Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 26393 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 26393 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 03/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOMECOGNOME nato a Crotone il 21/11/1978
avverso la sentenza del 20/9/2024 della Corte di appello di Catanzaro; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; sentita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiarare inammissibile il ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 20/9/2024, la Corte di appello di Catanzaro confermava la pronuncia emessa il 15/11/2021 dal Tribunale di Crotone, con la quale NOME COGNOME era stato giudicato colpevole del delitto di cui all’art. 8, d. Igs. 10 marzo 2000, n. 74.
Propone ricorso per cassazione l’imputato, deducendo i seguenti motivi:
violazione del diritto di difesa. Al momento degli accertamenti tributari che hanno poi determinato il processo, compiuti dalla Guardia di finanza, il ricorrente sarebbe risultato già indagato per le stesse ipotesi di reato: le contestazioni
relative ai rapporti tra la “RAGIONE_SOCIALE” e la “RAGIONE_SOCIALE” infatti, sarebbero derivate da altre indagini, in precedenza svolte nei confronti del COGNOME. Dal fascicolo per il dibattimento, tuttavia, non risulterebbero gli atti di poliz giudiziaria – espressamente previsti – che dovrebbero riscontrare l’applicazione delle garanzie difensive di cui all’art. 220 disp. att. cod. proc. pen. (sul quale ricorso molto si diffonde, pagg. 6-10); la mancata applicazione di questa norma (rivendicata – si ribadisce – sul presupposto che gli indizi di reità nei confronti de COGNOME sarebbero emersi in precedenza) comporterebbe, dunque, l’inutilizzabilità di tutte le fonti di prova acquisite nell’indagine amministrativa;
difetto dell’elemento psicologico e mancanza di prova. La responsabilità del Fazìo sarebbe stata affermata in forza di elementi insufficienti e lacunosi (specie quanto ai rapporti tra emittente e utilizzatrice delle fatture e quanto all’effetti esecuzione delle relative prestazioni), peraltro all’esito di un’indagine nella quale non sarebbe stata richiesta alcuna esibizione di documenti o di scritture contabili, e nella quale non sarebbero stati eseguiti controlli incrociati;
alla luce di quanto dedotto, si contesta infine il travisamento della prova, in quanto la colpevolezza dell’imputato sarebbe stata dichiarata in ragione di una prova che non esisterebbe, peraltro con carattere decisivo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso risulta manifestamente infondato.
Il primo motivo contesta la violazione dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen., in forza del quale, quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice: tale violazione deriverebbe dal fatto che l’imputato – all’epoca degli accertamenti compiuti dalla Guardia di finanza – sarebbe risultato già indagato per le stesse ipotesi di reato, a seguito di verifiche compiute in precedenza sulla società di cui era legale rappresentante, senza tuttavia ricevere alcuna garanzia difensiva.
4.1. Ebbene, questa censura risulta inammissibile per genericità. In primo luogo, nulla è specificato con riguardo alle precedenti indagini che avrebbero interessato il ricorrente, al loro oggetto e al loro esito. Di seguito, nulla specificato quanto agli atti di indagine che sarebbero stati acquisiti in violazione dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen., non risultando al riguardo sufficient l’affermazione – del tutto vaga – secondo cui “tutte le fonti di prova sono state acquisite nell’indagine amministrativa, con la ricostruzione degli elementi del reato a tavolino mediante il riscontro degli elementi di prova attraverso l’utilizzo delle
Banche dati oppure per relationem”. Infine, nulla è specificato in ordine all’incidenza che questi ipotetici atti avrebbero avuto sulla decisione di condanna, così da non consentire a questa Corte neppure di eseguire un’eventuale prova di resistenza.
Il ricorso, poi, risulta manifestamente infondato anche sulla seconda censura, con la quale si afferma che la responsabilità del COGNOME sarebbe stata dichiarata con motivazione carente e sulla base di indizi incerti e diversamente interpretabili.
5.1. La sentenza di appello, infatti, ha confermato il giudizio di responsabilità con una argomentazione del tutto solida, basata su oggettivi elementi di merito e priva di qualunque illogicità manifesta; come tale, dunque, non censurabile.
5.2. In particolare – e ribadendo gli argomenti già impiegati dal primo Giudice – è stato sottolineato che, a fronte di presunti lavori per decine di migliaia di euro, peraltro apparentemente compiuti in un arco temporale piuttosto ristretto, l’emittente – ossia la società di cui il COGNOME era legale rappresentante – era risultat presentare una contabilità frammentaria e incompleta, con omessa denuncia dei guadagni risultanti dalle fatture a fini IVA, oltre che priva di ogni sorta di bene strumentale e di personale dipendente, oltre che di una sede (risultando, quella formale, coincidente con la residenza dell’imputato). Ancora, non erano state rinvenute movimentazioni finanziarie o bancarie tra la “RAGIONE_SOCIALE” e la “RAGIONE_SOCIALE“, nonostante i rilevanti importi complessivamente interessati, né l’effettiva esecuzione dei lavori poteva essere contestata dall’oggetto delle fatture in esame, congruamente ritenuto del tutto generico (“lavori a corpo”, “acquisto subappalto”, “pulizia carpenteria”).
5.3. Alla luce di questi elementi, oltre che degli esiti dei controlli incrocia eseguiti, i Giudici del merito hanno quindi concluso per l’insussistenza oggettiva delle operazioni riportate nelle fatture emesse dalla società del ricorrente, con conseguente affermazione di responsabilità.
In senso contrario, peraltro, non può deporre neppure l’ultimo motivo di ricorso, con il quale – richiamando gli argomenti precedenti – si contesta un ipotetico travisamento della prova, del quale, tuttavia, non risultano neppure accennati i caratteri, né, peraltro, la prova di riferimento.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del
versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 3 giugno 2025
Il Pres ente