Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 23377 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 23377 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 30/01/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOME, nata a Napoli il DATA_NASCITA, avverso la sentenza del 14-03-2023 della Corte di appello di Brescia; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso per l’inammissibilità o per il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 14 marzo 2023, la Corte di appello di Brescia, per quanto in questa sede rileva, confermava la decisione resa il 1° luglio 2022 dal Tribunale di Bergamo, con la quale NOME COGNOME era stata condannata alla pena di anni 2 e mesi 3 di reclusione, perché ritenuta colpevole di tre distinte imputazioni (capi F, G e H), aventi ad oggetto il reato di cui all’art. 8 del d. Igs n. 74 del 2000; fatti commessi in Savona (capi F e G) e in Roma (capo H), in epoca compresa tra il 5 aprile 2016 e il 19 dicembre 2017.
Avverso la sentenza della Corte di appello lombarda, la COGNOME, tramite il suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando due motivi.
Con il primo, la difesa contesta, sotto il duplice profilo dell’inosservanza della legge penale e del vizio di motivazione, la conferma del giudizio di colpevolezza dell’imputata, osservando che la COGNOME ha censurato in primo e in secondo grado gli accertamenti della polizia tributaria compiuti sulle società e su di lei, in quanto meramente induttivi e presuntivi e dunque non sufficienti a poter delineare la responsabilità a suo carico, non essendo state accertate circostanze volte a comprovare il suo reale coinvolgimento nei fatti di causa.
In particolare, si evidenzia che l’imputata ha indicato il vero amministratore di fatto della ditta RAGIONE_SOCIALE agli inquirenti, i quali tuttavia non hanno operato alcun accertamento sul punto, avendo altresì la COGNOME rivendicato la sua assoluta estraneità alla gestione della ditta, tanto è vero che non possedeva alcun documento contabile, in realtà nelle mani dell’ex compagno, con cui ella non aveva più alcun contatto. Del resto, come riconosciuto dal teste COGNOME, la COGNOME era soggetto che, per età e formazione, non sarebbe stata in grado di gestire la ditta RAGIONE_SOCIALE, impresa da cui non ha ricavato alcun profitto, né tantomeno la ricorrente ha tratto vantaggio dall’emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti in favore della RAGIONE_SOCIALE, a ciò aggiungendosi che NOME non conosceva la COGNOME, così come alcun contatto è stato documentalmente accertato tra costei e il broker indicato da COGNOME.
Con il secondo motivo, oggetto di doglianza, sotto il duplice profilo del vizio di motivazione e dell’inosservanza della legge penale, è il trattamento sanzionatorio, dolendosi la difesa sia del discostamento della pena dal minimo edittale, sia del diniego delle attenuanti generiche, che ben potevano essere riconosciute in ragione del corretto comportamento processuale dell’imputata e della risalenza nel tempo dei suoi precedenti penali, peraltro non specifici.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato.
1. Iniziando dal primo motivo, occorre rilevare che l’affermazione della penale responsabilità dell’imputata in ordine al reato di cui all’art. 8 del d. Igs. n. 74 de 2000 a lui ascritto non presenta vizi di legittimità rilevabili in questa sede.
Premesso che non è in discussione la materialità dei fatti di causa, occorre evidenziare che, anche rispetto all’unico tema controverso, ossia la riconducibilità delle condotte illecite alla ricorrente, non si ravvisa alcuna criticit Occorre evidenziare in proposito che le due conformi sentenze di merito, le cui motivazioni sono destinate a integrarsi per formare un apparato argomentativo unitario, hanno compiuto un’adeguata disamina delle prove raccolte, valorizzando in particolare gli esiti della verifica fiscale svolta rispetto all’ann 2016 nei confronti della ditta RAGIONE_SOCIALE, che si occupava di commercio all’ingrosso di parti e accessori di autoveicoli. L’impresa veniva qualificata come una “cartiera”, in base a una serie di convergenti elementi fattuali: in primo luogo, sebbene costituita nel novembre 2015, la ditta aveva sin da subito realizzato volumi di affari milionari, ma senza mai aver effettuato acquisti di merce che giustificassero tali guadagni. Inoltre, pur risultando bonifici diretti verso paesi comunitari, la ditta non aveva mai presentato i cd. modelliintra relativi agli acquisti e alle vendite intracomunitari. L’impresa aveva domicilio fiscale a Savona, mentre il luogo di esercizio dichiarato era in Savigliano, in provincia di Cuneo, e coincideva con una vecchia residenza della COGNOME, dove, tuttavia, tramite sopralluoghi, si accertava l’assenza di depositi idonei allo stoccaggio di pneumatici, rinvenendosi solo un’abitazione privata.
Ancora, dalle lettere di vettura internazionale (i cd. C.M.R.) che accompagnavano le fatture in contestazione, si accertava che gli pneumatici, formalmente venduti dalla “RAGIONE_SOCIALE“, venivano spediti da una società estera, la RAGIONE_SOCIALE, direttamente presso il magazzino della “RAGIONE_SOCIALE” di Cene (BG), indicato come luogo di consegna della merce, ciò a ulteriore riprova del fatto che la ditta di cui la RAGIONE_SOCIALE era legale rappresentante di fatto non era operativa, non essendo del resto intestataria di mezzi e non avendo alcun dipendente.
Ciò posto, i giudici di merito hanno rimarcato la circostanza che la COGNOME, soggetto già condannato per reati in materia di stupefacenti e di ricettazione, si occupava di tutt’altro, avendo percepito redditi dall’RAGIONE_SOCIALE e da alcuni condomini romani, per cui, in assenza di prove di segno contrario, è stato ritenuto configurabile in capo alla stessa l’elemento soggettivo del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, avendo la ricorrente certamente contezza sia della natura di cartiera della propria azienda, sia della fittizietà delle operazioni.
Nel confrontarsi con le censure difensive concernenti l’inconsapevolezza della COGNOME della falsità delle fatture e la sua presunta estraneità alla gestione aziendale, la Corte territoriale ha poi evidenziato che la difesa ha acconsentito all’acquisizione del processo verbale di constatazione, ma non all’utilizzabilità del
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suo contenuto in relazione alle dichiarazioni in esso contenute, ivi comprese le dichiarazioni dell’imputata in ordine al coinvolgimento di tale NOME COGNOME, su cui si fonda la tesi difensiva volta a escludere il dolo della COGNOMECOGNOME Ma, pur a volerle ritenere utilizzabili, quelle dell’imputata sono risultate dichiarazioni de tutto vaghe, tanto è vero che l’imputata non è stata neppure in grado di indicare la data di nascita del suo asserito compagno, né il suo attuale domicilio.
La genericità delle dichiarazioni non avrebbe dunque potuto portare alcun serio sviluppo delle indagini, fermo restando che in appello non è stata sollecitata la rinnovazione dell’istruttoria al fine di approfondire la tematica in questione, per cui, in assenza di adeguate prova circa la sua reale e stabile estromissione dalla carica aziendale, ragionevolmente la responsabilità penale della COGNOME in ordine al reato ex art. 8 del d. Igs. n. 74 del 2000 è stata ancorata alla sua veste di legale rappresentante della ditta emittente le fatture per operazioni inesistenti.
1.1. In definitiva, il percorso argomentativo delle sentenze di merito, in quanto razionalmente ancorato alle acquisizioni probatorie disponibili, non presta il fianco alle censure difensive, che, senza confrontarsi con le pertinenti considerazioni della Corte territoriale in punto di carenza di conforto probatorio alla tesi difensiva circa l’eterodirezione dell’azienda, sollecitano different valutazioni di merito non consentite in sede di legittimità, dovendosi ribadire (cfr. Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, Rv. 280601) che, in tema di giudizio di cassazione, a fronte di un apparato argomentativo privo di profili di irrazionalità, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito.
Di qui la manifesta infondatezza delle doglianze in punto di responsabilità.
Parimenti immune da censure è infine la parte della sentenza impugnata dedicata al trattamento sanzionatorio.
La Corte di appello, infatti, ha rimarcato (pag. 45 della sentenza impugnata), in senso ostativo al riconoscimento delle attenuanti generiche, l’assenza di elementi suscettibili di positivo apprezzamento, stante la mancanza da parte dell’imputata di segni di resipiscenza, ritenendo pertanto congrua la pena (anni 3 e mesi 3 di reclusione) irrogata dal primo giudice, in ragione sia della gravità della condotta posta in essere dalla COGNOME e del conseguente grave danno per l’Erario, sia della pluralità dei precedenti penali annoverati dalla ricorrente.
In presenza di un apparato argonnentativo non manifestamente illogico, non vi è dunque spazio per l’accoglimento delle obiezioni difensive, che invero sollecitano differenti apprezzamenti di merito non consentiti in questa sede, restando solo da ribadire che, come chiarito più volte da questa Corte (cfr. Sez. 2, n. 28388
del 21/04/2017, Rv. 270339 e Sez. 2, n. 2889 del 27/02/1997, Rv. 207560), la condotta processuale dell’imputato che mantenga un atteggiamento “non collaborativo” può giustificare il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e incidere sulle valutazioni richieste dall’art. 133 cod. pen.
In conclusione, stante la manifesta infondatezza delle doglianze sollevate, il ricorso proposto nell’interesse della COGNOME deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per la ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che la ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 30/01/2024