONE_SOCIALE.p.aRAGIONE_SOCIALE.aRAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE.aRAGIONE_SOCIALE, venivano riutilizzate a propri fini da COGNOME che, senza autorizzazione, le riempiva, vi apponeva sigilli anonimi e le rivendeva per trarne un ingiusto profitto, così -di fatto- impossessandosene, pur essendo tenuto alla loro restituzione.
2.1.1. Il ricorrente -pur a fronte di una motivazione aderente alle emergenze processuali e giuridicamente corretta- reitera la medesima argomentazione in fatto esposta davanti alla corte di appello e, al contempo, non si confronta con l’argomentazione fondata sulla lettura dell’art. 10, comma 3 del decreto legislativo n. 128 del 2006.
Tanto rende il motivo inammissibile sia perché meramente reiterativo di questioni di fatto affrontate e correttamente risolte dalla corte di appello; sia perché non si confronta con la motivazione, di cui trascura il decisivo riferimento al menzionato art. 10, comma 3, decreto legislativo n. 128 del 2006, che imponeva la restituzione delle bombole che, invece, venivano indebitamente trattenute da COGNOME, per riutilizzarle a fini commerciali.
L’impugnazione trascura tale decisivo rilievo, così risultando aspecifica.
Il difetto di specificità, infatti, si configura non solo in ipotesi di genericità e indeterminatezza delle ragioni di fatto e di diritto poste a sostegno della censura, ma anche in ragione dell’apparenza dei motivi, perché privi correlazione tra la complessità delle ragioni argomentate nella decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione o perché si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, così omettendo di assolvere alla tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso.
Sulla scorta di ciò, questa Corte ha precisato che «è inammissibile il ricorso per cassazione nel caso in cui manchi la correlazione tra le ragioni poste a fondamento dalla decisione impugnata e quelle argomentate nell’atto di impugnazione, atteso che questo non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato» (Sez. 4, n. 19364 del 14/03/2024, COGNOME, Rv. 286468 – 01).
2.2. Il difetto di specificità si rinviene anche in relazione al terzo e al quarto motivo d’impugnazione, con i quali i ricorrenti negano la configurabilità del reato di cui all’art. 515 cod. pen., sul presupposto della fungibilità del gas, così che non è possibile distinguerne la qualità, con conseguente mancanza del requisito della diversità, richiesto per la configurazione del reato.
La corte di appello ha dato risposta alla deduzione difensiva oggi riversata nel ricorso, osservando che il delitto di frode in commercio non era stato contestato per la qualità del gas, «ma nelle caratteristiche essenziali delle bombole, le quali venivano riempite e rimesse in commercio illecitamente, senza rispettare quei controlli che le società proprietarie del bene erano solite operare (ad esempio l’integrità di ogni singola bombola, il collaudo decennale e il peso specifico). Senza dire che, analizzando la vicenda nella prospettiva dei consumatori, si coglie un’evidente frode in commercio proprio perché gli acquirenti confidavano nel marchio di quelle bombole GPL, affidandosi anche ai relativi controlli, in termini di sicurezza e di qualità del prodotto, delle società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE.
In tal senso la corte di appello ha fatto corretta applicazione del principio di diritto secondo il quale «in tema di frode nell’esercizio del commercio, il bene giuridico tutelato va individuato nel leale esercizio di tale attività e la condotta tipica punita consiste nella consegna di una cosa diversa per origine, provenienza, qualità o quantità da quella oggetto del contratto, indipendentemente dal fatto che
l’agente abbia usato particolari accorgimenti per ingannare il compratore o dalla circostanza che quest’ultimo potesse facilmente, applicando normale attenzione e diligenza, rendersi conto della difformità tra merce richiesta e consegnata. (Nella fattispecie la Corte ha ritenuto idonea ad ingannare il consumatore, in ordine alla qualità del gas acquistato, la consegna di bombole con il marchio “RAGIONE_SOCIALE“, ancorché non impresso dall’imputato)» (Sez. 2, n. 48026 del 04/11/2014, P.C., Rv. 261325 – 01).
Anche in questo caso, le argomentazioni spese dalla corte di appello non sono prese in alcuna considerazione dai ricorrenti, che si limitano a ribadire che il gas è un bene fungibile e, in quanto tale, non è distinguibile nella qualità, così trascurando ogni confronto con le argomentazioni della corte di appello.
Da qui l’inammissibilità del motivo per aspecificità.
2.3. Risulta apodittica, poi, l’affermazione secondo cui le persone che si presentavano per il riempimento delle bombole non rientrano nella nozione di consumatori.
Anzitutto, ancora una volta, il ricorrente sostiene che l’attività si risolveva nel riempimento di bombole portate dall’esterno, là dove, al contrario, i recipienti venivano rinvenuti nella stessa sede dell’AGRIGAS, dove venivano riempiti e distribuiti per la loro immissione in commercio, per come accertato con l’attività investigativa ampiamente descritta e comprovata.
Tanto è già sufficiente a far emergere l’inammissibilità del motivo, in quanto si risolve in una ricostruzione del fatto alternativa a quella della doppia sentenza conforme.
Ricostruzione, peraltro, non aderente alle emergenze probatorie.
Al contempo, i ricorrenti non spiegano perché gli acquirenti del GPL non rientrebbero nella nozione di consumatori, per come definita dall’art. 3, comma 1, lett. a), decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, così che la deduzione risulta meramente assertiva e apodittica.
A ciò si aggiunga che l’art. 515 cod. pen. non prevede che l’attività fraudolenta sia realizzata in danno di un consumatore inteso in senso stretto, visto che la norma si riferisce genericamente all’acquirente e richiede solamente che vi sia uno scambio materiale del bene e che il bene sia diverso da quello dichiarato o pattuito, senza che sia a tal fine richiesto che la consegna sia realizzata nei confronti di una persona fisica che acquista al di fuori di un’attività professionale, così non richiedendosi che l’acquirente sia un consumatore per come definito dall’art. 3, comma 1, lett. a), decreto legislativo 6 settembre 2002, n. 206, con la conseguenza che la fattispecie si realizza anche quando lo scambio sia perfezionato nei confronti di un acquirente professionale.
Da qui la manifesta infondatezza della deduzione difensiva.
2.3. Il motivo con cui si nega la configurabilità dell’art. 517 cod. pen. non era stato sollevato davanti alla corte di appello nei termini oggi esposti con i ricorsi.
Con l’atto di appello, invero, gli odierni ricorrenti sostenevano che non si configurava la fattispecie prevista dall’art. 517 cod. pen., ma l’illecito amministrativo di cui agli artt. 10 e 18 del decreto legislativo n. 128 del 2006.
Con i ricorsi oggi in esame, invece, tale deduzione è stata abbandonata e si sostiene la non configurabilità del reato in ragione della fungibilità del gas, che rende indistinguibile la sua qualità, così opponendosi una ragione diversa da quella dedotta con il gravame.
Lasciando in disparte che tale argomentazione, per le ragioni già esposte ai paragrafi precedenti, rimane manifestamente infondata, va comunque rilevato che tale argomento, in relazione all’art. 517 cod. pen,, viene prospettata per la prima volta con il ricorso, sulla base di argomentazioni non svolte con l’atto di appello, con la loro conseguente inammissibilità.
Si deve ribadire, infatti, che «nel giudizio di legittimità, il ricorso proposto per motivi concernenti le statuizioni del giudice di primo grado che non siano state devolute al giudice d’appello, con specifico motivo d’impugnazione, è inammissibile, poiché la sentenza di primo grado, su tali punti, ha acquistato efficacia di giudicato (Massime Conformi n. 4712 del 1982, Rv. 153578; n. 2654 del 1983 Rv. 163291)» (Sez. 3, n. 2343 del 28/09/2018 Ud., dep. 18/01/2019, COGNOME, Rv. 274346).
2.4. Inammissibile perché manifestamente infondato anche l’ultimo motivo di ricorso.
Lo stesso ricorrente riconosce che il reato contestato al capo A) -considerando il tempus commissi delicti così come ritenuto dalla corte di appello- si prescrive il 12 ottobre 2024, ossia in una data successiva alla sentenza della corte di appello (pronunciata in data 01/10/2024) che, pertanto, ha correttamente escluso la configurabilità della fattispecie estintiva.
Da ciò la manifesta infondatezza del motivo.
2.4.1. Va evidenziato, infine, che non è possibile rilevare la prescrizione dei reati eventualmente maturata nelle more della trattazione dell’odierna impugnazione, atteso che il ricorso inammissibile per causa originaria non consente l’instaurazione di un regolare rapporto processuale di impugnazione, con la conseguenza che la sentenza impugnata passa automaticamente in cosa giudicata e resta precluso qualsiasi accertamento di sopravvenute cause di non punibilità (nella specie, la prescrizione del reato (in questo senso, Sez. 2, n. 28848 del 08/05/2013, COGNOME, Rv. 256463 -01; Sez. 3, n. 42839 del 08/10/2009, COGNOME, Rv. 244999 -01).
I ricorsi sono, conclusivamente, inammissibili.
Alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione segue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della
causa di inammissibilità, al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di euro tremila ciascuno, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
4. Va disposta anche la condanna dei ricorrenti alla rifusione, in favore delle costituite parti civili, delle spese sostenute nel presente grado di giudizio, con la precisazione che l’RAGIONE_SOCIALE ha chiesto la condanna del solo COGNOME, mentre RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE hanno chiesto la condanna di entrambi i ricorrenti in solido, così che si statuirà in dispositivo in coerenza al principio della domanda.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila ciascuno in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre COGNOME NOME alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile RAGIONE_SOCIALE ed il medesimo ricorrente, nonchè la RAGIONE_SOCIALE in solido tra loro, alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE che liquida in complessivi euro 4.050 per ciascuna parte civile, oltre accessori di legge.
Così deciso il 21/05/2025