Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 20913 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 20913 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 05/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOMECOGNOME nato a Corsico il 22/10/1955 avverso la sentenza del 15/03/2024 della Corte di appello di Milano; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 15 ottobre 2021, il Tribunale di Milano ha condannato COGNOME NOME alla pena di anni 6 di reclusione, per i seguenti reati:
artt. 81 cod. pen., e 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, in qualità di legale rappresentante, nonché firmatario dei Modelli Unici (760-U60), 2012, 2013, 2014, per gli anni di imposta 2011, 2012 e 2013, di RAGIONE_SOCIALE al fine di evadere le
imposte sui redditi e sul valore aggiunto, si avvaleva di fatture o altri documenti per operazioni oggettivamente inesistenti, emesse dalle società di diritto rumeno RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE indicando nelle dichiarazioni annuali elementi passivi fittizi di importi pari a: per il 2011, 4.272.630,40, con Iva di C 885.229,83 (RAGIONE_SOCIALE); per il 2012, C 8.928,00, con Iva di 1.874,88 (RAGIONE_SOCIALE) ed C 6.408.401,48, con Iva di 1.345.764,31 (RAGIONE_SOCIALE); per il 2013, C 8.533.044,16, con Iva di C 1.819.200,46 (RAGIONE_SOCIALE);
B) artt. 81 cod. pen. e 8 del d.lgs. n. 74 del 2000, per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in qualità di legale rappresentante di RAGIONE_SOCIALE al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, per gli anni di imposta 2011, 2012, 2013 e 2014, emesso fatture per operazioni inesistenti nei confronti della società rumena RAGIONE_SOCIALE per un imponibile complessivo di C 1.723.008,50, con Iva di C 358.852,39, per il 2011; di C 3.199.631,00, con Iva di C 671.922,51, per il 2012; di C 4.337.310,50, con Iva di C 922.701,18, per il 2013; di 4.483.126,62, con Iva di 986.307,66, per il 2014;
C) artt. 81 cod. pen., e 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, in qualità di legale rappresentante, nonché firmatario dei Modelli Unici (760-U60), 2011, 2012, 2013, 2014, per gli anni di imposta 2010, 2011, 2012 e 2013, di RAGIONE_SOCIALE al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, si avvaleva di fatture o altri documenti per operazioni oggettivamente inesistenti, emesse dalle società di diritto rumeno RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, indicando nelle dichiarazioni annuali elementi passivi fittizi d importo pari a: per il 2010, C 8.948.952,26, con Iva di C 1.789.790,45 (RAGIONE_SOCIALE); per il 2011, C11.360.480,33, con Iva di C 2.318.270,89 (RAGIONE_SOCIALE) ed C 123.006,00, con Iva di C 25.831,26 (RAGIONE_SOCIALE); per il 2012, C 426.648,00, con Iva di 89.596,08 (RAGIONE_SOCIALE), C 609.130,00, con Iva di C 127.917,30 (RAGIONE_SOCIALE) ed C 10.955.953,72, con Iva di 2.300.750,28 (RAGIONE_SOCIALE); per il 2013, C 11.862.427,79, con Iva di 2.527.891,16 (RAGIONE_SOCIALE);
D) artt. 81 cod. pen. e 8 del d.lgs. n. 74 del 2000, per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in qualità di legale rappresentante di RAGIONE_SOCIALE al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte su redditi e sul valore aggiunto, per gli anni di imposta 2011, 2012, 2013 e 2014, emesso fatture per operazioni inesistenti, per un imponibile complessivo di C 3.820.907,44, con Iva di C 792.425,29, per il 2011, nei confronti della RAGIONE_SOCIALE; di C 176.458,60, con Iva di C 35.936,18, per il 2011, nei confronti della
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RAGIONE_SOCIALE; di C 6.286.470,00, con Iva di C 1.320.158,70, per il 2012, nei confronti della RAGIONE_SOCIALE; di C 6.009.390,00, con Iva di C 1.277.503,10, per il 2013, nei confronti della RAGIONE_SOCIALE; di 5.767.296,30, con Iva di 1.268.805,19, per il 2014.
Con medesima sentenza, il Tribunale ha dichiarato non doversi procedere, in relazione ai reati contestati ai capi B) e D), limitatamente alle fatture emesse prima del 16 settembre 2011, per essere i fatti estinti per intervenuta prescrizione, ed ha pronunciato l’assoluzione dell’imputato dagli ulteriori reati a lui ascritti, perch il fatto non sussiste. Visti gli artt. 28 ss. cod. pen. e 12 del d.lgs. n. 74 del 20 inoltre, la sentenza di primo grado ha condannato l’imputato alle pene accessorie ed ha disposto la confisca, anche per equivalente, per un valore di C 13.232.116,90.
1.1. La Corte di appello di Torino, con sentenza del 15 marzo 2024, in parziale riforma del provvedimento di primo grado, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti dell’imputato per essere estinti per intervenuta prescrizione i reati di cui ai capi: A), limitatamente agli anni di imposta 2011 e 2012; B), in relazione alle fatture emesse dal 16 settembre 2011 al 31 dicembre 2011 e nell’anno 2012; C), con riguardo alle dichiarazioni afferenti agli anni di imposta 2010, 2011 e 2013; D), relativamente alle fatture emesse dal 16 settembre 2011 al 31 dicembre 2011 e nell’anno 2012. Ha conseguentemente rideternninato la pena inflitta all’imputato in anni 3 e mesi 6 di reclusione, applicando la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni e revocando, di contro, quella dell’interdizione legale durante la pena medesima. Ha, infine, ridotto la confisca per equivalente disposta nei confronti dell’imputato ad C 4.347.091,62, in relazione ai capi A) e C), e confermato nel resto la sentenza impugnata.
Avverso la sentenza, COGNOME ClaudioCOGNOME tramite difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, si lamenta la violazione degli artt. 429, secondo comma, cod. pen., 423, comma 1-bis, e 521, comnna 2, cod. proc. pen., nonché il difetto di motivazione, in relazione all’eccezione di nullità del decreto che dispone il rinvio a giudizio, per omessa enunciazione del fatto in forma chiara e precisa.
2.1.1. Nella prima parte della censura, la difesa ripercorre sinteticamente la vicenda processuale relativa alla censurata genericità dell’imputazione.
Afferma che, già in sede di udienza preliminare, il difensore aveva contestato la genericità dei capi d’imputazione, sottolineando come questi si limitassero ad un mero elenco di fatture asseritamente false, senza fornire i dettagli necessari per identificarle (numero, data di emissione, importo e altri elementi utili). Le
contestazioni apparivano, dunque, di natura puramente dichiarativa e assertiva, senza riferimenti concreti alle operazioni coinvolte.
In particolare, non era chiaro se il Pubblico Ministero ritenesse inesistenti tali operazioni sotto il profilo oggettivo o soggettivo, né se esse fossero state effettivamente eseguite, in tutto o in parte. A sostegno di tale tesi, si evidenziava che l’Agenzia delle Entrate aveva notificato alla società RAGIONE_SOCIALE quattro avvisi di accertamento per gli anni d’imposta 2011-2014, rilevando che la Guardia di Finanza non aveva effettuato una verifica analitica e selettiva delle fatture emesse e ricevute, con la conseguenza che, nel caso di specie, si era reso necessario ricorrere alla determinazione induttiva del reddito d’impresa, prevista dall’art. 39, secondo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973.
Accogliendo l’eccezione sollevata dalla difesa, il Gup aveva quindi invitato il Pubblico Ministero ad integrare il capo d’imputazione. Tuttavia, alla successiva udienza, l’organo requirente aveva dichiarato di non aver correttamente adempiuto al proprio compito a causa dell’ingente mole di documentazione da esaminare, ottenendo così un breve rinvio. Nonostante l’opposizione della difesa – secondo la quale, stanti i quattro mesi di tempo a disposizione, il Pubblico Ministero non aveva voluto provvedere nei termini fissati – il giudice per l’udienza preliminare aveva accolto la richiesta della Pubblica Accusa, rinviando l’udienza al 5 ottobre 2017, nell’ambito della quale, il magistrato requirente aveva comunicato di aver depositato gli atti il giorno precedente, motivo per cui la difesa aveva chiesto e ottenuto un ulteriore breve rinvio per esaminare la relativa documentazione.
2.1.2. Successivamente, la difesa tratta il tema della genericità dell’imputazione dal punto dì vista normativo e giurisprudenziale, altresì sviluppando due distinti profili di censura.
In primo luogo, si denuncia la genericità dell’imputazione, sul rilievo che il Pubblico Ministero non avrebbe indicato nel dettaglio le fatture per operazioni inesistenti afferenti al reato di cui al capo A), riferite all’anno di imposta 2013, c grave pregiudizio della difesa sia in ordine al diritto di dedurre la prova contraria mediante la citazione di testi volti a smentire l’ipotesi accusatoria, sia in relazion alla possibilità di determinarsi nella ‘scelta di riti alternativi, essendo impossib per l’imputato confrontarsi con il Pubblico Ministero a causa della mancata disponibilità della piena conoscenza di tutti gli elementi volti all’individuazione dell fatture contestate.
Queste ultime, infatti, in assenza di una qualunque suddivisione per categorie omogenee che avrebbe potuto consentirne la corretta identificazione, sarebbero state indicate soltanto nel loro ammontare complessivo, così determinando un’evidente violazione dei diritti di difesa dell’imputato medesimo ad opera del
Pubblico Ministero, che, disattendendo il contenuto dell’ordinanza pronunciata dal Gup in data 18 maggio 2017, in violazione dell’art. 124, comma 1, cod. proc. pen., avrebbe sostanzialmente dato luogo ad un conflitto tra organo giurisdizionale ed organo requirente, vanificando il contenuto della già menzionata ordinanza interlocutoria e lasciando di fatto inalterata la genericità dei già censurati capi d imputazione. Per parte sua, il Giudice dell’udienza preliminare avrebbe violato il principio di corrispondenza tra imputazione contestata e sentenza, non avendo disposto la restituzione degli atti alla Procura procedente, come prescritto dal combinato disposto degli artt. 423, comma 1-bis, e 521, comma 2, cod. proc. pen., celebrando ugualmente l’udienza preliminare, senza nemmeno esercitare quel potere sostitutivo rispetto all’Ufficio della Procura che rimanga inerte, a lui riconosciuto in tali casi dalla giurisprudenza di legittimità.
Né, infine, l’organo requirente avrebbe adeguatamente specificato se tutte, o solo in parte, le fatture emesse ed utilizzate dalle società estere fossero da considerarsi relative ad operazioni inesistenti, nonostante l’ulteriore e mirato invito in tal senso mosso dal Gup, in ragione della impossibilità di ritenere – poiché contrario al contenuto degli stessi atti processuali – che tutte le fatture present nella contabilità delle due società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE sia emesse che ricevute, fossero riferibili ad operazioni inesistenti. Dal verbale di verifica del 6 ottobre 2014 nei confronti della RAGIONE_SOCIALE e da quello redatto in relazione alla RAGIONE_SOCIALE, datato 4 agosto 2015, nonché dalle sentenze di merito, emergerebbe, infatti, anche la sussistenza di attività · commerciali lecite, legate al mondo della commercializzazione di gadget pubblicitari, e, dunque, di fatture vere ed effettive, da espungere, in quanto tali, dall’elenco di cui ai capi di imputazione.
2.2. Con un secondo motivo di gravame, si censura la violazione degli artt. 423, comma 1, 521 e 522 cod. proc. pen., ed il connesso vizio di motivazione, sul rilievo che, secondo la prospettazione difensiva, la Corte d’Appello di Milano avrebbe erroneamente respinto l’eccezione sollevata dall’imputato in merito alla mancata notifica allo stesso dell’ordinanza del 18 maggio 2017 e, all’imputato e al suo difensore, dell’avviso di deposito degli atti integrativi dell’imputazione da parte del Pubblico Ministero.
In particolare, la motivazione fornita al riguardo sarebbe non solo inadeguata, in quanto basata su argomentazioni irrilevanti – come il fatto che l’imputato assente sarebbe comunque rappresentato dal difensore ai fini della comunicazione dell’ordinanza interlocutoria e la circostanza che il nostro ordinamento non preveda un diritto dell’assente alla notifica personale di atti diversi dal decreto che dispone il giudizio – ma anche contraddittoria ed illogica. Dopo aver inizialmente ritenuto superflua la notifica all’imputato in quanto rappresentato dal difensore, la
Corte avrebbe poi escluso la necessità della notifica anche a quest’ultimo, sostenendo che il Pubblico Ministero aveva già depositato in cancelleria, prima dell’udienza di rinvio, l’elenco delle fatture per operazioni inesistenti, poi utilizz per integrare i capi d’imputazione.
Sul punto, sostiene la difesa che la notifica all’imputato non possa essere surrogata da quella al difensore. In tale ottica, la sua omissione determinerebbe una nullità passibile di essere sanata soltanto allorché vi siano elementi che dimostrino che la parte abbia comunque esercitato le prerogative a cui l’atto omesso o nullo era preordinato; circostanza che, tuttavia, nel caso in esame, non si sarebbe verificata.
In violazione di quanto disposto dall’art. 423, comma 1, cod. proc. pen., infatti, il Pubblico Ministero, limitandosi a depositare gli atti presso la canceller del Giudice per l’udienza preliminare, avrebbe fallacemente omesso di contestare all’imputato assente l’intervenuta integrazione dell’imputazione, la quale erroneamente considerata dai giudici di merito alla stregua di una mera precisazione – ancorché avvenuta in maniera soltanto parziale, avrebbe determinato una vera e propria modifica rispetto alla originaria contestazione contenuta nella richiesta di rinvio a giudizio, con conseguente violazione del diritto dell’imputato ad essere informato in modo dettagliato sui fatti materiali che gli vengono contestati, riconosciuto anche a livello sovranazionale ai sensi dell’art. 6, connma 1, n. 3, lettera a), CEDU.
Nel caso di specie, del resto, né l’ordinanza del 18 maggio 2017, né l’avviso di deposito degli atti relativi alla parziale integrazione dell’imputazione effettuat dal Pubblico Ministero il 4 ottobre 2017 – avvenuta fuori udienza – sarebbero stati notificati all’imputato o al difensore; con la conseguenza che l’odierno ricorrente sarebbe stato giudicato per fatti diversi da quelli originariamente contestati, in violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza.
Infine, anche la restituzione nel termine concessa al Pubblico Ministero sarebbe avvenuta al di fuori dei casi previsti dall’art. 175 cod. proc. pen., senza che la Pubblica Accusa avesse fornito alcuna prova delle ragioni per le quali non aveva potuto adempiere tempestivamente all’invito del Giudice.
2.3. Con una terza censura, ci si duole della violazione degli artt. 24 Cost. e 415-bis, comma 3, cod. proc. pen., oltre che del connesso vizio motivazionale, in relazione all’eccezione di nullità del decreto che dispone il rinvio a giudizio in ragione dell’omesso deposito degli atti presso la segreteria del Pubblico Ministero al momento della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari.
Premesso, in punto di fatto, che, in data 9 novembre 2016, all’odierno ricorrente era pervenuta la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui all’art. 415-bis cod. proc. pen. – contenente tutti gli avvertimen
di rito, ivi compreso quello inerente alla possibilità di visionare ed estrarre copi degli atti nel termine di venti giorni dalla predetta notifica – e che, da successiv accessi in Procura, la difesa aveva appreso che i relativi atti erano stati depositati soltanto dopo dodici giorni dall’avvenuta notifica, così riducendo ad otto giorni il termine per l’esercizio delle attività difensive, ritiene la difesa che – tenuto con della rilevanza che la disco very degli atti dell’accusa assume nella pianificazione della strategia difensiva e nel garantire un contraddittorio effettivo su un piano di parità – l’inerzia del Pubblico Ministero e la conseguente tardiva messa a disposizione degli atti abbiano leso il diritto di difesa dell’imputato. In un t contesto, nello specifico, non sarebbe condivisibile la motivazione della Corte d’Appello, secondo cui il termine di venti giorni, previsto dall’art. 415-bis, comma 3, cod. proc. pen. non avrebbe carattere perentorio, bensì meramente ordinatorio, e potrebbe quindi essere superato senza alcuna decadenza, potendosi esercitare le facoltà ivi previste sino a quando il Pubblico Ministero non abbia formulato richiesta di rinvio a giudizio.
Diversamente, la difesa di parte ricorrente sostiene che tale termine debba essere considerato perentorio, soprattutto per quanto riguarda la facoltà di chiedere l’interrogatorio dell’imputato. Trascorso tale termine, infatti, il Pubblic Ministero non ha più l’obbligo, ma solo la facoltà di procedere all’interrogatorio, con la conseguenza che l’azione penale può essere esercitata anche senza l’espletamento di tale atto istruttorio.
Secondo la prospettazione difensiva, pertanto, nel caso di specie, l’inerzia del Pubblico Ministero ed il conseguente ritardo nel deposito degli atti avrebbero pregiudicato la possibilità per la difesa di vincolare l’accusa alla richiesta d interrogatorio; ciò che rappresenterebbe motivo di nullità della richiesta di rinvio a giudizio, ai sensi dell’art. 416, connma 1, n. 1), cod. proc. pen. Di conseguenza, il decreto che dispone il giudizio dovrebbe essere considerato nullo, con regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari.
Infine, nonostante l’istanza formulata sul punto dalla parte ricorrente, il Pubblico Ministero avrebbe mancato di rinnovare l’avviso di deposito della documentazione, con conseguente mancata messa a disposizione della difesa di tutti gli atti del processo.
2.4. Con un quarto motivo di ricorso, si deducono, infine, vizi della motivazione della sentenza impugnata, per avere la Corte di merito erroneamente disatteso le doglianze difensive concernenti la ritenuta responsabilità penale dell’imputato, venendo così meno all’obbligo motivazionale previsto dal combinato disposto degli artt. 111 Cost. e 546, comma 1, lettera e), cod. proc. pen.
Si sostiene, innanzitutto, che la sentenza impugnata, con motivazione talvolta lacunosa, talvolta manifestamente illogica e contraddittoria, avrebbe omesso di
confrontarsi con la circostanza che i giudici di merito, ritenendo che l’imputato, nell’atto di appello, avesse operato una rilettura parcellizzata e frammentaria dei singoli elementi probatori, avrebbero fallacemente omesso di confrontarsi con il fatto che sarebbe stata la stessa sentenza di primo grado a prendere atto dei gravi aspetti censurabili dei processi verbali di constatazione, specificamente riconoscendo la sussistenza di oggettive carenze di indagine, salvo poi contraddittoriamente ritenere comunque verosimile la tesi prospettata dai verificatori. Si rappresenta, in secondo luogo, il fatto che il PVC, redatto nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, oltre a riprodurre pedissequemente gli delle indagini già svolte nei confronti della RAGIONE_SOCIALE , sarebbe pr}v autonomia concettuale, essendo state analizzate ben quattro annualità di imposta (dal 2011 al 2014) in soli 40 giorni.
Ancora, la Corte di appello di Milano avrebbe erroneamente trascurato di considerare tutte le molteplici contraddizioni evidenziate dalla difesa con riguardo alla asserita fittizietà delle fatture in relazione all’unica ipotesi di reato rit sussistente dai giudici di merito, concernente l’utilizzazione delle fatture per operazioni inesistenti emesse dalle società di tale RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, nonché l’emissione di fatture per operazioni inesistenti a favore delle predette società da parte della RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE
In primo luogo, ritiene la difesa che la motivazione della sentenza impugnata sarebbe manifestamente illogica, allorché ha ritenuto anomala la posizione delle società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, al contennpo fornitrici e clienti delle due società italiane (RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, omettendo tuttavia di considerare che l’imputato era socio accomandante di tali società con una quota di partecipazione del 10%, inidonea di per sé a consentire l’esercizio di alcun potere direttivo o di controllo, come peraltro dimostrato dall’assenza di qualsivoglia emergenza istruttoria volta a palesare una funzione decisionale dell’odierno ricorrente.
Inoltre, la difesa afferma che la sede legale sarebbe stata fissata presso un commercialista per la necessità di contenere i costi, nonché per la presenza dei medesimi soci e della gestione in parte comune alle tre società di diritto rumeno. Sul punto, si osserva che la motivazione della Corte territoriale presenta manifeste illogicità, allorché, pur fondando il proprio convincimento in ordine alla fittizie delle fatture anche sull’identità di sede e di amministratore delle tre società di diritto rumeno, ha omesso qualsivoglia controllo, non solo presso la predetta sede, ma anche in ordine alla persona del socio acconnandatario NOME COGNOME il quale avrebbe potuto fornire ulteriori elementi chiarificatori, tenuto conto che, secondo la difesa, sarebbe del tutto inammissibile sostenere che quelle stesse fatture fittizie
che sono giudicate a carico dell’utilizzatore, sfuggano invece alla medesima censura ed alle logiche conseguenze amministrative, economiche e penali, a carico degli emittenti. Proprio per tale discrasia, l’Agenzia delle Entrate, in assenza di indagini, avrebbe attribuito a RAGIONE_SOCIALE il 50% del presunto vantaggio fiscale, riferibile ad Ires e Irap, considerando l’importo come provento illecito, mentre l’altro 50%, teoricamente riferibile ai fornitori della RAGIONE_SOCIALE, non sarebbe mai stato oggetto di alcun accertamento, contenzioso o cartella esattoriale e, pertanto, ritenuto perfettamente regolare.
La Corte distrettuale, inoltre, darebbe erroneamente per scontato il dirottamento verso l’estero di flussi finanziari, mai provato e nemmeno ipotizzabile, considerato che la costituzione della società RAGIONE_SOCIALE sarebbe intervenuta solo nel dicembre 2013 e quella della polacca RAGIONE_SOCIALE Varsavia, nel febbraio 2014; quindi in epoca successiva ai fatti contestati.
In relazione al rinvenimento di documentazione extracontabile relativa alle tre società rumene, invece, la difesa ribadisce la veste di socio accomandante dell’imputato all’interno delle stesse; di talché, certamente sussistente avrebbe dovuto ritenersi l’interesse dell’odierno ricorrente rispetto alle vicende economiche delle tre società estere, non potendosi desumere alcunché dal possesso di carte di credito e dalla presenza di deleghe per il ritiro di password di remote banking, tanto più tenuto conto che la RAGIONE_SOCIALE sarebbe cessata nel 2011, sicché nessun rilievo avrebbe potuto assumere con riguardo agli anni di imposta oggetto di verifica (2011-2014).
Né, infine, i verificatori avrebbero fornito alcuna motivazione logica degli incassi accertati e dei relativi ricavi – non più giustificati dalla cessione dei beni e con riguardo al metodo di pagamento adottato. Si osserva, in particolare, che secondo il giudicante, la condotta posta in essere dall’imputato risultava motivata dal risparmio fiscale, elemento tuttavia non ravvisabile nel caso di specie. Ed invero, osserva la difesa che, prendendo in considerazione una fattura fittizia pari a 100 +22% di Iva, l’utilizzatore non risparmia nulla, giacché, se è vero che l’Iva viene detratta, è anche vero che essa in precedenza è stata pagata, sicché i due valori si annullano. Per quanto attiene invece il risparmio fiscale, si ha circa il 32% (27,5% di Ires ed il 4% di Irap) di imposte dirette. Sotto questo specifico aspetto, la difesa afferma che, affinché l’operazione abbia utilità per l’utilizzatore, necessario che egli si faccia restituire una parte del corrispettivo pagato. Nel caso di specie, dunque, a fronte di fatture fittizie accertate per un importo di circa 105 milioni di euro, gli importi retrocessi avrebbero dovuto essere almeno pari a 80/85 milioni di euro: somma talmente ingente che, secondo la difesa, non avrebbe in alcun modo potuto non lasciare traccia nelle movimentazioni bancarie delle parti.
Per quanto concerne il metodo di pagamento, invece, si afferma che tutte le fatture asseritamente fittizie sarebbero state pagate con modalità tracciabili, mentre i pagamenti effettuati in contanti sarebbero stati preceduti da un prelievo presso la banca e dalle conseguenti annotazioni contabili di riduzione del saldo conto banca e riduzione saldo debiti verso i fornitori. In tale contesto, dunque, gli accertamenti bancari sarebbero stati imprescindibili per comprendere se i pagamenti fossero avvenuti verso soggetti che preferivano pagamenti in contanti oppure verso una moltitudine di soggetti, individuando quali, se sempre gli stessi oppure diversi. Mentre, nel caso di specie, i verificatori avrebbero indebitamente ritenuto di surrogare le indagini sulle movimentazioni bancarie con il controllo sui pagamenti non effettuati e sugli incassi non ricevuti, concludendo apoditticamente che, siccome i crediti non erano stati incassati e i debiti non erano stati pagati, allora essi sarebbero stati inesistenti, senza peraltro considerare che, dal momento che il controllo bancario ha lo scopo di verificare i flussi finanziari, se un credito un debito al 31 dicembre risulta ancora aperto, vuol dire che esso non è mai stato incassato o pagato né è mai transitato nel conto corrente.
Astenendosi dall’esaminare le schede contabili e le schede fornitori, peraltro, gli accertatori non si sarebbero nemmeno accorti che il saldo creditori ed il saldo debitori, nel caso di specie, hanno registrato un andamento altalenante, facendo così registrare un fisiologico dinamismo nell’ambito del quale il responsabile finanziario è chiamato ad armonizzare i due dati, onde evitare di ricorrere agli istituti di credito.
In subordine, chiede la difesa che venga pronunciata sentenza di non doversi procedere nei confronti dell’imputato in relazione ai reati di cui ai capi B) e D), con riguardo alle fatture emesse nell’anno 2013, per essersi i reati estinti per prescrizione, tenuto altresì conto del periodo di sospensione della stessa, pari a complessivi 5 mesi e 5 giorni.
In data 16 gennaio 2025, la difesa dell’imputato ha depositato memoria, con la quale insiste in quanto già dedotto nel ricorso, ribadendo altresì che la sentenza impugnata si sarebbe limitata a riproporre, senza alcun vaglio critico, gli stessi presupposti erronei già contenuti ‘nella sentenza di primo grado, soprattutto per quanto concerne gli accertamenti bancari, ritenuti essenziali per verificare l’eventuale fittizietà delle fatture.
In particolare, da un lato, si contesta al Pubblico Ministero di aver accolto acriticamente il metodo adottato dai verificatori, basato su una sorta di controllo inverso – cioè, sull’analisi di crediti non riscossi e debiti non pagati – riten illogico ed in contrasto con i principi fondamentali della contabilità e dell’indagine tributaria, in quanto finalizzato a desumere le movinnentazioni finanziarie da voci
ancora presenti in bilancio e quindi, per definizione, non ancora estinte. Dall’altro lato, si censura la motivazione della Corte d’appello, la quale avrebbe completamente ignorato la questione della compensazione incrociata tra fatture emesse e ricevute da parte di alcune delle società coinvolte, limitandosi ad affermare che il «giro fosse tutto in casa», senza tuttavia spiegare come potessero essere giustificati i milioni di euro di differenza tra fatture emesse e quell effettivamente compensabili.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
1.1. Il primo motivo di doglianza, con il quale si denuncia la nullità del decreto che dispone il rinvio a giudizio, per genericità dell’imputazione, è inammissibile perché manifestamente infondato.
1.1.1. In linea generale, questa Corte ha già avuto modo di chiarire che, in tema di citazione a giudizio, non vi è incertezza sui fatti descritti nell’imputazione quando questa contenga, con adeguata specificità, i tratti essenziali del fatto di reato contestato, in modo da consentire all’imputato di difendersi (ex plurimis, Sez. 5, n. 16993 del 02/03/2020, Rv. 279090; Sez. 5, n. 6335 del 18/10/2013, dep. 2014, Rv. 258948; Sez.2, n. 16817 del 27/03/2008, Rv. 239758). In altri termini, non sussiste alcuna incertezza sull’imputazione quando il fatto sia contestato nei suoi elementi strutturali e sostanziali in modo da consentire un completo contraddittorio ed il pieno esercizio del diritto di difesa, non essendo necessaria un’indicazione assolutamente dettagliata dell’imputazione stessa (ex multis, Sez. 3, n. 35964 del 04/11/2014, dep. 2015, Rv. 264877; Sez. 2, n. 36438 del 21/07/2015, Rv. 264772; Sez. 5, n. 51248 del 05/11/2014, Rv. 261741; Sez. F., n. 43481 del 07/08/2012, Rv. 253582). La contestazione, inoltre, non va riferita soltanto al capo di imputazione in senso stretto, ma anche a tutti quegli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, pongono l’imputato in condizione di conoscere in modo ampio l’addebito (ex plurimis, Sez. 3, n. 9314 del 16/11/2023, dep. 2024, Rv. 286023; Sez. 5, n. 10033 del 19/01/2017, Rv. 269455).
Per contro, si ha incertezza sul fatto solo quando l’imputato non sia stato posto in grado di conoscere l’oggetto dell’addebito e l’attività materiale (nei suoi profi storici essenziali) in ordine alla quale viene chiamato a rispondere, risultando in tal modo preclusa o resa difficoltosa la possibilità di difesa (ex multis, Sez. 1, n. 297 del 09/02/1990, Rv. 183761).
1.1.2. Declinando tali principi in materia di reati tributari, dunque, va rilevat che la mancanza, nel capo di imputazione, di una specifica ed analitica indicazione di tutte le fatture ritenute falsificate o contraffatte non comporta alcuna genericità
o indeterminatezza della contestazione dei reati di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, allorché tali documenti siano agevolmente identificabili attraverso il richiamo ad una categoria omogenea che ne renda comunque possibile la individuazione (ex multis, Sez. 3, n. 20858 del 07/11/2017, dep. 2018, Rv. 272788; Sez. 3, n. 6102 del 15/01/2014, Rv. 258905). Analogamente, non comporta alcuna genericità o indeterminatezza della contestazione di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000 la mancata indicazione specifica dei soggetti beneficiari delle stesse fatture nel capo di imputazione, allorché tali soggetti siano agevolmente identificabili in forza di elementi fattuali che ne rendano comunque possibile l’individuazione (Sez. 3, n. 6509 del 06/11/2019, dep. 19/02/2020, Rv. 278544 – 01).
1.1.3. Ebbene, nel caso di specie, il capo di imputazione in esame appare adeguatamente circoscritto in virtù della qualifica soggettiva dell’emittente/utilizzatore COGNOME, dei nominativi delle società destinatarie ed emittenti, nonché dell’anno di imposta di riferimento; di talché nessuna indeterminatezza dell’addebito mosso può essere seriamente invocata, ben potendo l’odierno imputato comprendere fina dall’inizio, con la dovuta precisione, dal contenuto della rubrica, quale era stata la condotta a lui contestata come illecita, anche a prescindere dalla mancata indicazione in ordine alla ritenuta inesistenza di tutte o di solo alcune delle fatture oggetto di contestazione, invero inconferente ai fini della censurata – e smentita – genericità dell’imputazione.
Nella specie, dunque, ritiene il Collegio che le indicazioni contenute nel capo di imputazione con riguardo alle fatture ivi elencate, unite a tutti gli altri elemen evincibili negli atti del fascicolo processuale, abbiano consentito all’imputato la chiara comprensione delle accuse mosse nei suoi confronti e il pieno esercizio delle facoltà difensive, del resto confermate dall’avvenuto pieno dispiegamento della difesa sul merito delle accuse medesime.
Né, del resto, incide in alcun modo, alla luce dei principi sopra richiamati, sulla validità dell’editto accusatorio l’eventuale presenza, all’interno dell’elenco contenuto nel capo di imputazione, di fatture la cui falsità non sia stata espressamente contestata o accertata. Essa, infatti, non può determinare alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, che si configura unicamente quando vi sia una divergenza tra il fatto contestato e quello ritenuto come reato dal giudice, e non quando nella contestazione siano incluse anche condotte che risultino poi penalmente irrilevanti. Infatti, l’imputato ha la possibilit di considerare, per sviluppare la sua linea difensiva, tutte le fatture indicate nell’imputazione che si riferiscano ad operazioni contestate come inesistenti.
1.2. Il secondo motivo di doglianza, afferente alla violazione degli artt. 423, comma 1, 521 e 522 cod. proc. pen. ed al connesso vizio di motivazione, è anch’esso manifestamente infondato.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, infatti, la motivazione fornita dai giudici di merito (pagg. 23-24 del provvedimento impugnato) appare logica e coerente sia nella parte in cui valorizza l’esistenza di un canale comunicativo fiduciario tra il difensore, presente all’udienza preliminare, e l’imputato dichiarato assente – precisando altresì che non esiste alcuna norma che preveda il diritto dell’imputato assente alla notifica personale di atti diversi dal decreto di citazione a giudizio – sia allorché specifica che, in ordine alla omessa comunicazione al difensore dell’avviso di deposito dell’integrazione del capo di imputazione, non sussiste alcuna nullità o invalidità correlata ad alcuna lesione del diritto di difesa.
Nel caso di specie, infatti, risulta dagli atti che dell’ordinanza del 18 maggio 2017 fu data lettura all’udienza preliminare, in presenza del difensore, non dovendo pertanto tale provvedimento ordinatorio essere in alcun modo notificato all’imputato già dichiarato assente, in forza del principio della rappresentanza da parte del difensore.
Analogamente, non può ravvisarsi, nel caso di specie, alcuna nullità o invalidità del procedimento, in conseguenza dell’omessa notifica all’imputato e al difensore dell’avviso di deposito degli atti integrativi dell’imputazione. Dirimente al riguardo è, infatti, la circostanza che, nel caso in esame, la difesa abbia ottenuto il rinvio dell’udienza richiesto al fine di esaminare gli atti integrativi deposit evenienza, questa, che ha concretamente garantito l’esercizio del diritto di difesa, così neutralizzando ogni possibile pregiudizio derivante dalla contestazione in udienza e dalla censurata mancata notificazione all’imputato e al suo difensore dell’avviso di deposito dell’integrazione al capo di imputazione.
E ciò a prescindere dalla circostanza che, nella concreta vicenda processuale, non risultano comunque contestati nuovi fatti rispetto all’imputazione originaria, con la conseguente insussistenza di un reale pregiudizio per la difesa. Valgono sul punto le considerazioni già svolte sub 1.1. e ss., da intendersi integralmente richiamate. D’altra parte, se è vero che il diritto dell’imputato di essere informato, in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico è sancito anche dall’art. 6, comma 3, lettera a), CEDU, è pur vero che non è necessario che il capo di imputazione riporti in modo dettagliato il singolo numero della fattura o del documento emesso per prestazioni inesistenti, quando ciò non sia strettamente necessario alla comprensione del tenore dell’accusa e non impedisca, in concreto, l’esercizio del diritto di difesa.
1.2.3. Per quanto concerne, infine, la denunciata violazione dell’art. 175 cod. proc. pen., nel caso di specie non si pone alcun problema di rimessione in termini
del Pubblico Ministero, trattandosi di mero rinvio: la restituzione in termini, infatt è prevista solo con riguardo ai termini stabiliti a pena di decadenza, mentre, nel caso di specie, non risulta violato alcun termine perentorio. Peraltro, nel caso in esame, il Tribunale ha correttamente valorizzato la voluminosità della documentazione da esaminare, ravvisando in detta fattispecie una giustificazione adeguata del rinvio concesso.
1.3. La terza censura, con la quale si denuncia la nullità del decreto che dispone il rinvio a giudizio per omesso deposito degli atti al momento della notifica dell’avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen., è inammissibile perché manifestamente infondata.
1.3.1. La prospettazione difensiva muove da un presupposto giuridicamente erroneo, ossia l’assunto che il termine di cui all’art. 415-bis, comma 3, cod. proc. pen. avrebbe natura perentoria.
Ed invero, è principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo il quale il termine di venti giorni dalla notifica dell’avviso di conclusion delle indagini, previsto dall’art. 415-bis cod. proc. pen. per la presentazione delle memorie e delle richieste difensive, ha natura ordinatoria, sicché i diritti difensiv possono esercitarsi fino alla richiesta di rinvio a giudizio, ai sensi dell’art. 416 co proc. pen. (ex multis, Sez. 2, n. 22364 del 24/03/2023, Rv. 284719; Sez. 6, n. 50087 del 18/09/2018, Rv. 274506). In tale prospettiva, dunque, l’eventuale deposito, anche parziale, degli atti delle indagini preliminari successivamente alla notifica dell’avviso di conclusione previsto dall’art. 415-bis cod. proc. pen., non determina alcuna nullità, giacché il termine di venti giorni previsto dal terzo connma di detta disposizione inizia a decorrere solo dal momento del deposito (Sez. 1, n. 5580 del 15/01/2008, Rv. 238863). Dunque, la pacifica natura ordinatoria del termine previsto dall’art. 415-bis cod. proc. pen. impone al Pubblico Ministero di effettuare l’interrogatorio in ipotesi chiesto dall’indagato dopo il decorso de termine di venti giorni previsto dalla norma, ma prima della data di emissione della richiesta di rinvio a giudizio. Conseguentemente, deve, pertanto, ritenersi che la mancata effettuazione dell’interrogatorio, chiesto dopo il decorso dei venti giorni previsti dall’art. 415-bis cod. proc. pen., ma prima della richiesta di rinvio giudizio, implichi una lesione del diritto di difesa, inquadrabile come nullità a regime intermedio.
Nel caso di specie, tuttavia, tale evenienza non si è verificata. Come correttamente rilevato dalla Corte distrettuale, con motivazione logica e coerente, i la difesa ha potuto beneficiare di un arco temporale più ampio di quello minimo previsto dalla legge – pari a venti giorni – durante il quale ha avuto piena facoltà di esercitare tutte i diritti difensivi a questa riconosciuti.
Va inoltre osservato che la prospettazione difensiva risulta assolutamente astratta, perché nessuna richiesta di interrogatorio è stata presentata entro i venti giorni successivi alla notifica dell’avviso; pertanto, non emerge, nella specie, alcun interesse concreto della parte a dolersi del ritardo nel deposito, non essendosi verificata alcuna effettiva compressione del diritto di difesa. Ed invero, solo laddove la difesa avesse chiesto l’interrogatorio dopo la scadenza del termine di venti giorni ed il Pubblico Ministero, avendone la facoltà, glielo avesse negato, avrebbe potuto ravvisarsi un interesse concreto della parte a dolersene.
La censura, pertanto, si fonda su un’ipotesi ricostruttiva del tutto sfornita di rilievo giuridico, come tale evidentemente inammissibile, a nulla rilevando l’ulteriore circostanza che, nonostante la rituale istanza formulata sul punto dalla parte ricorrente, il Pubblico Ministero non abbia rinnovato l’avviso di deposito della documentazione: come già preliminarmente anticipato, infatti, la difesa ha comunque avuto accesso agli atti, godendo di un termine di fatto più ampio di quello previsto, senza che risulti proposta alcuna specifica richiesta difensiva.
1.4. Anche l’ultimo motivo di impugnazione – riferito ai vizi della motivazione del provvedimento impugnato con riguardo alla penale responsabilità dell’imputato – è inammissibile.
1.4.1. La ricostruzione difensiva, pur denunciando formalmente vizi della motivazione, si traduce in realtà in una palese, ma non consentita, contestazione nel merito della valutazione degli elementi istruttori effettuata sia dal giudice d primo grado che dalla Corte di appello, e in una richiesta a questa Corte di diversa e alternativa lettura delle risultanze probatorie. In altre parole, il ricorren omettendo di confrontarsi con l’intero e coordinato complesso delle prove emerse nel corso del giudizio, offre una lettura frazionata e parcellizzata delle stesse, mediante l’isolata valorizzazione, in maniera atonnistica, di singole presunte incoerenze, opponendo al logico, congruo e corretto convincimento della Corte territoriale, argomenti fattuali e di merito che esulano dal perimetro assegnato al giudizio di legittimità.
Ed invero, eccede dai limiti di cognizione della Corte di cassazione ogni potere di revisione degli elementi materiali e fattuali, trattandosi di accertamenti rientranti nel compito esclusivo del giudice di merito, posto che il controllo sulla motivazione rimesso al giudice di legittimità è circoscritto, ex art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., alla sola verifica dell’esposizione delle ragioni giuridicamente apprezzabili che l’hanno determinata, dell’assenza di manifesta illogicità dell’esposizione e, quindi, della coerenza delle argomentazioni rispetto al fine che ne ha giustificato l’utilizzo e della non emersione di alcuni dei predetti viz dal testo dell’atto impugnato o da altri atti del processo, ove specificamente indicati nei motivi di gravame, requisiti la cui sussistenza rende la decisione
insindacabile (ex plurimis, Sez. 3, Sentenza n. 17395 del 24/01/2023, Rv. 284556).
1.4.2. Nel caso di specie, del resto, la motivazione della sentenza impugnata risulta completa ed esaustiva, nonché esente da manifeste illogicità e contraddizioni, allorché, alle pagg. 26-39, ha debitamente risposto alle censure sollevate nell’atto di appello in punto di responsabilità penale dell’imputato.
Innanzitutto, la Corte di merito – in continuità con il giudice di primo grado ha adeguatamente fornito una ricostruzione del tutto completa e dettagliata in ordine alla ritenuta fittizietà delle fatture, richiamando in modo puntuale (pagg. 29-31) numerosi elementi convergenti che dimostrano l’effettiva inesistenza operativa delle tre società di diritto rumeno coinvolte – RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE – facenti capo a RAGIONE_SOCIALE, quali: l’identità della sede, risultata una mera donniciliazione; la sovrapposizione delle compagini sociali; l’irreperibilità del predetto prestanome, amministratore unico e socio accomandatario; la completa mancanza di dipendenti, mezzi propri, contratti di sonnministrazione di energia elettrica, nonché di locazioni di immobili adibiti a luoghi di esercizio della presunta attivi commerciale; il rinvenimento nella cantina del Necchi della contabilità relativa ad alcuni clienti/fornitori delle due società; il rinvenimento, a seguito di ricerch effettuate nei locali comuni alle due società italiane, all’interno della cassaforte, d documenti extracontabili riferibili alle società rumene; l’assenza di prova della quasi totalità dei pagamenti relativi alle transazioni fra le due società verificate le tre società-filtro, nonché l’assenza di trasporti e di costi. In aggiunta, è sta evidenziato che, in un file estrapolato dal pc in uso all’imputato stesso, rappresentativo di un modulo di presentazione ad un istituto bancario, questi si dichiarava titolare di fatto delle società. Inoltre, la documentazione contabile della RAGIONE_SOCIALE per gli anni di imposta 2009-2011 è stata trovata nella cantina di pertinenza dell’abitazione del Necchi, unitamente ad interi blocchi di carta intestata in bianco; mentre, dall’analisi contabile è emerso che gli unici fornitori della società erano la RAGIONE_SOCIALE e la ditta RAGIONE_SOCIALE, anch’essa comprovata società cartiera. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, peraltro, la Corte territoriale, (pag. 33) ha espressamente affrontato la questione della mancata allegazione di prove di episodi dimostrativi di una funzione decisionale o gestionale sul piano contrattuale in capo al COGNOME. In particolare, i giudici di merito hanno correttamente evidenziato l’ovvietà di tale mancanza, la quale, contrariamente a quanto sostenuto dall’imputato, non depone certamente a favore della difesa, trattandosi della naturale conseguenza del carattere meramente apparente e fittizio delle società coinvolte. Proprio per tale ragione, infatti, non sarebb
neppure ipotizzabile una concreta ingerenza decisionale o gestionale da parte dell’imputato, giacché ciò presupporrebbe l’esistenza di un’attività commerciale lecita e reale, che nel caso di specie, risulta del tutto inesistente. Si è altre precisato che l’attribuzione del ruolo di dominus all’imputato, non è stata ricavata dalla mera titolarità formale della quota, bensì dall’insieme degli elementi indiziari dimostrativi della sua effettiva operatività all’interno delle società coinvolte.
Come correttamente rilevato anche dai giudici di secondo grado, peraltro, nessun rilievo può attribuirsi alla circostanza che gli operanti di polizia giudiziari non abbiano sottoposto ad alcuna verifica le società facenti capo al socio accomandatario, risultando evidente che il soggetto formalmente indicato quale amministratore fosse in realtà una figura meramente fittizia, riconducibile all’imputato stesso.
Analogamente, quanto alla asserita mancanza di accertamenti bancari, è stato rilevato, con motivazione coerente, che le fatture contestate riportavano genericamente la dicitura “come da accordi”, senza riferimenti contabili precisi, che consentissero una riconciliazione dei flussi finanziari con la contabilità, non risultando illogico ritenere che la formale regolarità dei pagamenti con fatture per operazioni inesistenti non sia affatto elemento idoneo ad escludere la sussistenza della frode e, anzi, costituisca la principale modalità di dissimulazione del meccanismo fraudolento, né che eventuali retrocessioni vengano effettuate con canali non tracciabili.
Del tutto correttamente, inoltre, i giudici di merito hanno osservato che il fatto che tutte le società coinvolte nel giro di fatture fossero riconducibili al COGNOME rende irrilevante la consulenza afferente alle presunte retrocessioni non tracciate dei prezzi pagati, sottolineando come la disponibilità di canali bancari esteri da parte dell’imputato non sia contraddetta né dall’assoluzione in relazione ad alcune fatture né dal fatto che talune società siano state costituite successivamente rispetto al periodo d’imposta contestato, non essendo indispensabile una diretta e materiale retrocessione in contanti, totale o parziale, dei corrispettivi pagati in relazione alle fatture per operazioni inesistenti in esame. Sotto tale profilo, peraltro, la censura relativa alla mancata verifica di ipotetiche retrocessioni si rivela del tutto priva di rilievo, posto che le stesse non sono elemento costitutivo del reato in contestazione, ma semmai un possibile elemento probatorio, la cui mancata emersione non può essere ascritta a difetto d’indagine, specie in assenza di un onere di allegazione assolto dalla difesa.
1.4.3. Deve infine dichiararsi inammissibile l’invocata eccezione di prescrizione dei reati di cui ai capi B) e D) in relazione all’anno di imposta 2013. Dall’analisi del capo di imputazione, infatti, risulta che l’ultima fattura emessa nell’anno 2013 è datata 23 dicembre 2013; di talché, considerando il termine di
prescrizione di dieci anni risultante dall’applicazione dell’art.
17-bis del d.lgs. n. 74
del 2000, ed aggiungendo 5 mesi e 5 giorni di sospensione, il termine è scaduto il
28 maggio 2024, dunque, successivamente alla data della sentenza di appello, emessa il 15 marzo 2024. Trova dunque applicazione il noto principio secondo cui
l’inammissibilità del ricorso per cassazione non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e
dichiarare la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso
(ex plurimis,
Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, Rv. 217266).
2. Per questi motivi, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato
che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché
quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in C 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 05/02/2025.