Sentenza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 37906 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 7 Num. 37906 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 19/09/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME a GORIZIA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 05/11/2024 della CORTE APPELLO di TRIESTE dato avviso alle parti; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 5 novembre 2024, la Corte d’appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Udine del 28 novembre 2023, ha ridetermiNOME la pena inflitta a NOME COGNOME in anni uno di reclusione, riconoscendo l’attenuante di cui all’art. 13-bis del d.lgs. n. 74/2000 e confermando nel resto la pronuncia di condanna per il reato di cui all’art. 2 del medesimo decreto legislativo.
Avverso tale sentenza, l’imputato, a mezzo del suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione, deducendo tre motivi.
2.1 Con il primo motivo, si lamenta l’erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 13-bis d.lgs. 74/2000 nonché la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione. Il ricorrente sostiene che la Corte territoriale avrebbe erroneamente qualificato la circostanza attenuante riconosciuta come “ad effetto comune” anziché “ad effetto speciale”, applicando una riduzione di un terzo e violando l’ordine di calcolo previsto dall’art. 63, comma 3, c.p. Si duole, inoltre, della carenza di motivazione in ordine alla quantificazione della diminuzione di pena per le attenuanti concesse (art. 62-bis c.p. e art. 13-bis D.Lgs. 74/2000).
2.2 Con il secondo motivo, si deduce l’erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 2 D.Lgs. 74/2000 con riferimento all’elemento soggettivo, e il vizio di motivazione ai sensi dell’art. 606, co. 1, lett. b) ed e) c.p.p. in relazi all’autorizzazione al subappalto dei lavori”. Il ricorrente contesta la sussistenza del dolo specifico, affermando che non vi sarebbero prove della sua consapevolezza circa la natura soggettivamente inesistente delle fatture. A sostegno, evidenzia presunte contraddizioni e travisamenti delle prove testimoniali e documentali, in particolare riguardo alle dichiarazioni del teste COGNOME, alla logicità del doppio pagamento per la medesima prestazione e all’entità delle somme che sarebbero state a lui restituite.
2.3 Con il terzo motivo, si eccepisce l’erronea applicazione dell’art. 2 d.lgs. 74/2000 e il vizio di motivazione, inclusivo del travisamento della prova, ai sensi dell’art. 606, co. 1, lett. b) ed e) c.p.p., lamentando la mancata esclusione del reato in relazione alle imposte sui redditi. Il ricorrente sostiene che la Corte d’appello avrebbe travisato le conclusioni del giudice di primo grado, affermando la sussistenza di profili di inesistenza “oggettiva” delle operazioni, mentre il Tribunale aveva chiaramente statuito per la sola inesistenza “soggettiva”. Tale travisamento avrebbe inficiato la valutazione sulla rilevanza penale dei costi ai fini delle imposte dirette. Si lamenta, inoltre, una motivazione carente e apparente sulla scelta dell’orientamento giurisprudenziale che ritiene penalmente rilevante l’inesistenza soggettiva delle fatture anche ai fini delle imposte dirette, a discapit di un indirizzo contrario, parimenti recente e più pertinente al caso di specie.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
La doglianza relativa alla quantificazione della pena e alla misura della riduzione per le circostanze attenuanti si risolve in una critica all’esercizio de potere discrezionale del giudice di merito, che, in quanto tale, è insindacabile in questa sede se sorretto da motivazione non manifestamente illogica o contraddittoria.
La giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che “la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure con il richiamo alla “gravità del reato o alla capacità a delinquere” (cfr. Sez. 5, n. 40749 del 1/10/2024, Mulè, citata dallo stesso ricorrente).
Nel caso di specie, la Corte d’appello, pur non utilizzando formule sacramentali, ha esplicitamente ancorato la determinazione della pena ai criteri di cui all’art. 133 c.p., menzionando “il numero di fatture falsificate, la entità dell imposta evasa, l’intensità del dolo, i precedenti che gravano l’imputato”. Tale motivazione, seppur sintetica, che spiega i suoi effetti sia in relazione alla pena base che alle riduzioni riconosciute per le attenuanti, non può ritenersi né assente né manifestamente illogica. Le censure del ricorrente, pertanto, non denunciano un vizio di legittimità, ma si limitano a contrapporre una diversa valutazione ponderale degli elementi considerati dal giudice, operazione tipica del giudizio di merito.
1.1 Anche la presunta erronea qualificazione dell’attenuante ex art. 13-bis d.lgs. 74/2000 e l’asserita violazione dell’ordine di calcolo non superano il vaglio di ammissibilità. La Corte territoriale ha applicato, dandone sia pur sintetica motivazione, una riduzione che, in concreto, non viola i limiti edittali e la cui entità rientra nella sua sfera di discrezionalità. Giova ricordare che deve ritenersi adempiuto l’obbligo di motivazione da parte del giudice di merito in ordine alla misura della riduzione della pena per effetto dell’applicazione di un’attenuante, attraverso l’adozione, in sentenza, di una formula sintetica, quale “si ritiene congruo” (Sez. 4, n. 54966 del 20/09/2017, COGNOME, Rv. 271524 – 01).
Del tutto ingiustificato, ancora, risulta l’argomento secondo cui la Corte territoriale, indicando la circostanza di cui all’art. 13-bis d.lgs. 74/2000 come “speciale” o non applicando correttamente la previsione del comma 3 dell’art. 63 comma 3 cod. pen., sarebbe incorsa in errore circa il limite di riduzione contemplata dal legislatore, risultando la locuzione utilizzata in sentenza non collegata agli effetti dell’attenuante ma all’ambito dei reati per i quali può trovare applicazione e la riduzione in misura inferiore al massimo corrispondente a quanto operato in relazione alle attenuanti generiche.
Le censure relative all’elemento soggettivo del reato sono palesemente orientate a ottenere una nuova e diversa valutazione delle prove, preclusa in sede di legittimità. Il ricorrente, sotto la veste del vizio di motivazione e dell’errone applicazione della legge penale, invita in realtà questa Corte a una rilettura del
compendio probatorio (dichiarazioni testimoniali, documenti contabili, logicità delle condotte) al fine di pervenire a un esito assolutorio.
Tale operazione non è consentita, poiché il controllo di legittimità sulla motivazione non può tradursi in un nuovo giudizio di merito. Il giudice di legittimità non può procedere a una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, essendo il suo sindacato limitato alla verifica della coerenza e logicità dell’apparato argomentativo della sentenza impugnata.
Nel caso in esame, la Corte d’appello, con motivazione che si salda a quella di primo grado (c.d. “doppia conforme”), ha illustrato le ragioni per cui ha ritenuto provata la consapevolezza dell’imputato, basandosi su una pluralità di elementi indiziari. Le critiche del ricorrente, che prospettano una diversa e più favorevole interpretazione di tali elementi, si risolvono in una generica prospettazione di una valutazione degli elementi fattuali e processuali alternativa a quella esposta dai giudici di merito, senza illustrare vizi scrutinabili in sede di legittimità.
L’argomento incentrato sul ruolo di NOME COGNOME solo apparentemente prospetta una contraddizione fra parti della sentenza, risultando del tutto logico che l’uomo non potesse stipulare il contratto nell’interesse di RAGIONE_SOCIALE e, ancora, che la predetta società non avesse interesse a correre il rischio di subappaltare i lavori senza essere autorizzata da RAGIONE_SOCIALE.
L’insussistenza di un rapporto di subappalto, ancora, è stato desunto dai giudici di merito non soltanto dalla mancata esibizione della prova circa l’autorizzazione di RAGIONE_SOCIALE ma anche dalla mancanza di prove in ordine ai pagamenti da RAGIONE_SOCIALE ai presunti sub-appaltatori e dalle incongruenze fra il contratto del 29/3/2013 e gli stati avanzamenti lavori.
Le fatture n. 33 e 34 della ditta RAGIONE_SOCIALE, ancora, sono prese in considerazione dai giudici di merito che rilevano – valorizzando anche le dichiarazioni di COGNOME, quelle di COGNOME e la documentazione relativa al contratto fra COGNOME e la ditta RAGIONE_SOCIALE– che non potevano assurge a prova dell’intervento, all’interno del capannone, di RAGIONE_SOCIALE.
Ma soprattutto è la stessa impostazione delle censure difensive che risulta incompatibile con il sindacato di legittimità, in quanto volte a prospettare una differente lettura del compendio probatorio finalizzata ad accreditare ricostruzione alternative e del tutto ipotetiche. Va, quindi, ricordato che le possibili diverse ipotesi in ordine al concatenarsi logico posto a fondamento della decisione impugnata assumono rilevanza in materia di ricorso per cassazione, permettendo di ravvisare un vizio di motivazione, solo quando la ricostruzione difensiva sia inconfutabile, ovvia e non rappresentare solamente un’alternativa a quella ritenuta in sentenza (Sez. 1, n. 22240 del 17/4/2024, COGNOME; Sez. 2, n. 37876 del 12/9/2023, COGNOME; Sez. 6, n. 11194 del 8/3/2012, Lupo, Rv 252178; Sez. 1, n. 13528 del 11/11/1998, Maniscalco, Rv, 212054).
Non è invece privo di fondamento e comunque inammissibile il terzo motivo, che lamenta l’esclusione della rilevanza delle fatture incriminate ai fini delle imposte sui redditi.
E’ indubbiamente sussistente un contrasto fra la sentenza di primo grado, che ha ritenuto che le fatture soggettivamente inesistenti, e quella di appello, che le ha ritenuto anche in parte oggettivamente inesistenti, richiamando un atto, l’avviso di accertamento, la cui valenza probatoria è quanto meno opinabile.
Orbene, in relazione all’incidenza sul reato in esame, in relazione alle imposte dirette, delle fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, si registrano vari orientamenti di legittimità.
Un primo orientamento, più recente, ritiene che il reato di utilizzazione fraudolenta in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti (art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000) è integrato, con riguardo alle imposte dirette, dalla sola inesistenza oggettiva, ovvero quella relativa alla diversità, totale o parziale, tra costi indicat e costi sostenuti, mentre, con riguardo all’IVA, esso comprende anche la inesistenza soggettiva, ovvero quella relativa alla diversità tra soggetto che ha effettuato la prestazione e quello indicato in fattura (tra le altre, Sez. 3, n. 6935 del 23/11/2017, dep. 2018, Fiorin, Rv. 272814 – 01; Sez. 3, n. 27392 del 27/04/2012, COGNOME, Rv. 253055; Sez. 3, n. 10394 del 14/1/2010, COGNOME, Rv. 246327; Sez. 3, n. 8809 del 2/12/2020, COGNOME ed altri; Sez. 3, n. 12920 del 11/2/2022, COGNOME).
Di opposto avviso un più risalente orientamento, peraltro espresso in relazione alle “frodi carosello” (Sez. 3, n.50362 del 12.12.2019, dep. 2020, Pollice, Rv. 277938, non massimata sul punto; Sez. 3, n. 42994 del 07/07/2015, COGNOME, Rv. 265154 – 01).
Vi è poi un terzo orientamento, secondo cui “il reato .di fraudolenta utilizzazione in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti è integrato, con riguardo alle imposte dirette, anche dall’inesistenza soggettiva, nel caso in cui i costi documentati, consapevolmente sostenuti dal cessionario, siano espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse rispetto a quelle proprie dell’attivi di impresa, posto che comportano la cessazione del requisito indefettibile dell’inerenza tra costi ed attività imprenditoriale”, che ha sostanzialmente recepito le posizioni cui è pervenuta la giurisprudenza civilistica in relazione all’ambito di applicazione dell’art. 14, comma 4- bis, I. 537 del 1993, come modificato dall’art. 8 del d.l. n. 16/2012, conv. in I. 22/2012, che ha escluso la deducibilità dei costi nella determinazione dei redditi, ai fini dell’individuazione dell’imposta dovuta: nei casi in cui i costi siano direttamente utilizzati per il compimento di atti o attivi qualificabili come delitto non colposo (fatti per i quali sia esercitata quanto meno l’azione penale) o quando i costi siano in contrasto con i principi di effettività,
inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (Sez. 3, n. 50314 del 27/09/2023, Latempa, Rv. 285675).
3.1 E’ di tutta evidenza che le considerazioni appena esposte impediscono di ritenere manifestamente infondato il motivo e, quindi, impongono di tenere conto, ai fini del computo del termine prescrizionale, del tempo decorso dalla sentenza di appello.
Il reato ritenuto dai giudici di merito risulta giunto a consumazione il 29/12/2014 e, quindi, considerato il periodo di sospensione della prescrizione di sessanta giorni intervenuto, risulta essersi estinto per prescrizione alla data del 28/2/2025.
3.2 Va, infine, aggiunto che il Collegio non ignora che “in tema di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, è configurabile una pluralità di reati qualora l’illecita condotta riguardi sia l dichiarazione ai fini IVA che quella ai fini II.DD., sicché, ricorrendone i presupposti, può trovare applicazione l’istituto della continuazione” (Sez. 3, n. 13275 del 05/03/2021, Talia, Rv. 280897 – 01), ma è chiaro che di tale principio i giudici di merito non hanno tenuto conto, tant’è che la dosimetria non fa menzione ad aumenti a titolo di continuazione mentre valorizza la complessiva “l’imposta evasa”, il cui ammontare è in larga misura determinata dall’evasione IRPEF.
Anche a voler discostarsi dalla sentenza impugnata ritenendo la sussistenza di due reati, la diversa impostazione non inciderebbe comunque sull’esito del giudizio, risultando la pena irrogata condizionata dall’indebito risparmio dell’IRPEF conseguito. Il motivo, quindi, attingerebbe comunque il reato relativo all’IVA, investendo il punto relativo alla pena, così da determinare anche per tale reato la maturazione della prescrizione.
PQM
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il reato è estinto per prescrizione.
Così deciso il 19/9/2025