Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 13825 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 13825 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 11/01/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOME, nato a Porto Empedocle il DATA_NASCITA avverso la sentenza del 13/02/2023 della Corte di appello di Palermo; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO Procuratore generale NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo che la sentenza sia annullata senza rinvio.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 13 febbraio 2023, la Corte di appello di Palermo ha confermato – per quanto qui rileva – la sentenza del Tribunale di Agrigento del 3 novembre 2020, con la quale l’imputato era stato condannato alla pena di anni 4 di reclusione, oltre alle pene accessorie, per i reati – avvinti dal vincolo del continuazione, considerato più grave il reato di cui all’art. 8 del d. Igs. n. 74 d 2000 – di cui (secondo la numerazione originaria): 7) agli artt. 110 cod. pen. e 8 del d. Igs. n. 74 del 2000, perché, in concorso con altre persone, emetteva – in
qualità di amministratore di fatto della ditta individuale formalmente riferibile COGNOME NOME e soggetto interposto nella realizzazione dei lavori edili, indicati nelle fatture da essa emesse – nei confronti di diversi committenti, molteplici fatture per operazioni soggettivamente inesistenti; 19) all’art. 5 del d. Igs. n. 7 del 2000, perché ometteva di presentare la dichiarazione relativa alle imposte sui redditi e sul valore aggiunto per il periodo d’imposta 2010, pur avendo conseguito ricavi quantomeno per complessivi C 229.985,21, comprensivi di quelli percepiti quale soggetto interposto nella realizzazione dei lavori edili indicati nelle fattur emesse dalla ditta RAGIONE_SOCIALE, per operazioni soggettivamente inesistenti, nei confronti di diversi committenti a fronte del versamento di corrispettivi a suo favore di importi mai palesati ai fini fiscali, risultanti figurativamente in capo alla citata ditta, evadendo imposte IRPEF per C 92.963,64 e IVA per C 45.997,04; 20) all’art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000, perché ometteva di presentare la dichiarazione relativa alle imposte sui redditi e sul valore aggiunto per il periodo di imposta 2011, pur avendo conseguito ricavi quantomeno per complessivi C 135.199,70, percepiti quale soggetto interposto nella realizzazione dei lavori edili indicati nelle fatture emesse dalla ditta RAGIONE_SOCIALE, p operazioni soggettivamente inesistenti, nei confronti di diversi committenti a fronte del versamento di corrispettivi a proprio favore di importi mai palesati ai fini fiscali, risultanti solo figurativamente in capo alla citata ditta, evade imposta IRPEF per C 51.305,87.
Avverso la sentenza, l’imputato, tramite difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1 Con un primo motivo di doglianza, si lamentano la violazione degli artt. 178, lettera c), 191, 192, e 546, cod. proc. pen., 220 disp. att, cod. proc. pen., ed il connesso vizio motivazionale, per avere la Corte di appello omesso di confrontarsi con l’erronea acquisizione, al fascicolo del dibattimento, di prove in realtà vietate. A parere della difesa, gli accertamenti, condotti dall’ispettorat dell’RAGIONE_SOCIALE e dai militari della Guardia di finanza, mediante verbale unico di accertamento e notificazione n. 712/RAGIONE_SOCIALE, verbale di accesso Ispettivo RAGIONE_SOCIALE del 2 marzo 2012 – contenenti, tra l’altro, dichiarazioni auto ed eteroindizianti dell’imputato, rese in assenza di difensore ed in violazione dell’art. 63 cod. proc. pen. – e processo verbale di contestazione n. 17 del 29 gennaio 2015, sarebbero stati espletati in violazione delle garanzie difensive dell’imputato, onde l’inutilizzabilità dei relativi risultati probatori. Più precisamente, il rico osserva che il presente procedimento penale è scaturito da un altro procedimento, avente R.G.N. n. 3601/2011, iscritto allorché gli uffici di vigilanza dell’RAGIONE_SOCIALE dell’RAGIONE_SOCIALE ebbero ravvisato gli estremi dei reati di truffa e di falso, commessi in
loro pregiudizio da numerosi soggetti, tra i quali, l’odierno ricorrente; con l conseguenza che, sussistendo indizi di reato già al momento dei primi accertamenti ispettivi, questi avrebbero dovuto essere espletati nel rispetto delle garanzie difensive dell’imputato, al contrario completamente pretermesse, sull’errato rilievo della natura amministrativa extraprocessuale dell’attivit ispettiva eseguita, derivante dal fatto che gli ispettori dell’RAGIONE_SOCIALE sarebbero entrati a far parte del novero degli ufficiali di Polizia Giudiziaria solo con il d. Igs. n. del 2015. Ebbene, la Corte di appello avrebbe erroneamente fondato la propria decisione su documenti probatori, in realtà, affetti da inutilizzabilità patologic proprio perché fallacemente ritenuti “materiale extraprocessuale ricognitivo di natura amministrativa”. Né la Corte territoriale avrebbe motivato adeguatamente circa l’utilizzabilità del materiale probatorio contestato; ciò che, da un lato, non h condotto all’espunzione dal fascicolo del dibattimento dei verbali contestati, mentre, dall’altro, ha determinato un illecito frazionamento, in capitoli, di un att sostanzialmente unitario, quale il primigenio fascicolo R.G.N. n. 3601/2011, allorché da esso sono state prima raccolte le dichiarazioni auto ed etero indizianti del ricorrente, previa lettura e vaglio delle intercettazioni e degli atti d’indag già disposti, e poi scorporati quelli che il giudice di secondo grado ha chiamato “ulteriori ed autonomi accertamenti”.
2.2. Con una seconda censura, ci si duole della violazione degli artt. 192 e 546, lettera e), cod. proc. pen., 8 del d. Igs. 74 del 2000, 157 e 161 cod. pen., e della legge n. 148 del 2011, nonché del relativo vizio di motivazione, altresì invocando la sopraggiunta e non dichiarata prescrizione del reato sub 7). Il giudice di secondo grado si sarebbe limitato a recepire de plano quanto erroneamente statuito dal Tribunale, astenendosi dal considerare l’insufficienza del compendio accusatorio quanto alla tesi per cui COGNOME NOME era un prestanome dell’odierno imputato – visto che nessuna indagine mirata è stata svolta, tramite eventuali servizi di osservazione, per accertare che il ricorrente avesse effettivamente accompagnato in banca il COGNOME ad incassare gli assegni ricevuti dai vari committenti – mancando di verificare la veridicità, in realtà inesistente della circostanza che l’RAGIONE_SOCIALE si sarebbe avvalso della ditta COGNOME perché impossibilitato ad operare attraverso la società “RAGIONE_SOCIALE s.r.l.” della moglie erroneamente ritenuta insolvente e non in regola con il pagamento del D.U.R.C. Secondo la difesa, tale società era in regola – tanto da avere in corso appalti e lavori autonomi – ed era priva di qualsiasi correlazione economica e bancaria con le somme fatturate dal COGNOME. Allo stesso modo, non potrebbero considerarsi soggettivamente false né le fatture emesse dall’imputato in favore della ditta “RAGIONE_SOCIALE” – il cui amministratore, non a caso, è stato correttamente assolto, in primo grado, per insussistenza del fatto – né quelle
ricevute dalla “RAGIONE_SOCIALE“, anch’essa amministrata da soggetto assolto in primo grado; ciò che equivale a dire che l’emissione delle predette fatture avrebbe, irragionevolmente, costituito il presupposto del dolo specifico per l’COGNOME e per il COGNOME, ma non anche per i destinatari NOME e COGNOME NOME, i quali non avrebbero percepito l’interposizione dell’odierno ricorrente rispetto al COGNOME. Ebbene, sul punto, mancherebbe una motivazione circa il dolo eventuale, da intendersi come consapevole accettazione del fine di evasione o di indebito rimborso. A parere della difesa, inoltre, il medesimo giudice dell’appello si sarebbe erroneamente confrontato con la struttura ontologica della nozione di “fattura soggettivamente inesistente”, allorché avrebbe ritenuto integrata tale fattispecie di reato, nonostante l’assenza – asserita sia dal giudice di primo grado che dalla Corte d’appello di Palermo – della connivenza del cessionario rispetto alla condotta di evasione. Né il giudice di secondo grado, nell’assolvere i coimputati, avrebbe colto il fatto che il Tribunale aveva indebitamente frazionato la condotta ascritta all’imputato – in realtà, unica ed infrazionabile – in due diversi segmenti: il primo, relativo alle operazion soggettivamente inesistenti; il secondo, a quelle oggettivamente inesistenti.
Analogamente, la Corte di appello avrebbe omesso di considerare autonomamente – limitandosi, piuttosto, a richiamare per relationem quanto già asserito nel provvedimento impugnato – l’erronea conclusione cui sarebbe pervenuto il giudice di primo grado, concernente l’inesistenza oggettiva delle fatture emessa dalla società RAGIONE_SOCIALE nei confronti della “RAGIONE_SOCIALE“, sul rili della mancanza, in capo alla prima ditta, di quella, seppur minima, organizzazione di mezzi, che appare necessaria all’esercizio dell’attività di impresa edile. Tale conclusione contrasterebbe con la circostanza che i lavori appaltati da “RAGIONE_SOCIALE“, “RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE” fossero s effettivamente realizzati, con l’esistenza di molteplici fatture, emesse dalla predetta società, aventi ad oggetto il noleggio dei necessari corredi di cantiere. Sostiene il ricorrente che la tecnica del richiamo per relationem è stata più volte utilizzata dal giudice di secondo grado, in mancanza della necessaria verifica della congruità della prima motivazione, alla luce dei motivi di impugnazione.
La difesa asserisce anche che, in ordine al reato contestato, è sopraggiunta la prescrizione, laddove si consideri che la condotta ascritta ha decorrenza dal 15 giugno 2011 ed epilogo in data 2 dicembre 2011, anche con la sospensione di 64 giorni, imposta dall’art. 83, comma 4, del d.l. n. 17 del 2020.
2.3. Con un terzo motivo di doglianza, si lamentano la violazione degli artt. 192 e 546, lettera e), cod. proc. pen., 5 del d. Igs. 74 n. 2000, 157 e 161 cod. peri., e della legge n. 148 del 2011 e il connesso vizio motivazionale. Secondo la prospettazione difensiva, la Corte d’appello si sarebbe erroneamente confrontata
con il capo di imputazione 19), senza considerare i motivi di appello e mancando altresì di dichiarare la sopravvenuta prescrizione del reato. La condanna si fonderebbe sulla sola omessa dichiarazione dei redditi, prodotti dalla “RAGIONE_SOCIALE” – società ritenuta, in realtà, amministrata e gestita dall’imputato – per un importo pari a C 92.963,64, senza considerare le testimonianze rese dall’amministratore della ditta “RAGIONE_SOCIALE“, COGNOME NOME, e dal geometra NOME, dipendente della “RAGIONE_SOCIALE“, dalle quali, all’opposto, emergerebbero l’esistenza soggettiva ed oggettiva delle operazioni economiche poste in essere dalla società del RAGIONE_SOCIALE e, conseguentemente, l’esistenza e l’autonomia della medesima. Né il giudice dell’appello e quello di primo grado avrebbero adeguatamente vagliato le soglie di punibilità per il periodo di imposta 2010. Ebbene, nel caso di specie, l’imposta evasa ammonterebbe ad C 87.350,00, e non ad C 92.963,64, come erroneamente contestato. Di talché – essendo la soglia di punibilità di C 77.468,53, e dovendo sussistere il dolo specifico anche su questa, in quanto elemento costitutivo del reato – la società “RAGIONE_SOCIALE” e l’RAGIONE_SOCIALE, avrebbero consapevolmente programmato il superamento della predetta soglia di soli C 10.000,00. Infine, afferma la difesa che, in ordine al reato contestato, commesso 31 dicembre 2011, è sopraggiunta la prescrizione.
2.4. Con una quarta censura, si lamentano la violazione degli artt. 2, secondo comma, 131-bis, 157 e 161 cod. pen., 192 e 546 cod. proc. pen., 5 del d. Igs. n. 74 del 2000 e della legge n. 148 del 2011 e il vizio di motivazione, altresì invocando la sopraggiunta prescrizione del reato sub 20). Più precisamente, il giudice di secondo grado avrebbe disatteso il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole allorché, senza vagliare le doglianze sollevate, ha corroborato l’operato del Tribunale, il quale ha fatto riferimento alla più sfavorevole ed attuale soglia di C 50.000,00, anziché a quella vigente ratione temporis, di C 77.468, 53. Inoltre, sostiene il ricorrente che, anche a volere ammettere l’applicabilità della minore soglia individuata dal primo giudice, non potrebbe ignorarsi la circostanza che detta soglia sia stata superata di soli C 885,57, con conseguente applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen., visto il modesto disvalore penale. A parere del ricorrente, anche in relazione al presente capo di imputazione, del 31 dicembre 2012, sarebbe sopravvenuta la prescrizione.
2.5. Con un quinto motivo di impugnazione, si denunciano la violazione degli artt. 62-bis, 132, 133 cod. pen., 2, comma 36-vicies bis, del d.l. n. 138 del 2011, convertito dalla legge n. 148 del 2011, sul rilievo del diniego delle circostanze attenuanti generiche e dell’eccessiva quantificazione della pena, malgrado l’incensuratezza del ricorrente e nonostante il fatto che la condotta evasiva, nelle contestazioni relative alla violazione dell’art. 5 del d.lgs. 74 n. 2000, superasse, rispettivamente, di soli C 10.000,00 e C 885,57 le soglie di punibilità. Inoltre,
sostiene la difesa che la valutazione della personalità dell’indagato, anche laddove abbia esito negativo, non può comunque giustificare una pena base di anni 3 e mesi 4 di reclusione. In primo luogo, le fatture n. 2 e 8, emesse in favore della “RAGIONE_SOCIALE“, per l’importo complessivo di C 2.560,00, e n. 6 e 8, in favore della “RAGIONE_SOCIALE“, di ammontare pari C 53.808,74, giacché emesse in epoca antecedente al 18 settembre 2011, risulterebbero ontologicamente idonee a supportare una pena avente un minimo edittale di mesi 6, come previsto dall’allora vigente art. 8, terzo comma, del d.lgs. n. 74 del 2000; all’opposto, per le restanti fatture si dovrebbe considerare la sopravvenienza dell’art. 2, comma 36-vicies bis, del d.l. n. 138 del 2011, alla luce della quale, per effetto della regola del favor rei, la pena eventualmente da applicare potrebbe essere contenuta in un anno di reclusione, aumentato di mesi 4 per la continuazione e ridotto, nuovamente, ad un anno, in applicazione delle attenuanti generiche; pena, in ogni caso, da sospendersi, ai sensi dell’art. 12, comma 2-bis, del. d. Igs. n. 74 del 2000, allorché si consideri che l’ammontare dell’imposta evasa non è superiore al 30% del volume d’affari, e comunque superiore a tre milioni di euro.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
1.1. La prima doglianza – riferita alla lamentata inutilizzabilità dei verbali accertamento, nonché al connesso vizio di motivazione – è inammissibile, giacché mancante di qualsivoglia contestazione in ordine alla “prova di resistenza” del residuo materiale probatorio. Infatti, nell’ipotesi in cui, con il ricorso in cassazion si deduca l’inutilizzabilità della prova, il motivo di impugnazione, a pena di inammissibilità per difetto di specificità, deve illustrare l’incidenza della s eventuale eliminazione sul complessivo compendio probatorio (ex plurimis, Sez. 5, n. 31823 del 06/10/2020, Rv. 279829; Sez. 2, n. 30271 del 11/05/2017, Rv. 270303; Sez. 3, n. 3207 del 02/10/2014, dep. 23 gennaio 2015, Rv. 262011). Ebbene, tale principio si attaglia al caso di specie, in cui le doglianze lamentate dal ricorrente, circa l’inutilizzabilità dei verbali di accertamento, attengono a prof probatori la cui rilevanza non è stata compiutamente dedotta, non essendo stato richiamato il complesso del quadro istruttorio; mentre, nell’economia motivazionale del provvedimento impugnato, le molteplici prove dichiarative, corroboranti la circostanza che l’COGNOME sia stato il dominus e l’amministratore di fatto delle ditte individuali formalmente intestate al COGNOME e al COGNOME puntualmente indicate alle pagg. 14 -17 del provvedimento impugnato –
l’acquisizione delle risultanze intercettive, gli accertamenti ispettivi, condot dall’RAGIONE_SOCIALE, nonché la copiosa documentazione, opportunamente acquisita al processo, risultano ampiamente sufficienti a ritenere sussistente la colpevolezza dell’odierno ricorrente.
1.2. Il secondo motivo di ricorso, con cui si deducono la violazione di legge, in ordine all’applicabilità dei presupposti previsti dall’art. 8 del d.lgs. n. 74 2000, ed il relativo vizio motivazionale – altresì invocando la prescrizione del reato – è inammissibile.
In primo luogo, la prospettazione difensiva si esaurisce in mere asserzioni di ordine fattuale, frutto di una rivisitazione, in termini critici, della valutazione materiale probatorio, come tale preclusa al sindacato di questa Corte, in quanto afferente a un giudizio sul merito della prova. Contrariamente a quando dedotto dalla difesa, la valutazione operata dalla Corte di appello nella sentenza impugnata – la cui struttura motivazionale correttamente si salda con il provvedimento precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo, dal momento che le due decisioni di merito concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova, posti a fondamento delle rispettive decisioni – risulta adeguata e coerente perché frutto di un’attenta e puntuale disamina – di cui alle pagg. 1421 della sentenza gravata – degli elementi emersi dalle indagini – e minuziosamente vagliati anche dal giudice di primo grado, alle pagg. 67-74 intangibili alle critiche difensive, giacché ampiamente dimostrativi sia del fatto che l’imputato abbia agito quale dominus ed amministratore di fatto della ditta RAGIONE_SOCIALE, che della fatturazione oggettivamente falsa, intercorsa tra detta ditta individuale e la società “RAGIONE_SOCIALE“. Parimenti dirimenti appaiono, poi, le predette risultanze probatorie nel senso della totale falsità soggettiva ed oggettiva delle fatture, emesse dalla società RAGIONE_SOCIALE a favore delle ditte “RAGIONE_SOCIALE“, “RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE“, non potendosi attribuire alcu rilievo alla circostanza che sia il COGNOME che il COGNOME siano stati assolti mancando l’elemento soggettivo, costitutivo del reato contestato. Secondo il costante orientamento della Corte di cassazione, infatti, in presenza di un articolato compendio probatorio, non è consentito limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata dei singoli elementi, né procedere ad una mera sommatoria di questi ultimi, ma è necessario procedere ad un esame globale degli elementi certi emergenti dalle indagini (ex multis, Sez.1, n. 20461 di 12 aprile 2016, Rv. 266941; Sez. 1, n. 44324 del 18 aprile 2013, Rv. 258321); ciò che, nel caso di specie, è stato correttamente posto in essere dai giudici di merito, conseguentemente pervenuti all’esatta individuazione della proiezione finalistica delle condotte fraudolente – attuate per più anni e attraverso vari prestanomi poste in essere dall’imputato. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Deve rilevarsi, infine, che il reato non era prescritto al momento della pronuncia di appello, onde l’impossibilità di dichiararne la conseguente estinzione. Invero, il termine prescrizionale per il reato di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 74 2000 corrisponde alla soglia minima – pari a 6 anni – posta dalla legge, aumentata di un terzo, ai sensi dell’art. 17, secondo comma, del d. Igs. n. 74 del 2000, ed innalzata, ulteriormente, di un quarto, ai sensi dell’art. 161, secondo comma, cod. pen., per un totale di 10 anni. Ebbene, ai sensi dell’art. 8, secondo comma, del predetto decreto, ed in conformità con la giurisprudenza di legittimità (ex multis, Sez. 3, n. 47459 del 05/07/2018, Rv. 274865; Sez. 3, n. 6264 del 14/01/2010, Rv. 246193) – secondo cui il delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti si perfeziona, ove si abbiano plurimi episodi nel corso del medesimo periodo di imposta, nel momento di emissione dell’ultima fattura – nel caso di specie, il momento consumativo va individuato in data 2 dicembre 2011; con la conseguenza che il termine prescrizionale – dovendosi applicare ulteriori complessivi 456 giorni di sospensione, come risultanti dai computi operati dai giudici di primo e secondo grado, non contestati dal ricorrente – deve considerarsi maturato in data 3 marzo 2023, ovvero successivamente alla sentenza impugnata, e pertanto precluso al sindacato della Corte di cassazione. Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, l’inammissibilità del ricorso esclude il ril dell’eventuale prescrizione verificatasi successivamente alla sentenza di secondo grado, giacché detta inammissibilità impedisce la costituzione di un valido rapporto processuale di impugnazione innanzi al giudice di legittimità e preclude l’apprezzamento di un’eventuale causa di estinzione del reato intervenuta successivamente alla decisione impugnata (ex plurimis, Sez. U, n. 6903 del 27 maggio 2016, dep. 2017, Rv. 268966; Sez. 3, n. 20899 del 25 gennaio 2017, Rv. 270130; Sez. 3, n. 26807 del 16 marzo 2023, Rv. 284783). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
1.3. La terza censura, relativa alla violazione degli artt. 192 e 546, lettera e), cod. proc. pen., 5 del d. Igs. 74 n. 2000, 157 e 161 cod. pen., e della legge n. 14C. del 2011, nonché al connesso vizio motivazionale e alla mancata estinzione dei reato sub 19 per intervenuta prescrizione, è inammissibile. Il ricorrente propone una rivisitazione, sul piano del merito, circa la reale esistenza e l’autonomia della ditta RAGIONE_SOCIALE (su cui vi è ampia motivazione alle pagg. 1417 della sentenza), senza la compiuta prospettazione di argomenti idonei a scardinare su un piano logico la conforme valutazione dei giudici di primo e secondo grado. In particolare, la sentenza impugnata risulta coerentemente argomentata nella parte in cui valorizza le testimonianze di COGNOME, COGNOME, COGNOME, COGNOME, COGNOME, nonché le attività di intercettazione, da cui emerge con chiarezza che COGNOME, COGNOME e COGNOME erano soggetti in condizioni di bisogno scelti
come prestanome e del tutto privi di capacità decisionale e di rapporti effettivi con formali dipendenti e clienti.
Inoltre, la prospettazione difensiva si confronta erroneamente con le norme che si assumono violate, allorché ritiene che la soglia di punibilità fosse pari a C 77.468,53, omettendo di considerare che, in realtà, all’originaria previsione che stabiliva una soglia di punibilità di C 77.468,53, era già subentrata, ai sensi del d.l. n. 138 del 2011, poi convertito dalla legge n. 148 del 2011, una soglia di C 30.000,00, poi, ulteriormente, innalzata, per effetto della riforma introdotta dal d.lgs. n. 158 del 2015, ad C 50.000,00.
Né può dichiararsi, infine, l’estinzione del reato per avvenuta prescrizione. Il termine di prescrizione, complessivamente previsto per il reato di cui all’art. 5 del d. Igs. n. 74 del 2000, infatti, corrisponde alla soglia minima – pari a 6 anni posta dalla legge, aumentata di un terzo, ai sensi dell’art. 17, secondo comma, del d. Igs. n. 74 del 2000, ed innalzata, ulteriormente, di un quarto, ai sensi dell’art. 161, secondo comma, cod. pen., per un totale di 10 anni. Ebbene, ai sensi dell’art. 5, secondo comma, del predetto decreto, ed in perfetta conformità con la giurisprudenza di legittimità, il reato di omessa dichiarazione si consuma il novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto per la presentazione della dichiarazione, il quale, per l’anno di imposta 2010, corrispondeva al 30 dicembre 2011; di talché il termine prescrizionale – dovendosi applicare ulteriori complessivi 456 giorni di sospensione – è maturato in data 31 marzo 2023, ovvero successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata; con la conseguenza che la Corte di cassazione non può prenderlo in considerazione, come già precisato sub 1.2.
1.4. Il quarto motivo di impugnazione – con il quale ci si duole: dell’errata applicazione del principio di irretroattività della norma penale sfavorevole, in ordine all’individuazione delle soglie di punibilità del reato di cui all’art. 5 del Igs. n. 74 del 2000 (capo 20); dell’erroneo disconoscimento dei presupposti di applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen.; del relativo vizio di motivazione; dell mancata dichiarazione della sopraggiunta prescrizione – è manifestamente infondato.
Contrariamente a quanto dedotto dalla difesa, la motivazione della Corte di appello, in ordine all’individuazione delle soglie a cui parametrare la punibilità del reato di cui all’art. 5 del d. Igs. n. 74 del 2000 – di cui a pag. 22 del provvedimento impugnato – appare corretta: all’originaria previsione che stabiliva una soglia di punibilità di C 77.468,53, è subentrata, ai sensi del d. I. n. 138 del 2011, poi convertito dalla legge n. 148 del 2011, una soglia di C 30.000,00, poi, ulteriormente, innalzata, per effetto della riforma introdotta dal d. Igs. n. 158 de 2015, ad C 50.000,00. Ebbene – come già visto – al momento della commissione
dei fatti di reato, la soglia, certamente più sfavorevole per l’imputato, era di C 30.000,00. In perfetta conformità all’art. 2 cod. pen., pertanto, la Corte di appello ha preso in considerazione il valore minimo di C 50.000,00, introdotto da una legge che, ancorché cronologicamente successiva alla consumazione della condotta delittuosa, è più favorevole; né, all’opposto, potrebbe, in alcun modo, ritenersi applicabile la soglia – nonostante ciò, richiesta dal ricorrente – di C 77.468,53, tacitamente abrogata, già al momento della commissione dei fatti. Allo stesso modo, la prospettazione della difesa non si confronta con la motivazione del provvedimento impugnato, nella parte in cui – a pag. 21 – indica, espressamente, i molteplici elementi posti a fondamento della mancata configurabilità, nel caso di specie, della particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen.
Né, infine, può ritenersi sopraggiunta la prescrizione. Valgono sul punto le considerazioni svolte, limitatamente al calcolo del termine prescrizionale, sub 1.4., con la differenza che, per l’anno di imposta 2011, il reato si è consumato in data 30 dicembre 2012; di talché il termine prescrizionale – dovendosi, parimenti, applicare ulteriori complessivi 456 giorni di sospensione – potrà considerarsi maturato soltanto in data 31 marzo 2024.
1.5 L’ultima doglianza – concernente la violazione delle norme in materia di attenuanti generiche e di determinazione della pena – è parimenti inammissibile.
Le asserzioni della difesa risultano meramente valutative, giacché dirette ad ottenere una diversa analisi di circostanze già puntualmente considerate dal giudice di secondo grado. Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62-bis, disposta con il d.l. n. 92 del 23 maggio 2008, convertito, con modificazioni, nella legge n. 125 del 24 luglio 2008, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato (ex multis, Sez. 4, n. 32872 del 08/06/2022, Rv. 283489; Sez. 1, n. 39566 del 16 febbraio 2017, Rv. 270986). Conformemente a ciò, la Corte di appello, alla pag. 23 della sentenza gravata, ha dato debitamente conto dell’assenza di elementi di valore, ulteriori rispetto alla sola mancanza di precedenti penali, utilmente apprezzabili ai fini dell’applicazione delle attenuanti generiche, rilevando, sul punto: le finalità fraudolente dell’operato del ricorrente, comportante il coinvolgimento di più soggetti; il particolare disvalore dei fatti; l’assenza di qualsivoglia sintomo effetti di resipiscenza; la protrazione della condotta fraudolenta; la reiterata indisponibilità dell’COGNOME ad estinguere le pendenze con l’erario; la costante ricerca – ben desumibile dalle risultanze degli atti di indagine – di nuovi prestatori utili alla perpetrazione della condotta illecita. Contrariamente a quanto dedotto
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dalla difesa e a prescindere dall’arbitrarietà del computo della pena da questa proposto, va rilevato che, trattandosi di reato unitario ai sensi dell’art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 74 del 2000, perfezionatosi in data 2 dicembre 2011, non poteva considerarsi vigente, all’epoca, l’originaria formulazione dell’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 74 del 2000, abrogata, a decorrere dal 18 settembre 2011, dalla citata legge n. 148 del 2011.
Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della 00,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 11/01/2024