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Fatture soggettivamente inesistenti: la Cassazione

La Corte di Cassazione conferma la condanna per due imputati per emissione e utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti. Il caso riguarda una professionista che ha emesso fatture per prestazioni in realtà svolte dal suo ex coniuge, al fine di permettergli un’evasione fiscale. La Corte ha rigettato il ricorso, chiarendo che l’inesistenza soggettiva si configura anche se la prestazione è stata eseguita, ma da un soggetto diverso da quello indicato in fattura. Ha inoltre escluso l’applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, data l’entità dell’imposta evasa.

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Pubblicato il 11 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Fatture soggettivamente inesistenti: la Cassazione conferma la condanna

L’emissione e l’utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti rappresentano una delle forme più insidiose di frode fiscale. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito i principi cardine di questa fattispecie di reato, chiarendo quando si configura e quali sono i limiti per l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. Il caso analizzato offre spunti cruciali per comprendere la logica del legislatore e l’orientamento della giurisprudenza in materia di reati tributari.

I Fatti del Caso: L’operazione immobiliare e le fatture contestate

La vicenda giudiziaria trae origine da una complessa operazione di compravendita immobiliare di notevole valore. Il compenso per la mediazione, pattuito a favore di un professionista, veniva formalmente fatturato dalla sua ex coniuge, titolare di una ditta individuale operante in un settore merceologico completamente diverso (stilista e creazione di modelli di abbigliamento). Quest’ultima emetteva due fatture, una verso la società acquirente e una verso l’agenzia immobiliare, per un totale di oltre 150.000 euro. Successivamente, riversava la quasi totalità degli importi incassati all’ex marito.

Dalle indagini emergeva che la donna non aveva le competenze per svolgere l’incarico fatturato e non si era mai interfacciata con i soggetti coinvolti nell’operazione. L’intera prestazione era stata, in realtà, eseguita dall’ex coniuge, che in questo modo ometteva di dichiarare i propri ricavi, realizzando un’evasione fiscale superiore alle soglie di punibilità previste dalla legge.

L’iter Giudiziario e i Motivi del Ricorso

Sia in primo grado che in appello, i due ex coniugi venivano condannati. La donna per il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8, D.Lgs. 74/2000) e l’uomo per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (art. 3, D.Lgs. 74/2000), avendo di fatto utilizzato le fatture emesse dall’ex moglie per mascherare i propri compensi.

La difesa proponeva ricorso in Cassazione, basandosi su tre motivi principali:
1. Errata applicazione della legge: Sostenevano che non si potesse parlare di totale inesistenza soggettiva, poiché una parte della prestazione (stimata dagli stessi imputati al 50%, e poi ridotta al 32,26% in un accordo con l’Agenzia delle Entrate) era stata comunque svolta dalla donna.
2. Mancato superamento della soglia di punibilità: Contestavano l’entità dell’imposta evasa, ritenendo che dovesse essere calcolata tenendo conto dell’accordo transattivo con il fisco e di presunti versamenti indebiti.
3. Mancata applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.): Ritenevano che il danno erariale fosse minimo e che l’integrale pagamento del debito tributario a seguito dell’accordo dovesse essere considerato.

L’analisi delle Fatture soggettivamente inesistenti

La Corte di Cassazione ha rigettato il primo motivo, ribadendo un principio consolidato: il reato di emissione o utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti si configura quando vi è una divergenza tra i soggetti indicati nel documento e coloro che hanno realmente posto in essere l’operazione. Non rileva che la prestazione sia stata effettivamente eseguita; ciò che conta è che sia stata eseguita da una persona diversa da quella che figura come emittente.

Nel caso specifico, l’operazione era stata architettata per consentire al reale prestatore d’opera di evadere le imposte. L’ex moglie ha agito come un mero schermo, un’interposta fittizia. Pertanto, l’irrilevanza della quota di prestazione che si assumeva svolta dall’emittente è totale ai fini della sussistenza del reato.

Le Motivazioni della Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato i ricorsi inammissibili, fornendo una motivazione chiara e aderente ai principi giuridici.

In primo luogo, ha qualificato i motivi di ricorso come una mera riproposizione delle questioni già esaminate e correttamente respinte dalla Corte d’Appello, sottolineando l’inammissibilità di censure che, sotto la veste di violazione di legge, mirano a una rivalutazione dei fatti non consentita in sede di legittimità.

Sul merito, i giudici hanno confermato che la fattispecie integrava un’ipotesi di interposizione fittizia. L’emissione delle fatture da parte di un soggetto diverso da quello che aveva eseguito la prestazione configura pienamente il reato di cui all’art. 8 del D.Lgs. 74/2000. Di conseguenza, l’utilizzo di tali fatture da parte del reale prestatore per non dichiarare i propri redditi integra il reato di cui all’art. 3 dello stesso decreto.

Per quanto riguarda la soglia di punibilità, la Corte ha ricordato l’autonomia tra il giudizio penale e l’accertamento tributario. L’accordo transattivo con l’Agenzia delle Entrate non vincola il giudice penale, che deve determinare autonomamente l’imposta evasa. In questo caso, l’evasione era ampiamente superiore alla soglia di legge.

Infine, è stata respinta anche la richiesta di applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. La Corte ha osservato che lo scostamento rispetto alla soglia di punibilità era significativo (oltre il 16%) e che, secondo la normativa vigente, il pagamento del debito tributario, avvenuto dopo l’accertamento, non può di per sé rendere l’offesa ‘tenue’.

Le Conclusioni

La sentenza consolida l’orientamento della giurisprudenza penale-tributaria sulla gravità delle operazioni basate su fatture soggettivamente inesistenti. Viene confermato che l’elemento determinante del reato non è la realtà economica dell’operazione, ma la verità soggettiva dei suoi attori. Qualsiasi alterazione finalizzata a consentire a terzi l’evasione delle imposte è penalmente sanzionata. Inoltre, la pronuncia chiarisce che il successivo adempimento del debito tributario, sebbene possa essere valutato, non trasforma automaticamente un reato rilevante in un’offesa di ‘particolare tenuità’, specialmente quando l’imposta evasa supera in modo non trascurabile le soglie previste dalla legge.

Quando una fattura è considerata “soggettivamente inesistente”?
Una fattura è soggettivamente inesistente quando l’operazione economica è stata realmente eseguita, ma c’è una divergenza tra i soggetti indicati nel documento (emittente o destinatario) e coloro che hanno effettivamente partecipato all’operazione. Il reato si configura anche se la prestazione è stata solo in parte eseguita da un soggetto diverso da quello che ha emesso la fattura.

In un caso di fatture soggettivamente inesistenti, la quota di prestazione effettivamente svolta dall’emittente è rilevante per escludere il reato?
No, secondo la Corte la determinazione della quota di prestazione effettivamente svolta dall’emittente fittizio è irrilevante ai fini della sussistenza del reato. La norma punisce chiunque emetta fatture per operazioni non realmente effettuate “in tutto o in parte”, e in questa categoria rientrano anche quelle solo parzialmente o soggettivamente inesistenti.

Il pagamento del debito tributario dopo un accertamento fiscale può portare all’applicazione della “particolare tenuità del fatto”?
No, la Corte ha escluso questa possibilità nel caso specifico. Sebbene le recenti modifiche normative (D.Lgs. 87/2024) diano maggior peso al pagamento del debito, la Corte ha ritenuto che l’offesa non potesse essere considerata tenue, dato che l’imposta evasa superava la soglia di punibilità di oltre il 16% e non era stato allegato un adempimento integrale secondo un piano di rateizzazione concordato con l’amministrazione finanziaria.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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