Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 44043 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 44043 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 26/09/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME nato a Cutro (Kr) il 3 luglio 1972;
avverso la sentenza n. 8893/23 della Corte di appello di Bologna del 19 dicembre 2023;
letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
letta la requisitoria scritta del PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. NOME COGNOME il quale ha concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso;
letta, altresì, la memoria redatta nell’interesse del ricorrente dall’avv. NOME COGNOME del foro di Crotone, il quale ha insistito, riportandosi agli argomenti ivi svolti, per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Bologna, con sentenza pronunziata in data 19 dicembre 2023, ha confermato la precedente decisione, assunta il 21 luglio 2021, con la quale il Tribunale di Parma, in esito a giudizio celebrato nelle forme del rito abbreviato, aveva dichiarato COGNOME NOME responsabile del reato a lui contestato, riguardante l’avvenuta violazione, da lui commessa nella qualità di legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, dell’art. 2 del dlgs n. 74 del 2000, per avere il medesimo indicato nell dichiarazioni fiscali da lui presentate nella indicata qualità elementi passiv documentati con fatture relative ad operazioni fittizie, per un importo pari ad euri 42.660,00 e indicando un Iva pagata pari ad euri 9.012,30, e lo aveva, pertanto, condannato alla pena ritenuta di giustizia..
La sentenza in tale modo emessa dalla Corte felsinea è stata gravata da ricorso per cassazione dall’imputato, tramite l’assistenza del proprio (omonimo) difensore fiduciario, il quale ha articolato avverso di essa 7 motivi di impugnazione.
Il primo motivo ha ad oggetto la ritenuta omessa motivazione su di un profilo censorio dedotto in sede di gravame e riguardante la necessità di procedere all’esame sia delle dichiarazioni rese dal prevenuto alla Guardia di Finanza e confluite nel verbale da questa redatto in data 24 novembre 2015 sia della documentazione costituita dagli estratti conto della Col.Be; da tali elementi, il cui esame sarebbe stato pretermesso dai giudici del meno, emergerebbe, ad avviso della ricorrente difesa, la natura non fittizia dell operazioni commerciali documentate con le fatture di cui al capo di imputazione.
Il secondo motivo di ricorso concerne la violazione di legge in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nel non rilevare che, essendo già stato sanzionato il COGNOME dalla Commissione tributaria provinciale di Parma, quella inflitta in sede penale sarebbe stata la seconda sanzione per i medesimo fatto, disposta, pertanto, in violazione del principio del ne bis in idem.
Il terzo motivo ha ad oggetto la censura, per violazione di legge, legata al fatto che, secondo il ricorrente, la Corte di appello sarebbe giunta a affermare la penale responsabilità del prevenuto non in quanto sia stata raggiunta la prova della sua colpevolezza ma in quanto lo stesso non sarebbe
stato in grado di dimostrare lasua innocenza, essendosi realizzato, in tale modo, una inammissibile inversione dell’onere della prova.
Il successivo quarto motivo di impugnazione ha ad oggetto la violazione di legge per non avere la Corte di merito, la quale ha riconosciuto la opacità del ruolo assunto nella vicenda da tale NOME COGNOME non ha attivato gli strumenti istruttori a sua disposizione onde dissipare la incertezza in ordine a ruolo da questo svolto nella vicenda.
Il quinto motivo è giuocato in relazione al vizio di motivazione che caratterizzerebbe la sentenza in ordine alla consapevolezza in capo al COGNOME della organizzazione della struttura aziendale della impresa che aveva emesso le fatture di cui in contestazione ed in ordine alla omessa considerazione del fatto che, sebbene tardivamente, gli importi recati dalle fatture di cui sopr sono stati pagati.
Il sesto motivo di ricorso concerne la contraddittorietà ed illogicità della motivazione della sentenza impugnata in punto di sussistenza dell’elemento soggettivo in capo al prevenuto.
Infine, con il settimo motivo ci si lagna del fatto che la motivazione della sentenza impugnata sia illogicamente in contrasto con la motivazione della sentenza emessa dalla Commissione tributaria provinciale di Parma, posto che in quest’ultima si addebita al COGNOME l’utilizzo di fatture per operazion soggettivamente inesistenti, mentre la Corte felsinea gli attribuisce l’utilizzo d fatture relative ad operazioni oggettivamente inesistenti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è risultato infondato e, pertanto, lo stesso deve essere or rigettato.
Ritiene il Collegio di dovere esaminare prioritariamente il motivo di impugnazione avente ad oggetto la pretesa violazione del principio del ne bis in idem; ove fondata, infatti, la doglianza avrebbe l’idoneità a determinare la definizione del presente giudizio.
Essa è articolata, per vero in termini di complessiva genericità, sulla base della circostanza, riportata dal ricorrente senza ulteriori precisazioni, ch la Commissione tributaria provinciale di Parma, verosimilmente rigettando l’impugnazione dal COGNOME presentata avverso un avviso di accertamento contenente anche l’irrogazione di sanzioni tributarie, ha “confermato” il
trattamento sanzionatorio inflitto in sede amministrativo-tributaria a carico dell’odierno imputato per i medesimi fatti sui quali si è pronunziata la Corte di appello di Bologna con la sentenza ora in questione.
Ora, al netto della poca puntualità della doglianza (il ricorrente non riferisce neppure se la sentenza emessa dalla Commissione tributaria sia divenuta o meno definitiva), si rileva che il tema legato alla ricorrenza della possibile violazione del principio del ne bis in idem laddove una medesima condotta abbia dato luogo a sanzioni sia di carattere amministrativo che di carattere penale, è stato risolto, per tutte le ipotesi in cui non vi sia espressa clausola di sussidiarietà fra í due sistemi sanzionatori astrattamente prevista dal legislatore, nel senso che non sussiste violazione del divieto di bis in idem convenzionale nel caso in cui, nei confronti di un soggetto cui sia già stata irrogata una sanzione amministrativa, sia emessa condanna per lo stesso fatto storico, quando tra il procedimento amministrativo e quello penale sussista una connessione sostanziale e temporale tale per cui le sanzioni siano parte di un unico sistema, a condizione che, in tal caso, sia comunque garantito un meccanismo compensativo che consenta di tener conto, in sede di irrogazione della seconda sanzione, degli effetti della prima, onde evitare che la sanzione complessivamente irrogata sia sproporzionata (Corte di cassazione, Sezione III penale, 20 gennaio 2022, n. 2245, rv 282799; Corte di cassazione, Sezione III penale, 7 febbraio 2019, n. 5934, rv 275833).
Nel caso che interessa la stretta connessione temporale fra i due procedimenti emerge dal sostanziale parallelismo cronologico nel quale si è svolto il giudizio di primo grado, introdotto nel 2019 (e non sollecitamente concluso a cagione dei numerosi rinvii sollecitati dalla difesa del ricorrente), quello di fronte alla Commissione tributaria provinciale, anch’esso del 2019 ed in tale anno definito, mentre quella sostanziale è data la identità del material istruttorio esaminato nei due giudizi cioè i riscontri di indagine della Guardia d Finanza dapprima sulla società RAGIONE_SOCIALE emittente le fatture fasulle, e, quindi, sulla impresa gestita dal RAGIONE_SOCIALE.
Quanto alla possibilità che la sanzione complessivamente irrogata si palesi sproporzionata, va segnalato che, in sede di determinazione della pena, i giudici del merito hanno tenuto conto del fatto che il COGNOME, nel corso dell’altro giudizio, aveva dimostrato di avere estinto il proprio debito attraverso la sua rateazione, nei confronti della Agenzia delle entrate, di ta che la sanzione in sede penale era stata opportunamente attestata in quella
complessiva di 4 mesi di reclusione, con la sospensione condizionale della sua esecuzione, ed ad essa non era stata affiancata alcuna confisca, essendo, appunto, già stato soddisfatto il debito tributario gravante sul prevenuto.
La piena rispondenza della sentenza ora censurata ai requisiti necessari, secondo la condivisa giurisprudenza di questa Corte, per evitare il formarsi del bis in idem sanzionatorio rende infondato il primo dei motivi di impugnazione esaminati, secondo fra quelli formulati.
Con riferimento al primo motivo formulato nel ricorso, attinente a pretese carenze istruttorie che si sarebbero determinate nel corso del giudizio di primo grado, è sufficiente segnalare che, il procedimento si è svolto nelle forme del rito abbreviato, sicché il materiale istruttorio utilizzabile era quello formato nel corso delle indagini preliminari, senza che dovesse essere svolta, in assenza di specifiche esigenze che si sarebbero dovute esporre in sede di richiesta di giudizio abbreviato, condizionando questa agli adempimenti istruttori ritenuti necessari, alcuna fase di carattere dibattimentale volta all’acquisizione della prova; da ciò deriva che le eventuali carenze istruttorie si sarebbero dovute far valere non come vizi del procedimento ma come vizi della motivazione, fondata su dati monchi o claudicanti.
Cosa che, effettivamente il ricorrente ha fatto, ma con esiti non produttivi.
Il terzo motivo di ricorso lamenta, infatti, il vizio della motivazione della sentenza laddove si afferma che i giudici del merito sarebbero pervenuti alla sentenza di condanna solo perché la difesa del ricorrente avrebbe omesso di allegare documentazione idonea a smentire l’accusa; si tratta di una ricostruzione dei motivi della sentenza impugnata quanto meno parziale; va, infatti, rilevato che, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente l’accusa a carico del COGNOME è stata solidamente sostenuta dagli accertamenti relativi al fatto che la impresa che aveva emesso le fatture dirette alla RAGIONE_SOCIALE ed i cui importi sono stati da questa indicati come poste passive nelle dichiarazioni tributarie presentate a firma del COGNOME, era priva della struttura aziendale che le avrebbe permesso di rendere la prestazione indicata nellè fatture in questione (si tratta del noleggio di automezzi . dei quali la detta impresa non aveva la disponibilità, non avendo neppure alle sue dipendenze personale idoneo a eseguire il compito in questione) e gli stessi corrispettivi indicati nelle fatture non risultavano essere stati, almeno non nei termini usualmente previsti, versati né per gli stessi era risultato che la impresa emittente le fatture avesse presentato le opportune dichiarazioni fiscali.
A fronte di tali elementi, obbiettivamente deponenti per la fittizietà delle prestazioni indicate nelle fatture di cui al capo di imputazione e di per s idonei a sostenere l’accusa a carico dell’imputato, il ricorrente non ha saputo opporre convincenti argomenti contrari, facendo sì che la Corte di appello confermasse la sentenza di primo grado, senza che ciò voglia assolutamente significare che nell’occasione sia stato invertito l’onere della prova, essend ciò semplicemente la conseguenza del fatto che la difesa del ricorrente non è stata in condizione di privare di significato e di rilevanza dimostrativa gl elementi posti alla base della affermazione della penale responsabilità del prevenuto addotti dalla pubblica accusa.
Privo di consistenza il quarto motivo di impugnazione; nella sentenza impugnata si legge che le dichiarazioni rese dall’imputato e volte ad affermare la non fittizietà delle operazioni documentate con le fatture di cui al capo d imputazione non sono state né riscontrate né documentate né, infine, “è mai emerso il ruolo assunto dal figlio di NOME COGNOME,(soggetto quest’ultimo amministratore di fatto de RAGIONE_SOCIALE, il cui figlio, tale NOME COGNOME avrebbe, secondo le allegazioni dell’attuale ricorrente, materialmente adempiuto le prestazioni contrattuali ripotate nelle fatture di cui al imputazione).
Da tale frase, il cui contenuto è univocamente interpretabile come attestante il riscontrato silenzio probatorio serbato dal ricorrente anche i relazione all’intervento nella vicenda di tale individuo (il “figlio di NOME COGNOME“), la difesa del COGNOME, invece, desume, attraverso un procedimento deduttivo privo di qualsivoglia appiglio argomentativo persino sul piano meramente lessicale, una sorta di incertezza in capo al giudicante in ordine agli elementi dimostrativi della responsabilità dell’imputato che avrebbe reso necessario un approfondimento istruttorio relativamente al ruolo svolto nella vicenda da un soggetto diverso rispetto a quello citato nel passo ricordato della sentenza impugnata.
Da quanto sopra emerge la inconferenza del motivo di impugnazione.
Il successivo quinto motivo di ricorso attiene, come detto, alla pretesa carenza di motivazione in ordine all’elemento soggettivo del reato; esso rimanda ad un passo della sentenza nella quale si riferisce che il COGNOME non avrebbe avuto un’adeguata conoscenza della reale struttura organizzativa della società emittente le fatture e da tale rilievo fa discendere la s mancanza di buona fede in ordine alla fittizietà delle operazioni in questione; in realtà anche in questo caso la interpretazione che il ricorrente fa del tes
della sentenza della Corte è solo parziale, in quanto la frase estrapolata da testo della decisione assunta dalla Corte è stata da questa utilizzata solo al scopo di dare conto delle ragioni che hanno indotto la Commissione tributaria parmigiana a ritenere la fittizietà soggettiva delle fatture, laddove, invece, i sede penale la Corte di appello ha ritenuto che la responsabilità del prevenuto sia fondata sulla circostanza, obbiettivamente rilevata, che RAGIONE_SOCIALE era una mera cartiera e che le affermazioni del COGNOME volte a dimostrare che le operazioni di cui alle fatture indicate nel capo di imputazione erano reali non ha trovato alcuna adeguata dimostrazione.
D’altra parte, la evidenza della inidoneità della RAGIONE_SOCIALE a rendere le prestazioni in questione, per come segnalata dalla Corte di merito, era ben nota, secondo quanto riportato in sentenza, all’imputato, il quale, infatti, h affermato di non avere avuto contatti con alcun addetto di essa ma solo con il COGNOME che, almeno formalmente, rispetto a quella era un estraneo.
Quanto al dolo specifico, la cui sussistenza non sarebbe stata adeguatamente dimostrata nella motivazione della sentenza impugnata – è questo, infatti, il tema del sesto motivo di impugnazione – va detto che, una volta accertata la indicazione nelle dichiarazione fiscali di elementi passivi d reddito risultanti da documenti sostanzialmente falsi idonei ad abbattere l’imponibile, la finalità di evadere le imposte, stante la destinazione del dichiarazione a rendere espliciti i dati sulla base dei quali procedere al liquidazione delle imposte medesime, è l’unica che possa ragionevolmente sorreggere l’avvenuta utilizzazione di dati falsi attestanti un imponibile minore di quello reale.
Quanto, infine, all’asserito contrasto fra quanto accertato in sede di giurisdizione tributaria, in cui la fittizietà delle operazioni documentate con l fatture di cui alla imputazione sarebbe solo soggettiva, e quanto accertato in sede penale, in cui la fittizìetà sarebbe oggettiva, (questione questa ch occupa il settimo motivo di ricorso) si osserva, al di la della mancata acquisizione di elementi per ritenere che l’accertamento dei fatti di fronte a giudice tributario abbia già formato oggetto di un provvedimento giurisdizionale definitivo’, che, in realtà la motivazione della Corte di appell non prende posizione sulla natura oggettiva o soggettiva della fittizietà delle operazioni in questione e ciò in ragionevole ossequio al consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo il quale un siffatto accertamento si sarebbe rivelato, dal punto di vista della rilevanza penale del fatto, sostanzialmente inutile data la pari valenza, ai fini della integrazione del reato, della falsità oggett
o solo soggettiva di quanto riportato nelle fatture di cui si tratta (Corte di cassazione, Sezione III penale, 19 aprile 2023, n. 16576, rv 284494; Corte di cassazione, Sezione III penale, 20 gennaio 2020, n. 1998, rv 278378).
Il ricorso presentato dal COGNOME deve, pertanto, essere rigettato in quanto infondato ed il ricorrente, visto l’art. 616 cod. proc. pen., va condannato al pagamento delle spese processuali.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 26 settembre 2024
Il Consigliere estensore
Il Presidente