Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 11899 Anno 2019
Penale Sent. Sez. 1 Num. 11899 Anno 2019
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 13/07/2018
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato a CATANZARO il 01/06/1978 COGNOME NOME nato a MONTEVARCHI il 04/06/1973
NOME nato a GUARDAVALLE il 16/09/1960
avverso la sentenza del 23/03/2017 della CORTE APPELLO di FIRENZE
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo
Il P.G. conclude chiedendo il rigetto dei ricorsi.
udito il difensore
L’avvocato NOME COGNOME conclude chiedendo l’accoglimento del ricorso.
L’avvocato NOME COGNOME conclude chiedendo l’accoglimento dei ricorsi.
RITENUTO IN FATI -0
Con sentenza in data 11.5.2015, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Arezzo, in esito a giudizio abbreviato, dichiarava COGNOME Teresa, COGNOME NOME e NOME colpevoli del reato di cui al capo A), previsto dall’art. 12, commi 1, 3, 3 -bis, 3 -ter, d.lgs. 286/98, commesso nel dicembre 2007, per aver favorito, al fine di trarne profitto, l’ingresso o la permanenza sul territorio dello Stato di diversi cittadini extracomunitari, presentando nel 2007 numerose domande di rilascio di un visto di ingresso, basate su falsi documenti relativi all’instaurazione di rapporti di lavoro e alla concessione di alloggi in abitazioni; dichiarava NOME e NOME colpevoli del reato – nella forma tentata – di cui al capo B), previsto dagli artt. 12, comma 5, d.lgs. 286/98, 494, 48, 479 cod. pen., commesso nel settembre 2009, per aver presentato false domande di regolarizzazione di cittadini extracomunitari, dichiarando di essere esse stesse datori di lavoro; dichiarava NOME colpevole del reato di cui al capo D), ex art. 612 cod. pen., commesso il giorno 1.10.2009, per aver minacciato COGNOME NOME. Il predetto giudice, concesse le circostanze attenuanti generiche e computata la diminuente per la scelta del rito, condannava: NOME alla pena di anni quattro di reclusione ed euro 340.000,00 di multa; NOME alla pena di anni tre, mesi quattro di reclusione ed euro 300.000,00 di multa; NOME alla pena di anni tre, mesi sei di reclusione ed euro 100.000,00 di multa.
Con sentenza del 23.3.2017, la Corte di appello di Firenze, adita dagli imputati, così decideva: in parziale riforma del citato provvedimento di primo grado, assolveva GLYPH NOME NOME dal reato di minaccia di cui al · capo D), rideterminava la pena nei suoi confronti in anni tre, mesi undici di reclusione ed euro 334.000,00 di multa e riduceva la pena irrogata ad NOME ad anni due, mesi sei di reclusione ed euro 50.000,00 di multa; confermava integralmente le statuizioni riguardanti NOME NOME.
I difensori degli imputati hanno proposto ricorsi per cassazione.
In difesa di NOME e NOME sono stati proposti atti di ricorso sostanzialmente sovrapponibili.
4.1. Con il primo motivo di ciascuno dei predetti ricorsi si deduce, richiamando l’art. 606, comma 1 lett. b), cod. proc. pen., violazione degli artt. 191, 192, 63, 350, 442 cod. proc. pen. per valutazione non corretta del materiale probatorio. Il giudice del merito ha dato rilevanza alle dichiarazioni di
altri coimputati, senza curarsi che per nessuno di loro sono state superate le soglie di attendibilità. Emblematico, in proposito, è quanto avvenuto con le dichiarazioni di COGNOME NOME, di COGNOME NOME e dei soggetti denuncianti. Tali dichiarazioni sono state utilizzate nonostante il carattere manifestamente autoreferenziale, tendente a scaricare la colpa su altri. Inoltre, con riferimento specifico alle dichiarazioni del COGNOME, non potevano essere prese in considerazione nel giudizio abbreviato, in quanto trattasi di prosecuzione di un verbale di sommarie informazioni testimoniali. È irrilevante, per fondare la responsabilità degli imputati, la circostanza che alcuni datori di lavoro fossero inidonei ad assumere gli immigrati, perché il Rossi e la COGNOME, non avendo alcuna posizione di garanzia, non dovevano accertare l’idoneità dei datori di lavoro. Comunque, se fosse vero quanto affermato dal giudice del merito, si dovrebbe éscludere la responsabilità dei ricorrenti, perché non sarebbe superata la necessaria soglia di offensività richiesta dalla legge. Inoltre, non dimostrano alcunché né il ritrovamento nello studio degli imputati delle pratiche di ingresso o sanatoria né i frequenti contatti con gli immigrati, trattandosi di fatt agevolmente spiegabili alla luce delle molteplici funzioni che la normativa statale attribuisce ai consulenti del lavoro.
4.2. Con il secondo motivo di ciascuno dei predetti ricorsi si deduce, richiamando l’art. 606, comma 1 lett. b) cod. proc. pen, violazione dell’art. 533 cod. proc. pen. La decisione è basata su meri sospetti inidonei a fondare la prova, richiesta dall’ordinamento, della responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio.
4.3. Con il terzo motivo di ciascuno dei predetti ricorsi si deduce, richiamando l’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen., violazione dell’art. 12 d.lgs. 286/98. Il giudice del merito, illogicamente, ha ritenuto troppo oneroso per la pubblica accusa dimostrare che i cittadini stranieri non si trovassero in Italia. In mancanza di tale accertamento, il fatto andava riqualificato ai sensi del quinto comma dell’art. 12 d.lgs. 286/9. Questa conclusione è rafforzata dal fatto che negli atti erano presenti elementi che permettevano di dubitare dell’assenza degli stranierr dal territorio nazionale. Se si riqualifica il fatto nei termini espost il reato deve essere dichiarato estinto per intervenuta prescrizione, poiché la vicenda risale al 2007, il reato si prescrive in sei anni e la richiesta di rinvio a giudizio è stata formulata solo nel maggio 2014.
4.4. Con il quarto motivo di ciascuno dei predetti ricorsi si deduce, richiamando l’art. 606, comma 1 lett. b), e), cod. proc. pen., violazione dell’art. 12, commi 1 e 3, d.lgs. 286/98 (attuale formulazione), perché i giudici hanno escluso che il fatto andasse ricondotto nell’ipotesi di cui al primo comma dell’art. 12 d.lgs. 286/98. Agli imputati va applicata la nuova formulazione del citato art.
12, in virtù del principio del favor rei. Inoltre, sia il primo, sia il terzo comma del citato articolo prevedono la fattispecie di . favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, però, mentre nel primo comma si descrivono le condotte più ampie possibili, nel terzo si aggiunge un quid pluris, rappresentato dal fatto che la condotta di favoreggiamento sia effettivamente sfociata nella clandestinità del soggetto extra comunitario. Questi dati permettono di applicare il primo comma del citato art. 12, atteso che nel caso in esame non c’è mai stato alcun effettivo ingresso degli immigrati sul territorio dello Stato.
4.5. Con il quinto motivo di ciascuno dei predetti ricorsi si deduce, richiamando l’art. 606, comma 1 lett. b), cod. proc. pen., erronea applicazione di legge penale in ordine al riconoscimento sia dell’aggravante dell’ingresso di cinque o più persone,sia di quella della cooperazione nel reato di tre o più soggetti. La prima aggravante non sussiste, perché manca l’evento dell’ingresso nel territorio dello Stato. Il giudice del merito ha confuso la presenza di più domande di ingresso per i flussi, con l’ipotesi che un unico fatto abbia riguardato un numero di persone almeno pari a cinque. In altri termini, poiché ogni domanda rappresenta un fatto a sé e riguarda una sola persona, l’aggravante non è configurabile. Pertanto, si impone una rideterminazione del trattamento sanzionatorio, allo stato troppo gravoso.
4.6. Con il sesto motivo di ciascuno dei predetti ricorsi si deduce, richiamando l’art. 606, comma 1 lett. b), e), cod. proc. pen., violazione di legge e difetto di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio. Il giudice del merito, pur riconoscendo che si debba applicare la vecchia normativa, non ha rinnodulato la pena da irrogare e, in ogni caso, ha applicato una pena eccessiva, non avendo tenuto conto degli elementi specifici emersi durante il processo.
5. Il ricorso proposto per NOME è articolato in 4 motivi.
5.1. Con il primo si deduce violazione e difetto di motivazione in relazione all’art. 12, commi 1, 3, 3 -bis, 3ter d.lgs. 286/98, per mancata riqualificazione dei fatti ai sensi del quinto comma del medesimo articolo. Il giudice di appello, nel rigettare le critiche avanzate con l’atto di gravame, ha fatto riferimento a informazioni che riguardano esclusivamente il coimputato COGNOME e che, soprattutto, non provano che gli stranieri interessati dalle pratiche contestate all’imputata si trovassero all’estero e non in Italia. Inoltre, vi è stata inversione dell’onere della prova: in base alle regole del sistema spettava al pubblico ministero e non alla difesa dimostrare la sussistenza degli elementi fondanti la fattispecie contestata, cioè l’assenza degli stranieri dal territorio dello Stato. All’imputata andava contestato il quinto comma dell’art. 12 citato, poiché la presenza o meno degli stranieri in Italia è rimasta un fatto ignoto.
5.2. Con il secondo motivo si deduce difetto di motivazione in ordine alla partecipazione concorsuale dell’imputata, ritenuta provata, pur in assenza di condotte materiali, per il sol fatto che NOME, pur sapendo che la figlia e il genero utilizzavano indebitamente i suoi dati, non li ha mai denunciati. Il ricorrente osserva che non esiste una massima di esperienza che permetta di equiparare l’omessa denuncia di un fatto alla accondiscendenza ad esso. È insufficiente a provare la responsabilità dell’imputata anche la telefonata fra questa e la figlia: a tutto voler concedere, dalla conversazione si può evincere solo che NOME fosse consapevole che lo studio della figlia NOME svolgesse qualche attività illegale, ma non la consapevolezza di NOME di figurare come datrice di lavoro fittizia. L’apparato su cui si basa la pronuncia di condanna è inidoneo a fondare la penale responsabilità dell’imputata.
5.3. Con il terzo motivo si deduce difetto di motivazione rispetto al fine di profitto richiesto dalle fattispecie contestate. Si reputa, richiamando le ragioni esposte nel motivo precedente, che la telefonata fra la COGNOME e la COGNOME è inidonea a dimostrare che l’imputata abbia percepito del denaro.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi proposti nell’interesse di COGNOME NOME e COGNOME NOME, da esaminare congiuntamente per l’omogeneità delle censure, non meritano accoglimento.
1.1. In relazione al primo e al secondo motivo di ciascuno dei predetti ricorsi, volti a criticare l’idoneità del materiale probatorio acquisito a sostenere una sentenza di condanna, deve osservarsi che le doglianze, di carattere generico, sono smentite dai riferimenti del giudice del merito ai dati acquisiti nel corso dell’istruttoria, come i plurimi ordini di pagamento fatti dagli stranieri per ottenere visti di ingresso e le dichiarazioni dei collaboratori dello studio, i quali hanno riferito di numerose pratiche redatte in favore di extracomunitari. Con esauriente motivazione, il giudice del merito ha affrontato la questione relativa all’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da COGNOME NOME e COGNOME NOME. In particolare, i giudici di appello hanno rilevato, rispetto al primo, che è stato lo stesso dichiarante a presentarsi per rettificare quanto asserito precedentemente, dunque le sue affermazioni sono utilizzabili nel rito prescelto dagli imputati. Rispetto alla COGNOME, i giudici di appello hanno osservato che, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, la dichiàrante non ha mai accettato la promessa di un compenso per consentire la formazione di una pratica di lavoro per uno straniero: pertanto anche queste dichiarazioni debbono inserirsi nel compendio
probatorio. I rilievi indicati permettono di affermare che nella sentenza impugnata è offerta, senza salti logici e sulla base della corretta applicazione dei principi giuridici sulla valutazione delle prove, una congrua lettura degli elementi probatori disponibili, che consentono di ritenere immune da vizi logici la giustificazione della decisione. Al contrario, i motivi di ricorso esposti, lamentando difetti motivazionali, contengono, in realtà, dei tentativi inammissibili in sede di legittimità – di proporre una rilettura, strumentale a una nuova ricostruzione, delle circostanze di fatto analizzate compiutamente in sede di merito.
1.3. Con riguardo al quinto e al sesto motivo di ciascuno dei predetti ricorsi – con i quali si contesta la legittimità del trattamento sanzionatorio in relazione al duplice profilo del riconoscimento dell’aggravante di cui al terzo comma dell’art. 12 e della ragionevolezza della pena concretamente irrogata deve notarsi, in primo luogo, che il giudice del merito ha spiegato congruamente, senza incorrere in alcun vizio di logicità, che l’aver favorito l’ingresso o la permanenza illegale nel territorio dello Stato di cinque o più persone è fatto dimostrato dal numero elevatissimo di pratiche illegali acquisite agli atti. In secondo luogo, deve ricordarsi che la graduazione della pena, anche in relazione
1.2. Il terzo e il quarto motivo di ciascuno dei predetti ricorsi contestano la mancata riqualificazione del fatto ai sensi del quinto comma dell’art. 12 citato e, in subordine, la mancata applicazione dello stesso art. 12 nella sua formulazione attuale. In realtà, deve notarsi, con riferimento al primo profilo, che il giudice del merito ha posto in evidenza come la presenza all’estero di molti stranieri indicati negli atti, è confermata da numerosi indizi e che, in ogni caso, non può giungersi a conclusioni diverse in base agli elementi forniti dagli imputati. Il giudice del merito precisa che la presenza in Italia nel 2002 di un tale COGNOME è irrilevante, perché a causa del notevole tempo trascorso è plausibile ipotizzarne il successivo allontanamento dal territorio dello Stato. Parimenti, il giudice del merito osserva come non provi nulla la circostanza che molti stranieri visitavano lo studio, perché resta non dimostrata la corrispondenza fra questi soggetti e i beneficiari del visto. Con riferimento al secondo profilo, il giudice del merito precisa che tanto il primo quanto il terzo comma dell’art. 12 citato, nella sua formulazione attuale, puniscono chi favorisce, anche con attività prodromiche, l’ingresso dello straniero nel territorio dello Stato. Pertanto, non si può dubitare che la condotta realizzata dagli imputati costituiva all’epoca reato ai sensi del terzo comma, che va applicato nella vecchia formulazione perché, prevedendo una pena dai 4 ai 15 anni di reclusione, è molto più favorevole. I rilievi del giudice del merito sono logici, coerenti e rispettosi dei principi di dirit quindi non censurabili in questa sede. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
agli aumenti e alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti e attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale assolve al relativo obbligo di motivazione dando conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” “congruo aumento”, o con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017 – dep. 21/07/2017, COGNOME e altro, Rv. 271243). Nel caso concreto, il giudice del merito ha fatto corretta applicazione dei citati principi, dando puntale indicazione degli elementi rilevanti ai fini della determinazione delle sanzioni, le quali si inseriscono nella cornice edittale tracciata dalla norma originaria.
2. Il ricorso presentato da COGNOME Maria non merita accoglimento.
2.1. Con riferimento alla responsabilità penale dell’imputata, il giudice del merito ha ritenuto sussistente l’elemento oggettivo dei reati contestati sulla base della falsità delle domande di regolarizzazione presentate da NOME COGNOME nel 2007 e nel 2009. In particolare, il giudice del merito osserva che le dichiarazioni presentate nel, 2007, con le quali si manifestava la volontà dell’imputata di assumere degli stranieri presso la propria ditta, non potevano ritenersi veritiere, sia a causa delle modeste dimensioni dell’azienda, incompatibili con un numero così elevato di dipendenti, sia perché per alcuni stranieri si indicava come luogo di ospitalità l’abitazione del COGNOME, la quale era in realtà inidonea allo svolgimento di attività di ricevimento. Parimenti, il giudice del merito ha reputato false le dichiarazioni del 2009, riguardanti l’assunzione di un badante, perché la manifestazione di volontà dell’imputata era incompatibile col suo basso reddito e con le sue condizioni di salute, le quali non erano tali da rendere necessaria l’assistenza da parte di un collaboratore familiare. Peraltro, deve rilevarsi che non si è verificata alcuna inversione dell’onere della prova, perché le pratiche acquisite sono elementi probatori ed è superflua un’attività istruttoria ulteriore.
2.2. Con riferimento alla condotta partecipativa dell’imputata, il giudice del merito ha precisato che ad NOME non era contestato un concorso materiale ma la sua consapevolezza di partecipare all’attività illecita, la quale emergeva chiaramente da una conversazione con la figlia NOME. In particolare, nella sentenza si rileva che il tenore della conversazione era tale da dimostrare la conoscenza, da parte di NOME, delle attività illecite della figlia e del genero: in caso contrario, non si spiegherebbe l’omessa p 0,,ze denuncia. E, avuto riguardo alla posizion9 in cui NOME risultava in 1 1 base alle pratiche esaminate, non può ritenersi che si sia trattato di mera accondiscendenza. Con riferimento alla sussistenza del dolo, il giudice del merito
ha osservato che, pur in assenza di documenti attestanti la percezione di danaro, era poco credibile che NOME non avesse partecipato ai proventi dell’attività illecita. E l’affermazione è plausibile, avuto riguardo all condotta di costei. Inoltre, rispetto al reato di cui al capo b), in sentenza si specifica che la sostituzione di persona era stata commessa dichiarando falsamente la propria qualità di datore di lavoro, posizione certamente idonea ad ingannare i funzionari della Pubblica Amministrazione.
2.3. Le argomentazioni svolte nelle sentenze di merito, quindi, permettono di affermare la legittimità del provvedimento impugnato. Infatti, le censure lamentano formalmente violazioni di legge ma, sostanzialmente, propongono una ricostruzione alternativa, non consentita in questa sede, degli elementi già considerati dai giudici del merito, il quale con argomentazioni razionali, saldamente ancorate alle risultanze del compendio probatorio, hanno confermato l’affermazione di responsabilità penale dell’imputata.
In conclusione, tutti i ricorsi devono essere rigettati. I ricorrenti devono essere condannati, quindi, al pagamento delle spese processuali.
P. Q. M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 13 luglio 2018.