Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 47599 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 47599 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 05/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOME NOMECOGNOME nato a Napoli il 10/9/1975
avverso l’ordinanza del 28/5/2024 del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; sentita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiarare inammissibile il ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 28/5/2024, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere rigettava la richiesta di riesame presentata da NOME COGNOME avverso il decreto di sequestro preventivo emesso il 7/5/2024 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli Nord, con riguardo ai reati di cui agli artt. 5 e 8, d. Igs. 10 marzo 2000, n. 74.
Propone ricorso per cassazione l’indagato, deducendo i seguenti motivi: – violazione degli artt. 321 cod. proc. pen., 5 e 12-bis, d. Igs. n. 74 del 2000. Si contesta la contraddittorietà della motivazione laddove, per un verso,
sosterrebbe che la società amministrata dal ricorrente fosse una mera “cartiera” emittente di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, e, per altro verso, pretenderebbe che lo stesso avesse presentato la dichiarazione IVA relativamente alle medesime operazioni, così, di fatto, autodenunciandosi. In senso contrario, è richiamata una sentenza di questa Corte (n. 29814/2023) secondo cui l’effettiva percezione delle somme portate in fatture di tale natura non potrebbe essere presunta, cosicché l’importo delle medesime non potrebbe tout court esser considerato reddito tassabile a carico dell’emittente; ebbene, il ricorso chiede applicarsi il medesimo principio anche alle imposte indirette, quando l’indagine concluda che l’operazione commerciale rappresentata nella fattura non sia mai esistita (così privilegiando il dato fattuale-reale);
violazione degli artt. 321 cod. proc. pen., 8 e 12-ter, d. Igs. n. 74 del 2000. L’ordinanza avrebbe applicato la confisca “allargata” senza valutare che il presupposto che sostiene l’istituto – ossia che il soggetto abbia vissuto di proventi derivanti da reati – risulterebbe difficilmente applicabile agli illeciti penali tribut che per definizione sarebbero episodici. La serialità delle condotte delittuose, dunque, non sarebbe facilmente dimostrabile, ed infatti non emergerebbe nella vicenda in esame, che vedrebbe indagato un soggetto incensurato. La motivazione dell’ordinanza, pertanto, sarebbe viziata e da riformare, in quanto si fonderebbe su una doppia presunzione, evidentemente vietata: 1) che il delitto di cui all’art. 8 in esame abbia prodotto all’emittente un ritorno economico; 2) che, in passato, lo stesso indagato abbia commesso altri reati tributari in cambio di vantaggi economici.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso risulta manifestamente infondato.
Non merita accoglimento, innanzitutto, il primo motivo, che ravvisa quanto alle fatture per operazioni oggettivamente inesistenti – una sorta di incompatibilità logica tra la contestazione di cui all’art. 8, d. Igs. n. 74 del 2000, quella ex art. 5, stesso decreto, sul presupposto che la doppia rubrica costringerebbe l’emittente ad autodenunciare la consumazione di un reato (il primo), peraltro sanzionandolo per non aver dichiarato un’IVA invero mai incassata, perché legata a prestazioni mai eseguite in rerum natura, come confermato dalla condotta di cui all’art. 8.
4.1. L’ordinanza impugnata, infatti, ha richiamato il costante e condiviso indirizzo secondo cui il delitto di omessa dichiarazione a fini IVA è configurabile anche nel caso in cui siano state emesse fatture per operazioni inesistenti, in quanto, secondo la normativa tributaria, l’imposta sul valore aggiunto è dovuta
anche per tali fatture, indipendentemente dal loro effettivo incasso, con conseguente obbligo di presentare la relativa dichiarazione (tra le altre, Sez. 3, n. 32500 del 6/6/2018, COGNOME, Rv. 273697; Sez. 3, n. 39177 del 24/9/2008, COGNOME, Rv. 241267. Successivamente, tra le non massimate, Sez. 3, n. 30533 del 15/7/2024, COGNOME; Sez. 7, n. 29417 del 24/5/2024, Messina; Sez. 3, n. 10233 del 24/10/2023, COGNOME).
4.2. La giurisprudenza di questa Corte, dunque, si fonda non su una mera ed indimostrata petizione di principio, ma sul chiaro tenore della normativa di riferimento. In particolare, l’art. 21, comma 7, d.P.R. 26/10/1972, n. 633, in tema di fatturazione delle operazioni, stabilisce che se il cedente o prestatore emette fattura per operazioni inesistenti, ovvero se indica nella fattura i corrispettivi dell operazioni o le imposte relative in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura. Questa disciplina costituisce attuazione dell’art. 21, paragrafo 1, lett. c), della sesta direttiva 77/388/CEE, come modificata dalla direttiva 91/680/CEE del Consiglio, del 16 dicembre 1991 – al quale è subentrato l’articolo 203 della direttiva CE 2006/112 -, a cui tenore chiunque indichi VIVA in una fattura o in ogni altro documento che ne fa le veci è debitore di tale imposta; in particolare, tale soggetto è debitore dell’IVA indicata in una fattura indipendentemente da qualsiasi obbligo di versarla in ragione di un’operazione soggetta ad IVA (v. Corte giust. 18 giugno 2009, Stadeco, C566/07, Racc. pag. 1-5295, punto 26; Corte di giustizia 31 gennaio 2013, C-643/11, LVK-56 EOOD, punti 53-56; Corte giustizia 31 gennaio 2013, C642/11, Stroy trans EOOD, punto 44). Anche la giurisprudenza tributaria ha costantemente ribadito questo principio (tra le altre, Sez. 6, n. 26983 del 25/6/2019), e allo stesso occorre dunque dare ulteriore continuità.
4.3. Nessun contrasto, peraltro, può essere ravvisato con il principio richiamato ancora nel primo motivo di ricorso, ed affermato da questa Corte con la sentenza n. 29814 del 9/3/2023, secondo cui si deve presumere che “le fatture per operazioni inesistenti non siano fonte di un debito in capo al soggetto destinatario di esse la cui so/utio costituisca fonte di reddito per l’emittente, potendo, semmai, discutersi della eventuale tassabilità del prezzo del reato conseguito dall’emittente le fatture false (…); in assenza, pertanto, di elementi che possano fare presumere l’effettiva percezione delle somme portate dalle fatture in questione, l’importo delle medesime non può essere considerato tout court reddito tassabile a carico dell’emittente”. Un tale principio, infatti, è stato affermato con riferimento alla dichiarazione dei redditi, in forza di una “verifica che privilegia i dato fattuale reale”, come sostenuto nella stessa impugnazione (pag. 7); il medesimo principio, invece, non può essere ribadito in ordine all’IVA, imposta comunitaria, vigendo sul punto un’apposita e specifica disciplina – appena
richiamata – che ne impone comunque la dichiarazione, una volta inserita in fattura, con ogni conseguenza anche con riguardo all’art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000 contestato al Domizio.
4.4. Il primo motivo di ricorso, dunque, risulta del tutto infondato.
Alle stesse conclusioni, poi, il Collegio giunge quanto alla seconda censura, evidenziandone il carattere palesemente astratto; nessun confronto, infatti, è attivato con la sentenza impugnata, la cui motivazione sulla confisca di cui all’art. 12-ter, d. Igs. n. 74 del 2000 risulta solida e logica, dunque ben distante da un apparato inesistente o meramente apparente che – solo – consente il ricorso per cassazione in materia di misure cautelari reali ai sensi dell’art. 325 cod. proc. pen.
5.1. In particolare, il motivo si fonda su un presupposto invero non richiesto dalla norma, ossia che il denaro rinvenuto in valore sproporzionato rispetto al reddito dichiarato, e che deve essere confiscato, sia “pur sempre riconducibile alla cd. evasione fiscale seriale”, così giustificando la “ragionevole certezza che il soggetto abbia vissuto, almeno per un periodo significativo della sua vita, di proventi derivanti da evasione fiscale, e non genericamente di proventi derivanti da qualsivoglia delitto lucrogenetico”. Ebbene, l’art. 240-bis cod. pen. – applicabile a taluni dei reati di cui al d. Igs. n. 74 del 2000, compreso quello di cui all’art. 8 nei termini del suo art. 12-ter – non richiede affatto tale presupposto, fondandosi l’istituto solo su una presunzione di provenienza criminosa dei beni posseduti dai soggetti condannati per taluni reati: in presenza di determinate condizioni, si presume, cioè, che il condannato abbia commesso non solo il delitto che ha dato luogo alla condanna, ma anche altri reati, non accertati giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni di cui egli dispone. Illeciti – si osservi – non necessariamente della stessa indole della fattispecie-spia, diversamente da quanto affermato nel ricorso: la Corte costituzionale (sent. n. 33 del 2018), analizzando il criterio della cd. ragionevolezza temporale che anche connota l’istituto, ha infatti affermato che “il momento di acquisizione del bene non dovrebbe risultare (…) talmente lontano dall’epoca di realizzazione del “reato spia” da rendere ictu ()culi irragionevole la presunzione di derivazione del bene stesso da una attività illecita, sia pure diversa e complementare rispetto a quella per cui è intervenuta condanna (corsivo dell’estensore)”. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
5.2. La censura in esame, poi, si basa su un ulteriore presupposto del tutto teorico e privo di riscontri, in forza del quale i reati tributari, “ancorché connotat da intenti frodatori, sono per definizione episodici, potendosi concretizzare anche in un solo atto”.
5.3. Ebbene, tutti questi profili di censura sono sollevati nel ricorso con carattere palesemente astratto e generico, nonché privo di alcun riferimento al caso concreto.
5.5. Diversamente, la motivazione dell’ordinanza in esame risulta ancorata in modo saldo alla specifica vicenda, evidenziando che il ricorrente non aveva fornito alcuna spiegazione sul possesso di quasi un milione di euro in contanti, e che lo stesso – alla luce degli elementi al momento disponibili – si era prestato a consentire a terzi l’evasione dell’IVA per rilevanti importi, così da doversi presumere che tale elevata somma di denaro, sproporzionata in relazione all’attività economica esercitata, fosse di provenienza illecita.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 5 novembre 2024
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