Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 18456 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 18456 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 26/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOMECOGNOME nato a Lecco il 22/3/1958
avverso la sentenza del 15/4/2024 della Corte di appello di Milano; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; sentita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiarare inammissibile il ricorso;
lette le conclusioni del difensore del ricorrente, Avv. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso e dei motivi aggiunti, anche con memoria
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 15/4/2024, la Corte di appello di Milano confermava la pronuncia emessa il 13/6/2023 dal Tribunale di Lecco, con la quale NOME COGNOME era stato giudicato colpevole del delitto di cui agli artt. 81 cpv. cod. pen., 2, d. Ig 10 marzo 2000, n. 74, e condannato alla pena di due anni di reclusione.
Propone ricorso per cassazione il COGNOME deducendo i seguenti motivi:
– manifesta illogicità della motivazione; violazione dell’art. 192 cod. proc. pen. Con riguardo ai periodi di imposta 2013 e 2014 (fatture emesse dalla RAGIONE_SOCIALE), la Corte di appello avrebbe confermato la condanna in forza di alcuni elementi indiziari (riportati alle pagg. 6-7) e riscontrando un dato rapporto tra i ricorrente – titolare dell’RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE – e tale NOME COGNOME, ritenuto vero dominus occulto dell’emittente RAGIONE_SOCIALE; in tal modo, tuttavia, la sentenza non avrebbe valutato la ricostruzione alternativa offerta dalla difesa, con la quale sarebbe stata evidenziata l’irrilevanza di uno degli indizi (l’emissione di documenti di trasporto con medesima data della fattura) e la mancata conoscenza di altri da parte del ricorrente (come l’inesistenza soggettiva dell’emittente). La sentenza, ancora, avrebbe valutato le dichiarazioni del teste COGNOME in modo parcellizzato, per un verso utilizzandole contro il ricorrente, per altro verso non considerandole nella parte relativa a NOME COGNOME ossia a colui che – in ottica difensiva – sarebbe stato l’interlocutore del ricorrente nei rapporti con RAGIONE_SOCIALE. Venendo meno la tesi del COGNOME come dominus esclusivo dell’emittente, inoltre, verrebbe meno anche l’inverosimiglianza delle parole del COGNOME quanto ai pagamenti parziali in contanti e, dunque, alla parziale inesistenza oggettiva delle operazioni; d’altronde, il pagamento a mezzo bonifico delle fatture da parte di RAGIONE_SOCIALE, all’epoca amministrata dal COGNOME, si fonderebbe soltanto sulle parole di questo, senza riscontri oggettivi. Ancora con riguardo agli anni 2013/2014, la Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto non provata la destinazione delle somme prelevate in contanti, nonostante la documentazione prodotta; questa, peraltro, sarebbe stata addirittura ritenuta artatamente predisposta, senza considerare che all’epoca (circa 10 anni fa) il pagamento in contanti sarebbe stata pratica commerciale ancora molto diffusa. Il lasso di tempo trascorso, inoltre, renderebbe non inverosimile l’omessa conservazione dei fogli sui quali sarebbero stati annotati i versamenti, anche alla luce delle dichiarazioni prodotte su carta intestata RAGIONE_SOCIALE. La motivazione, ancora, risulterebbe illogica quanto alla costituzione del fondo cassa aziendale, così come alla mancata valutazione della vendita a RAGIONE_SOCIALE – eseguita dalla società del ricorrente dei medesimi quantitativi di merci con gli stessi codici di quelle indicate nelle fatture di acquisto da RAGIONE_SOCIALE, di poco tempo precedenti. Anche sul punto, dunque, la ricostruzione alternativa compiuta dalla difesa sarebbe stata rigettata con argomento viziato. Con riguardo, poi, all’anno di imposta 2015, e alla triangolazione RAGIONE_SOCIALE, la sentenza sarebbe da censurare ancora perché fondata su argomenti illogici (come quello relativo all’oggetto sociale dell’ultima); ribadito quanto precede in ordine ai rapporti tra i ricorrente e Tedesi, si contesta ancora la mancata valutazione della ricostruzione alternativa offerta, basata sul presupposto che il COGNOME, dopo aver riscontrato Corte di Cassazione – copia non ufficiale
alcuni difetti di produzione nella merce nella seconda metà del 2014, avrebbe accettato da COGNOME (dunque, RAGIONE_SOCIALE) la proposta di intermediazione di un terzo operatore commerciale (RAGIONE_SOCIALE), che avrebbe dovuto verificare le merci prima di consegnarle alla società del ricorrente. Questi, peraltro, non sarebbe stato interessato a conoscere le competenze tecniche della RAGIONE_SOCIALE, né i rapporti tra questa e RAGIONE_SOCIALE, né l’eventuale “assenza di logica economica” dell’operazione per la stessa RAGIONE_SOCIALE. Infine sul punto, il ricorso evidenzia che la società del ricorrente avrebbe contestato a quest’ultima vizi e difetti della merce, a conferma della mancanza di accordi illeciti; la motivazione della sentenza al riguardo, pertanto, risulterebbe illogica;
alle stesse conclusioni, poi, si dovrebbe pervenire quanto al requisito del dolo specifico. La Corte avrebbe riconosciuto il profilo psicologico del reato in forza della sola condotta contestata, senza riscontrare, dunque, il necessario quid pluris che distingue il dolo specifico da quello generico. Ancora, la motivazione sarebbe viziata con riguardo alla presunta creazione di documentazione artefatta, che mancherebbe di ogni prova e risulterebbe contraddetta da quanto prodotto; qualora espressione di un disegno criminoso, infatti, i prelievi dai conti correnti avrebbero “esattamente coperto” quanto riportato nelle dichiarazioni RAGIONE_SOCIALE circa i pagamenti in contanti ricevuti, ed in questi sarebbe stata artatamente inserita anche la data, agevolmente falsificabile. La contestazione dei vizi della merce a Kosmotek, inoltre, non si spiegherebbe in un accordo illecito, così come in senso contrario al dolo specifico andrebbe la circostanza che su moltissimi dei prelievi risulterebbe già specificata la fattura a cui l’operazione si riferisce (dal ch una documentazione non posticcia o predisposta ad arte);
erronea applicazione dell’art. 62-bis cod. pen. La motivazione della sentenza sul punto contrasterebbe con la giurisprudenza consolidata di questa Corte;
manifesta illogicità della motivazione quanto alle pene irrogate. La Corte di appello non avrebbe valutato nessuno degli elementi indicati nell’art. 133 cod. pen., al pari dell’incensuratezza, né avrebbe esaminato la copiosa documentazione allegata dal ricorrente, che ne attesterebbe lo spirito collaborativo. Analogamente si conclude quanto alle pene accessorie di cui all’art. 12, d. Igs. n. 74 del 2000.
Con motivi nuovi del 29/1/2025, la difesa ha eccepito l’intervenuta prescrizione – maturata il 30/9/2024 – delle condotte relative all’anno di imposta 2013.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso risulta manifestamente infondato.
Con riguardo al primo, ampio motivo, in punto di responsabilità, la censura concerne, per un verso, l’illogicità che reggerebbe la motivazione impugnata, e, per altro (e prevalente) verso, la mancata o l’errata valutazione – da parte della Corte di appello – della ricostruzione alternativa offerta dalla difesa, che ben avrebbe contrastato ogni argomento a fondamento della condanna. Ebbene, se il primo profilo non trova alcuna conferma nella decisione di appello, che anzi è sostenuta – come la pronuncia del Tribunale – da una motivazione estremamente solida e logica, dunque incensurabile, il secondo appare del tutto inammissibile: attraverso la stessa doglianza, infatti, il ricorso tende ad ottenere una nuova ed alternativa lettura dei medesimi elementi di merito già diffusamente analizzati in sede di cognizione, che si vorrebbe più plausibile rispetto a quella offerta dalla Corte di appello ma che, come tale, non è proponibile di fronte al Giudice di legittimità.
4.1. Compito della Corte di cassazione, invero, non è verificare l’astratta plausibilità dell’accertamento di merito compiuto nella sentenza impugnata, né “bilanciare” questo accertamento con la differente interpretazione del materiale istruttorio proposta dal ricorrente, ma verificare se la stessa decisione sia sostenuta da una motivazione adeguata, che non risulti viziata nei termini della mancanza, della contraddittorietà o della manifesta illogicità.
4.2. Le tesi alternative proposte con riguardo ai numerosi elementi di responsabilità, inoltre, sono state diffusamente analizzate nella pronuncia di appello, che – in doppia conforme con la decisione del Tribunale – le ha ritenute del tutto soccombenti rispetto all’interpretazione poi accolta, sviluppando sul punto ancora una motivazione assai coerente con le prove acquisite, priva di vizi e fondata su una lettura delle stesse risultanze del tutto adeguata.
In particolare, la sentenza ha analizzato per primi gli anni di imposta 2013 e 2014, affermando che la RAGIONE_SOCIALE – che aveva emesso le fatture poi portate in dichiarazione dalla RAGIONE_SOCIALE – era soltanto una “cartiera” non operativa, come da univoci indici riportati alle pagg. 11-12; questi indici, peraltro, non costituiscon oggetto di ricorso, che agli stessi non dedica alcun passaggio.
Di seguito, sono stati evidenziati:
l’anomala compilazione delle fatture e dei documenti di trasporto, questi ultimi relativi ad ognuna delle 74 fatture in esame, in contrasto con l’ordinaria prassi che prevede la circolazione dei prodotti con le une o con gli altri;
il pagamento delle stesse fatture, che il ricorrente sosteneva aver eseguito in parte con bonifici ed in parte per contanti. Questa seconda tipologia, oltre a risultare anomala per i rilevanti importi interessati (160mila euro per il solo 2013), non aveva trovato alcun riscontro documentale, in quanto lo stesso COGNOME aveva dichiarato di non essersi mai fatto rilasciare quietanze o dichiarazioni di avvenuta
consegna delle somme; il ricorrente, infatti, si sarebbe limitato ad annotare i pagamenti su “fogli volanti”, che però avrebbe gettato quando l’emittente gli avrebbe inviato presunte attestazioni riepilogative. Con riguardo ancora a tale profilo, la Corte di appello ha poi evidenziato – con argomento di certo privo di illogicità manifesta – che risultava del tutto improbabile che un imprenditore (come il ricorrente) avesse eseguito consistenti pagamenti in contanti senza farsi rilasciare un’adeguata attestazione documentale, per di più da un fornitore con cui i rapporti commerciali erano appena iniziati, come dichiarato dallo stesso COGNOME. In senso contrario, peraltro, la sentenza ha evidenziato che nessun rilievo potevano avere i menzionati appunti riepilogativi, che il ricorrente avrebbe redatto quanto ai rapporti con RAGIONE_SOCIALE, in quanto un efficace riscontro al pagamento avrebbe dovuto per certo provenire da quest’ultima, ossia dalla società apparente fornitrice dei prodotti;
la documentazione depositata in atti dall’emittente RAGIONE_SOCIALE, risultata gravemente carente e priva di ogni minimo requisito di autenticità ed affidabilità. In particolare, i vari documenti riportavano in calce la sola sigla digitale “FRAGIONE_SOCIALE (NOME COGNOME, legale rappresentante della società, risultato mero prestanome), senza alcuna sottoscrizione autografa, data di relazione, di rilascio e di consegna. Anche l’oggetto risultava indicato in modo generico, oltre a richiamare – in termini davvero non usuali – l’avvenuto pagamento delle fatture in parte con bonifici, in parte con contanti.
Con riguardo, poi, alle versioni alternative proposte dalla difesa, la sentenza ha più che congruamente sostenuto che:
l’annotazione del numero della fattura emessa da RAGIONE_SOCIALE, indicata dal ricorrente nella causale di alcuni prelievi, non rivestiva alcun carattere decisivo, mancando ogni prova circa l’effettiva destinazione delle somme prelevate al pagamento delle stesse fatture;
anche aderendo alla tesi del pagamento in contanti di una parte dell’importo contenuto nelle 74 fatture, queste somme – aggiunte a quelle versate con bonifico – non consentivano di raggiungere l’ammontare complessivo riportato negli stessi documenti, e la differenza non poteva essere colmata dal riferimento, emerso dalle sole parole del COGNOME, ad una presunta cassa aziendale. In senso contrario al pagamento in contanti, peraltro, sono state valorizzate anche le dichiarazioni del teste COGNOME, legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, il quale aveva riferito di aver pagato le forniture di RAGIONE_SOCIALE sempre a mezzo di bonifici;
l’affermazione del ricorrente secondo cui, trattando con RAGIONE_SOCIALE, lo stesso avrebbe avuto contatti soltanto con tale NOME COGNOME e non con il soggetto emerso come vero dominus dell’emittente, NOME COGNOME, non aveva trovato riscontri. In disparte, perché del tutto generico, il riferimento al nominativo
COGNOME che il COGNOME aveva fatto per averlo “forse” sentito dal COGNOME, la Corte di appello ha sottolineato che l’effettiva gestione di RAGIONE_SOCIALE da parte di quest’ultimo era stata confermata dal fatto che tutte le somme accreditate sul conto corrente della società erano state poi “dirottate” verso lo stesso COGNOME e suoi stretti familiari. Ancora il COGNOME, peraltro, era risultato soggetto tutt’altro sconosciuto al ricorrente, che – nella qualità contestata – aveva avuto in precedenza rapporti commerciali con la “RAGIONE_SOCIALE“, di cui proprio il COGNOME era legale rappresentante. La tesi difensiva, infine, era risultata smentita da un ulteriore elemento in fatto, che il ricorso neppure menziona: il ricorrente non era stato in grado di indicare alcun riferimento del COGNOME (numero telefonico, utenze varie), pur indicandolo come colui con cui, per anni, avrebbe interloquito per forniture da centinaia di migliaia di euro;
nessun decisivo rilievo contrario aveva la documentazione – prodotta dalla RAGIONE_SOCIALE – relativa alla rivendita a RAGIONE_SOCIALE di beni con medesimo codice e quantità di quelli acquistati da RAGIONE_SOCIALE. Nessun elemento, infatti, confermava l’identità dei prodotti (asseritamente) comprati con quelli venduti, né il versamento del relativo prezzo all’emittente.
Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, prive di vizi logici di sorta e sostenute da rigorosa aderenza alle risultanze processuali, la Corte di appello ha quindi concluso che le fatture emesse da RAGIONE_SOCIALE nel 2013 e 2014, portate in dichiarazione dalla RAGIONE_SOCIALE, si riferivano per certo ad operazioni soggettivamente inesistenti (in quanto l’emittente non disponeva di alcuna struttura idonea ad eseguire le relative forniture), oltre che oggettivamente inesistenti quanto a quelle relative ai pagamenti asseritamente effettuati dal ricorrente in contanti.
In ordine, poi, alle fatture dell’esercizio 2015, relative alla cosiddetta triangolazione RAGIONE_SOCIALE/RAGIONE_SOCIALE, la sentenza risulta ancora immune da vizi.
9.1. Sono state richiamate, in primo luogo, le dichiarazioni del legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, COGNOME, che aveva riferito che COGNOME gli aveva chiesto di “frapporsi” in forniture eseguite da RAGIONE_SOCIALE verso la società del ricorrente, “per una questione fiscale e commerciale”; per questa intermediazione, solo apparente, il COGNOME non era stato neppure pagato per quanto pattuito con COGNOME. A conferma della fittizietà dell’interposizione, la sentenza ha poi sottolineato che RAGIONE_SOCIALE non avrebbe avuto le competenze necessarie per svolgere quanto il ricorrente sosteneva (ossia un controllo dei prodotti provenienti da RAGIONE_SOCIALE), svolgendo un’attività del tutto diversa (progettazione e ingegneria integrata, non già commercio di beni per conto terzi); questa evidente distonia, peraltro, non risultava superata dalle contestazioni che la società del ricorrente
avrebbe mosso alla RAGIONE_SOCIALE per vizi dei prodotti (come già, in precedenza, alla RAGIONE_SOCIALE), in quanto – pur in un contesto di triangolazione illecita – la RAGIONE_SOCIALE aveva comunque interesse ad acquistare prodotti non difettosi.
Il primo motivo di ricorso, pertanto, risulta manifestamente infondato.
Alle stesse conclusioni, poi, la Corte giunge quanto al secondo, in punto di dolo specifico.
11.1 Contrariamente alla tesi del ricorso, la sentenza di appello non ha identificato tale requisito soggettivo con la condotta contestata, senza individuare alcun quid pluris, ma ha letto la condotta medesima alla luce delle sue modalità e della sua sistematicità, oltre che della creazione di una artefatta realtà documentale: un complessivo insieme di elementi, dunque, da esaminare in modo congiunto, che poteva giustificarsi esclusivamente nell’ottica evasiva di cui all’art. 2, d. Igs. n. 74 del 2000, con piena consapevolezza e volontà di perseguire questo fine illecito.
Il ricorso, ancora, risulta manifestamente infondato quanto al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
12.1. Pronunciandosi sul punto, infatti, la Corte di appello non si è limitata a richiamare la protesta di innocenza del COGNOME, ma ha sottolineato la non modesta gravità dei fatti, così rilevando “l’architettura di una frode fiscale ben congegnata”; ancora, è stata evidenziata l’assenza di ogni elemento utile nell’ottica delle stesse attenuanti, così come di ogni condotta riparatoria o segno di resipiscenza o, quantomeno, di rielaborazione. Ebbene, nessuno di questi elementi costituisce espresso argomento di ricorso.
Infine, l’impugnazione risulta del tutto infondata anche quanto all’ultimo motivo, relativo all’entità delle pene.
13.1. Entrambe le sentenze, infatti, hanno richiamato la gravità delle condotte, la rilevanza degli importi e dell’IVA portata in detrazione. Ancora, sono state evidenziate le modalità dell’agire illecito, espressione di una attivit fraudolenta per nulla rudimentale, anche attraverso la creazione di documentazione ad hoc e di “strategici prelievi in contanti apparentemente riconducibili a pagamenti in realtà mai effettuati”. La misura delle pene, peraltro assai più prossime ai minimi che ai medi edittali allora vigenti, risulta, pertanto, adeguatamente motivata.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente irrilevanza di eventuali prescrizioni maturate successivamente alla pronuncia di appello. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima
consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spes procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa
delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento del spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa de
ammende.
Così deciso in Roma, il 26 febbraio 2025
NOME
igliere estensore
Il Presidente