Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 2741 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 2741 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 05/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME COGNOME NOME, nato a Subiaco il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 27/03/2023 della Corte di appello di RAGIONE_SOCIALE;
visti gli atti del procedimento, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME; udito il AVV_NOTAIO ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso; udito il difensore del ricorrente, AVV_NOTAIO, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME, con atto del proprio difensore, impugna la sentenza della Corte di appello di RAGIONE_SOCIALE del 27 marzo di quest’anno, che ne ha confermato la condanna per i delitti di tentato furto in abitazione, tentata acquisizione sostanza stupefacente, omessa denuncia di reato, favoreggiamento personale e rivelazione di segreto d’ufficio.
In sintesi, nella sua qualità di militare in forza al RAGIONE_SOCIALE, egli è stato ritenuto colpevole:
di avere ideato ed organizzato un furto nell’abitazione di COGNOME, al fine di impossessarsi della sostanza stupefacente e del denaro, pari a ventimila euro, da costui detenuti, senza tuttavia riuscirvi, a causa dell’imprevista presenza in casa della moglie dello stesso (capo 1 dell’imputazione);
di aver compiuto, in tal modo, atti idonei ed inequivocamente diretti a conseguire la disponibilità di tale stupefacente, pari ad un chilogrammo di cocaina (capo 2);
di aver omesso la dovuta denuncia all’autorità giudiziaria della detenzione di quella sostanza stupefacente da parte del COGNOME (capo 3);
di aver avvertito quest’ultimo, in un’altra occasione, delle indagini in corso a suo carico da parte del RAGIONE_SOCIALE, delle quali aveva avuto notizia tramite il proprio collega NOME COGNOME, in particolare rivelando al COGNOME le reali ragioni per le quali lo stesso appuntato COGNOME lo aveva incontrato qualche giorno prima con il mero pretesto di chiedergli alcune informazioni (capo 4);
di aver indebitamente rivelato al COGNOME, in questo modo, notizie destinate a rimanere segrete (capo 5);
di avere, infine, reso al suo collega COGNOME notizie inveritiere su NOME COGNOME, descrivendolo come un delinquente di modestissima rilevanza («un morto di fame… non c’ha storie vere e proprie»), quando invece ben ne conosceva l’inserimento nel mercato locale degli stupefacenti, e dirottando l’interesse investigativo dei colleghi su un altro soggetto, tale “NOME“, indicato loro come «uno da dieci chili per volta» (capo 6).
Il ricorso consta di tre motivi, che muovono da un denominatore comune, diffusamente illustrato nella relativa premessa: quello, cioè, per cui i giudici d merito abbiano pregiudizialmente escluso l’attendibilità della ricostruzione difensiva, secondo la quale gli indiscussi contatti personali e telefonici con i predetti COGNOME ed COGNOME sarebbero stati tenuti dall’imputato esclusivamente con l’intento di guadagnarsene il favore come confidenti, ed anche il progetto del furto in casa del NOME avrebbe rappresentato null’altro che una messinscena per accreditarsi presso costoro. Per effetto, dunque, di tale posizione preconcetta, sia il Tribunale che la Corte di appello hanno travisato il significato delle conversazioni intercettate e trascurato le testimonianze di segno opposto, perciò rendendo una motivazione carente, in alcuni passaggi contraddittoria e, comunque, manifestamente illogica.
2.1. In particolare, riguardo alla vicenda del progettato furto nell’abitazione del COGNOME, e dunque ai primi tre capi d’imputazione, il ricorso lamenta anzitutto la mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello, per l’assunzione
delle testimonianze dei RAGIONE_SOCIALE COGNOME e COGNOME, i quali, rendendo informazioni in sede di indagini difensive, hanno riferito del ruolo di informatore ed agente provocatore svolto dall’imputato. La Corte d’appello le avrebbe immotivatamente giudicate irrilevanti, erroneamente ritenendole acquisite dalla difesa dopo il giudizio di appello, nonché illogicamente ravvisando un ostacolo alla loro assunzione dal fatto che il processo di primo grado si fosse svolto con il rito abbreviato.
In sostanza – si assume – la Corte distrettuale ha fondato il proprio giudizio soltanto sul tempo, da essa aprioristicamente reputato troppo lungo, trascorso tra la sottoposizione dell’imputato a misura cautelare e la sua dichiarazione scritta resa agli inquirenti, con la quale ha offerto la propria versione dell’accaduto. Infatti, le conversazioni intercettate non sono univoche, né sono sorrette dai necessari riscontri, mentre l’assunto dei giudici trova plurime smentite, in quanto: i soldi ipoteticamente detenuti dal NOME non sono stati trovati; la chiave della porta dell’abitazione di costui, che l’imputato avrebbe procurato ai suoi correi, non apriva (e la sentenza trae prova del contrario soltanto da una congetturale interpretazione di un dialogo con il correo incaricato d’introdursi in casa); non solamente NOME, ma anche sua moglie NOME COGNOME ha dichiarato di possedere soltanto un esemplare di quelle chiavi e di non averle mai cedute a nessuno, ma la sua testimonianza, benché riscontrata, è stata ritenuta inattendibile senza alcun vaglio critico.
Con particolare riferimento ai capi 2) e 3) dell’imputazione, poi, manca del tutto in sentenza l’illustrazione della univocità degli atti e della loro direzione conseguimento della disponibilità dello stupefacente per trarvi profitto; non è dimostrata, inoltre, la consapevolezza dell’imputato circa la disponibilità della droga da parte di NOMENOME né v’è alcuna motivazione sui presupposti per la configurabilità del delitto di cui all’art. 361, cod. pen.. La sentenza, infatti, si l a valorizzare il rinvenimento addosso al COGNOME, qualche giorno dopo, di soli cinque grammi di cocaina, e non già di un chilogrammo all’interno della sua abitazione (come invece gli si contesta), addirittura traendo un elemento a carico dell’imputato dalla semplice richiesta difensiva subordinata di derubricare il fatto nell’ipotesi lieve di cui al comma 5 dell’art. 73, d.P.R. n. 309 del 1990.
2.2. Il secondo motivo denuncia sostanzialmente i medesimi vizi in relazione alle restanti imputazioni, lamentando come, per effetto del già rilevato pregiudizio, la Corte d’appello abbia interpretato in modo frammentario le conversazioni dell’imputato con i colleghi e con i suoi asseriti correi, erroneamente omettendo di considerare la finalità investigativa di quei suoi comportamenti, invece confermata dai suoi colleghi e tale da far ritenere il suo agire scriminato dall’adempimento di un dovere, a norma dell’art. 51, cod. pen..
2.2.1. In particolare, quanto alla rivelazione di segreto d’ufficio di cui al capo 5), la sentenza ne trae la prova da un frammento di conversazione intercettata, senza tuttavia indicare per quale ragione l’individuo «venuto per fotterti» – di cui il ricorrente dà notizia a NOME – dovesse identificarsi per l’appuntato COGNOME e pervenendo a tale conclusione solo per un fraintendimento delle conversazioni tra costui e COGNOME, in realtà riconducibili all’attività informativa “sotto copertu svolta da quest’ultimo.
2.2.2. Riguardo, infine, al favoreggiamento di COGNOME (capo 6), le informazioni veicolate dal ricorrente ai suoi colleghi («è un morto di fame… ha una Punto blu tutta scassata… non smuove un cazzo… non c’ha storie…») non avrebbero alcuna oggettiva valenza ausiliatrice e la sentenza, per sorreggere l’accusa, si è trovata costretta a valorizzare un episodio del tutto sganciato e non significativo, quale quello di maggio del 2019, in cui COGNOME, dopo essersi sottratto ad un arresto ed essersi reso irreperibile, aveva telefonato a COGNOME, dicendogli di avere dei problemi.
2.3. Il terzo motivo di ricorso si duole del trattamento sanzionatorio, per la mancanza di argomentazione sugli indici dell’art. 133, cod. pen., e sul diniego di qualsiasi circostanza attenuante, ma soprattutto per non essere la Corte d’appello intervenuta sulla misura della pena, pur avendola espressamente ritenuta incongrua ed inadeguata – quantunque per difetto – e, quindi, determinata in violazione di legge.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile, per l’assoluta genericità dei motivi.
Questi, infatti, si risolvono nella pura e semplice ripetizione di quelli proposti con l’atto d’appello, ai quali la sentenza impugnata ha dato specifica risposta, punto per punto (si leggano le pagg. da 17 a 24), con argomentazioni del tutto lineari sul piano logico, con le quali il ricorso elude qualsiasi confronto critico limitandosi a stigmatizzarle come manifestamente illogiche, senza tuttavia spiegare per quali ragioni.
In particolare, in relazione ai delitti di cui ai primi tre capi d’imputazione la Corte d’appello ha specificamente indicato una pluralità di comportamenti dell’imputato, precedenti, contestuali e successivi al tentato furto presso l’abitazione di COGNOME, del tutto incompatibili, sul piano logico, con l’ipotes difensiva della messinscena e tali, perciò, da escludere anche qualsiasi rilevanza dell’invocata integrazione istruttoria (pagg. 17-19).
3. Con riferimento, poi, ai delitti di cui ai capi 4) e 5), la sentenza ha posto in risalto la stretta relazione di consequenzialità, anche sul piano cronologico, tra l’acquisizione dai colleghi delle informazioni investigative su COGNOME, l’avvertimento reso a quest’ultimo e l’abbandono, da parte dello stesso, della sua precedente utenza telefonica, altresì evidenziando come già in precedenza si fossero verificate analoghe “soffiate” e come lo stesso COGNOME appellasse COGNOME “il comandante”, a riprova del rapporto di complicità esistente tra loro.
Risulta perciò finanche superflua – benché corretta – l’osservazione, contenuta in sentenza, per cui il favoreggiamento è un reato di pericolo, di pura condotta, a forma libera ed a dolo specifico, non occorrendo perciò che l’elusione delle indagini si sia realizzata ed essendo sufficiente semplicemente un’azione diretta a tal fine ed oggettivamente idonea allo scopo (fra le tante, Sez. 6, Sentenza n. 43548 del 15/05/2019, Alvaro, Rv. 277202). Ed è francamente arduo negare una siffatta idoneità e direzione alla condotta di un carabiniere che avvisi uno spacciatore professionale del fatto che qualcuno lo voglia “fottere”, “fregare”, che lo ha “venduto” e gli “vuole male”, altresì con l’avvertimento di “stare attento” (vds, pag. 21, sent.).
A questo si aggiunga, con specifico riferimento al delitto di cui all’art. 326, cod. pen., che l’intenzione di assicurarsi il generico favore di un indagato al fine di indurlo a diventare un confidente di polizia, quand’anche esistente, comunque non varrebbe a rendere legittima la rivelazione del segreto sulle indagini in atto, non essendo sufficiente ad integrare gli estremi di alcuna scriminante tipica, in ragione della mancanza di qualsiasi relazione di necessità tra quella condotta delittuosa ed i doveri istituzionali degli appartenenti ad organi di polizia giudiziaria.
4. Quanto al favoreggiamento verso COGNOME (capo 6), i giudici d’appello tratteggiano compiutamente, da un canto, il denso vissuto criminale di questi nel settore degli stupefacenti e, dall’altro, il risalente rapporto di cointeressenza che lo legava al COGNOME, da tali elementi traendo la conclusione, indiscutibilmente coerente sul piano logico, dell’intenzionale strumentalità allo sviamento delle indagini delle informazioni date da COGNOME su costui ai propri colleghi che lo indagavano.
In questo senso, nient’affatto inconferenti, ma anzi decisamente eloquenti, si presentano le circostanze di fatto indicate in sentenza e non contestate nella loro esistenza: ovvero l’episodio in cui, dopo essere sfuggito ad un arresto, COGNOME si fosse rivolto proprio all’imputato per chiedere ausilio; e le parole dello stesso COGNOME, che, parlando del COGNOME con un proprio complice, lo definisce un «gran ladro… peggio di noi», raccomandando al suo interlocutore che «nessuno deve sapere niente di questa persona».
Relativamente, infine, al trattamento sanzionatorio, il motivo di ricorso, oltre a muovere mere censure in fatto, e per di più del tutto generiche, è privo di qualsiasi interesse nella parte in cui si duole della mancata correzione, da parte della Corte d’appello, di una pena da essa stimata incongrua. Tale valutazione, infatti, è stata compiuta da quei giudici “per difetto”, vale a dire perché la pena irrogata in primo grado è stata da essi ritenuta troppo lieve: ragione per cui, correttamente, in assenza d’impugnazione sul punto da parte del AVV_NOTAIO ministero, l’hanno ritenuta non emendabile; e, in ogni caso, l’imputato giammai se ne potrebbe dolere, trattandosi di un errore – peraltro, si ribadisce, non tale produttivo di effetti per lui favorevoli.
6. L’inammissibilità del ricorso comporta obbligatoriamente – ai sensi dell’art. 616, cod. proc. pen. – la condanna del proponente alle spese del procedimento ed al pagamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta somma, considerando la manifesta inconsistenza delle doglianze, va fissata in tremila euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2023.