Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 37930 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 37930 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 15/07/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME, nato in Cina il DATA_NASCITA, avverso la sentenza del 17-10-2023 della Corte di appello di Milano; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 17 ottobre 2023, la Corte di appello di Milano confermava la decisione del 17 febbraio 2022, con la quale il G.U.P. del Tribunale di Milano, per quanto in questa sede rileva, aveva condannato COGNOME alla pena di anni 2 e mesi 8 di reclusione, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui agli art. 81 cod. pen. e 2 del d. lgs. n. 74 del 2000, a lui contestato perché, quale legale rappresentante della società “RAGIONE_SOCIALE” con sede legale in Milano e sede di esercizio in Verbania, al fine di evadere le imposte sul valore aggiunto, indicava nelle dichiarazioni Iva relative agli anni di imposta 2015, 2016, 2017 e 2018 elementi passivi fittizi, avvalendosi di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti per un imponibile complessivamente pari a 2.279.670,60 euro e un’iva pari a 501.527,52 euro, fatture emesse da diversi fornitori di nazionalità cinese nei predetti anni di imposta.
Veniva parimenti confermata la statuizione con cui era stata disposta la confisca della somma di euro 501.527,52 corrispondente al profitto del reato.
Avverso la sentenza della Corte di appello meneghina, COGNOME, tramite il suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando sei motivi.
Con il primo, la difesa eccepisce la mancata traduzione della sentenza impugnata, che sarebbe stata necessaria, essendo l’imputato alloglotta, tanto è ooto’ s vero che i giudici di appello ha (iisposto la traduzione in cinese della decisione di primo grado nominando un interprete e differendo l’udienza di discussione al fine di consentire all’imputato la formulazione di eventuali motivi nuovi.
Con il secondo motivo, si censura il contrasto tra dispositivo e motivazione, nella misura in cui, a pag. 7 della sentenza impugnata, la Corte di appello esordisce affermando che l’appello è fondato relativamente al trattamento sanzionatorio, salvo poi ritenere congrua la pena inflitta dal G.U.P. a pagina 10 e nel dispositivo, integrando ciò non un mero refuso, ma un vizio di motivazione della sentenza.
Con il terzo motivo, è stata dedotta la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, posto che il G.U.P. ha condannato l’imputato per un reato ontologicamente diverso da quello contestato, avendo l’imputazione ad oggetto la falsità soggettiva delle fatture, il che ha dispensato il ricorrente dall’onere di difendersi in punto di oggettiva esistenza delle fatture, mentre nella sentenza di primo grado, confermata dalla Corte di appello, è stato sostenuto che le fatture fossero oggettivamente false, integrando ciò la violazione dell’art. 521 cod. proc, pen., per cui il G.U.P., una volta ravvisata la diversità tra fatto contestato e fatto accertato, avrebbe dovuto disporre la trasmissione degli atti al P.M.
Con il quarto motivo, il ricorrente contesta la conferma del giudizio di colpevolezza dell’imputato, evidenziando che le fatture utilizzate nel caso di specie
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non possono essere ritenute false, in quanto sono state emesse conformemente alla normativa tributaria (art. 18 comma 1 e 21 comma 1 del d.P.R. n. 633 del 1972), a ciò aggiungendosi che, dando per assodato che quelli indicati nelle fatture non fossero i fornitori reali, i giudici di merito hanno rovesciato l’onere probatorio, posto che è al P.M. che compete provare la soggettiva inesistenza dell’operazione commerciale e non all’imputato dimostrare la sua reale esistenza, fermo restando che nel caso di specie è stato accertato che i fornitori della ditta dell’imputato sono stati destinatari dei pagamenti delle forniture da loro eseguite.
Con il quinto motivo, le critiche difensive sono incentrate sull’elemento soggettivo del reato, non avendone la Corte territoriale argomentato l’esistenza, a fronte delle deduzioni contenute nell’appello con cui era stato sottolineato che l’imputato aveva ordinato la merce per via telematica, rifornendosi della stessa direttamente a Milano secondo le modalità tradizionalmente praticate dai fornitori nei luoghi da costoro indicati, pagando le merci ritirate con modalità tracciate.
Il sesto motivo, infine, è dedicato al trattamento sanzionatorio, censurandosi, sotto il duplice profilo del vizio di motivazione e dell’inosservanza della legge penale, sia il diniego delle attenuanti generiche, sia la misura della pena irrogata, sia il mancato riconoscimento dei benefici di legge, sia l’applicazione delle pene accessorie, sia infine la statuizione della confisca.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato.
1. Iniziando dal primo motivo, premesso che è pacifico che la sentenza di primo grado è stata tradotta, investendo la censura difensiva la sola decisione di appello, occorre richiamare la costante affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 5, n. 15056 del 11/03/2019, Rv. 275103), secondo cui, in tema di traduzione degli atti, in mancanza di elementi specifici indicativi di un pregiudizio in ordine alla completa esplicazione del diritto di difesa, l’omessa traduzione della sentenza di appello in lingua nota all’imputato alloglotta non integra di per sé una causa di nullità della stessa, atteso che, dopo la modifica dell’art. 613 cod. proc. pen. ad opera della legge 23 giugno 2017, n. 103, l’imputato non ha più facoltà di proporre personalmente ricorso per cassazione. La sentenza di appello non tradotta, quindi, non è affetta da alcun vizio e la sua mancata traduzione, adempimento materiale successivo ed “estraneo” alla formazione dell’atto processuale, non determina l’invalidità della stessa, ma, se vi è stata specifica richiesta di traduzione, ovvero questa è stata disposta dal giudice, i termini per impugnare decorrono dal momento in cui la motivazione della decisione sia stata messa a disposizione dell’imputato nella lingua a lui nota (cfr. in termini Sez. 6, n. 24730 del
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13/03/2024, Rv. 286667, Sez. 6, n. 40556 del 21/09/2022, dep. 2022, Rv. 283965 e Sez. 2, n. 45408 del 17/10/2019, Rv. 277775). Ne consegue che la doglianza difensiva non può essere accolta, tanto più ove si consideri che non risulta documentata una richiesta di traduzione della sentenza impugnata.
Anche il secondo e il sesto motivo, suscettibili di trattazione unitaria perché tra loro strettamente correlati, sono privi di fondamento.
Se è vero infatti che la sentenza impugnata appare contraddittoria nella misura in cui esordisce affermando che “l’appello è fondato relativamente al trattamento sanzionatorio irrogato dal primo giudice”, salvo poi confermare per intero la decisione di primo grado, è tuttavia altrettanto innegabile che da una lettura unitaria della pronuncia gravata si evince chiaramente che la frase di esordio della motivazione costituisce il frutto di una mera svista, posto che nella parte dedicata al trattamento sanzionatorio sono state adeguatamente illustrate le ragioni che hanno portato alla conferma delle valutazioni del G.U.P. in punto di pena.
Devono pertanto escludersi i vizi motivazionali dedotti dal ricorrente, dovendosi richiamare in tal senso la condivisa affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 2, n. 43434 del 05/07/2013, Rv. 257835), secondo cui non è affetta da nullità la sentenza di appello che contenga, all’interno della motivazione, refusi, ove gli stessi, come nel caso di specie, non influiscano sulla coerenza logica ed adeguatezza della motivazione né sono tali da creare equivoci, ciò per quanto riguarda sia l’affermazione di responsabilità, sia il trattamento sanzionatorio.
Ciò premesso, deve ribadirsi che la conferma del trattamento sanzionatorio non presenta criticità, avendo i giudici di secondo grado escluso l’esistenza di elementi meritevoli di positivo apprezzamento, invero non specificamente allegati neanche in questa sede, sia rispetto al diniego delle attenuanti generiche, sia in ordine all’entità dell’aumento di pena a titolo di continuazione, non potendosi sottacere, da un lato, che il richiamo difensivo alla condizione di incensurato del ricorrente non è dirimente, stante la previsione di cui all’art. 62 bis comma 3 cod. pen. e, dall’altro, che la pena base irrogata si è ragionevolmente (e in misura non esorbitante) discostata dal minimo edittale in ragione della pluralità delle violazioni e dell’entità elevata dell’imposta evasa, aspetti questi che non consentono di ritenere sproporzionato o eccessivo l’aumento per la continuazione interna, fissato in 4 mesi di reclusione per ciascuna delle tre ulteriori annualità contestate.
Del tutto generiche e quindi inammissibili sono poi le censure dedicate (peraltro per la prima volta in questa sede) tanto all’applicazione delle pene accessorie, ricollegabili ex lege all’affermazione di responsabilità, quanto alla statuizione della confisca, correttamente riferita al profitto del reato tributario contestato.
Non meritevole di accoglimento è anche il terzo motivo.
Premesso che sia nella contestazione che nelle sentenze di merito si fa riferimento all’inesistenza soggettiva delle operazioni, per cui già sotto tale profilo non si pone alcuna lesione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, deve in ogni caso osservarsi che, ove pure vi fosse stata una distonia tra accusa e sentenza in ordine alla tipologia (oggettiva o soggettiva) delle operazioni inesistenti, ciò non avrebbe comportato comunque alcuna nullità, avendo la Corte territoriale operato un pertinente richiamo al principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 5, n. 43778 del 21/09/2023, Rv. 285382 e Sez. 3, n. 30874 del 02/03/2018, Rv. 273728), secondo cui non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza la decisione con cui l’imputato, accusato di avere, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, indicato elementi passivi fittizi nella dichiarazione, avvalendosi di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, sia stato condannato per l’utilizzo di fatture relative ad operazioni soggettivamente inesistenti (o viceversa), in quanto il reato di dichiarazione fraudolenta, previsto dall’art. 2 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, nel riferirsi all’uso di fatture o altri documenti concernenti operazioni inesistenti, non distingue tra quelle che sono tali dal punto di vista oggettivo o soggettivo.
La doglianza difensiva costituisce quindì la riproposizione di una questione che nella sentenza impugnata ha già trovato una sua esauriente risposta.
4. Venendo infine ai motivi in punto di responsabilità, ossia il quarto e il quinto, suscettibili di trattazione unitaria, perché tra loro sovrapponibili, occorre evidenziare che anche la conferma del giudizio di colpevolezza dell’imputato in ordine al reato ascrittogli non presenta vizi di legittimità rilevabili in questa sede. E invero, lungi dal limitarsi a richiamare acriticamente le pur condivise considerazioni del G.U.P., la Corte di appello, sia pure in sintesi, non ha mancato di confrontarsi con le deduzioni difensive, superandole con argomenti non illogici. In particolare, i giudici di secondo grado hanno valorizzato gli esiti della verifica fiscale svolta dagli operanti della Guardía di Finanza di Verbania, i quali, nel compiere accertamenti presso la società RAGIONE_SOCIALE, con sede legale in Milano e sede operativa in Verbania, hanno appurato varie anomalie nei rapporti tra tale compagine, legalmente rappresentata dal ricorrente, e i suoi fornitori cinesi, risultati essere in realtà o società inesistenti o comunque mere cartiere che non svolgevano alcuna attività di impresa, non disponendo di strutture, dipendenti e risorse necessarie a tal fine. Dai controlli bancari e documentali, oltre che dagli esiti delle perquisizioni svolte presso le loro sedi apparenti, è altresì emerso che tali fornitori, già dal primo anno di attività, pur in assenza di documentazione riguardante eventuali transazioni, avevano un elevato volume di affari, mentre già dopo due o tre periodi di imposta cessavano l’attività, risultando poi accertati, per molti di essi, ingenti bonifici verso la Cina, in assenza di adeguata giustificazione.
Alla luce di tali risultanze, è stata dunque ribadita l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato, il quale era evidentemente a conoscenza del fatto che i soggetti che emettevano le fatture poi annotate nella contabilità e nelle dichiarazioni fiscali non erano gli effettivi fornitori, atteso che, come dichiarato dal dipendente NOME COGNOME, gli acquisti per conto della società RAGIONE_SOCIALE erano gestiti da COGNOME, che spesso di persona si occupava del ritiro della merce. Dunque, in ragione dell’elevato importo delle imposte evase dalla società amministrata dal ricorrente, del consistente numero di false fatture e della comprovata inesistenza soggettiva delle operazioni ad esse sottese, è stato legittimamente ritenuto ravvisabile a carico dell’imputato il reato di cui all’art. 2 del d. lgs. n. 74 del 2000, dovendosi a tal fine rilevare che, come chiarito da questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 52411 del 19/06/2018, Rv. 274104), in tema di reati tributari, il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, rappresentato dal perseguimento della finalità evasiva, che deve aggiungersi alla volontà di realizzare l’evento tipico (la presentazione della dichiarazione), è compatibile anche con il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’Iva.
4.1. In definitiva, in quanto sorretto da argomentazioni razionali e coerenti con le acquisizioni probatorie, correttamente intese nel loro reale significato e correlate in maniera non illogica, il giudizio sulla sussistenza e sull’ascrivibilità all’imputato del reato a lui contestato resiste alle censure difensive, con le quali si sollecita sostanzialmente una differente lettura delle acquisizioni probatorie, operazione questa non consentita in sede di legittimità, dovendosi richiamare in proposito la consolidata affermazione della giurisprudenza di questa Corte (cfr. ex plurimis Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, Rv. 280601 e Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482), secondo cui, in tema di giudizio di cassazione, a fronte di un apparato argomentativo privo di profili di irrazionalità, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito.
Di qui l’infondatezza delle doglianze in punto di responsabilità.
Alla stregua di tali considerazioni, il ricorso proposto nell’interesse di Hu va quindi disatteso, con consegue onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere il pagamento deile spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 15.07.2024