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Fatture false: la Cassazione e il ricorso inammissibile

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imprenditore condannato per dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture false. La Corte ha chiarito che la condanna si basa sulla falsità di specifiche fatture, provata da numerose incongruenze, e non sulla totale assenza di rapporti commerciali. Sono stati inoltre respinti i motivi procedurali relativi al rito cartolare e alla prescrizione del reato, confermando la condanna.

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Pubblicato il 25 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Fatture False: Quando la Prova della Falsità Supera l’Esistenza di Rapporti Commerciali

L’utilizzo di fatture false rappresenta uno dei reati tributari più comuni e insidiosi. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 25816/2025) offre spunti cruciali per comprendere come viene accertata la responsabilità penale, anche quando tra le parti esistono reali rapporti commerciali. Il caso riguarda un imprenditore condannato per aver inserito in dichiarazione elementi passivi fittizi derivanti da fatture per operazioni inesistenti. La Corte, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha consolidato principi importanti sulla prova della falsità e sui termini di prescrizione.

I fatti del caso: la contestazione e la condanna nei gradi di merito

Un imprenditore, titolare di una ditta individuale, veniva condannato in primo grado e in appello alla pena di un anno e sei mesi di reclusione per il reato di dichiarazione fraudolenta. L’accusa era di aver utilizzato, nella dichiarazione dei redditi e IVA per l’anno 2013, dieci fatture false per un importo di oltre 20.000 euro. Tali fatture, apparentemente emesse da un’altra società, servivano a documentare costi inesistenti, abbattendo così il carico fiscale.

I motivi del ricorso per Cassazione

La difesa dell’imprenditore ha presentato ricorso alla Suprema Corte basandosi su tre motivi principali:

1. Nullità Procedurale: Si lamentava che il processo d’appello si fosse svolto con rito cartolare (basato solo su atti scritti), nonostante il decreto di citazione sembrasse indicare una trattazione orale. Questo, secondo la difesa, avrebbe leso il diritto di difesa.
2. Prescrizione del Reato: Il ricorrente sosteneva che il termine di prescrizione decennale fosse maturato prima della celebrazione del giudizio d’appello, chiedendo quindi l’estinzione del reato.
3. Vizio di Motivazione e Prova: La difesa contestava l’affermazione di responsabilità, sostenendo che i giudici non avessero adeguatamente provato l’inesistenza delle operazioni commerciali. Si evidenziava l’esistenza di un rapporto commerciale tra l’imprenditore e la società emittente, nonché la successiva rivendita a terzi del materiale acquistato, elementi che a dire del ricorrente avrebbero dovuto escludere la falsità.

Le motivazioni della Corte: perché le fatture false portano alla condanna

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, smontando punto per punto le argomentazioni difensive. Innanzitutto, ha chiarito che il rito cartolare era legittimamente applicato in base alla normativa emergenziale, e che la difesa non aveva mai formalmente richiesto una discussione orale.

Sul tema cruciale della prescrizione, la Corte ha ribadito un principio fondamentale: il reato di dichiarazione fraudolenta si consuma con la presentazione della dichiarazione fiscale, non con l’emissione delle fatture false. Calcolando correttamente i termini, includendo un periodo di sospensione, la prescrizione non era ancora maturata al momento della sentenza d’appello. Inoltre, l’inammissibilità del ricorso preclude la possibilità di dichiarare una prescrizione maturata successivamente.

Il cuore della decisione, però, risiede nell’analisi della prova. La Cassazione ha sottolineato che la condanna non si fondava sulla totale assenza di rapporti commerciali tra le due società, bensì sulla provata falsità di quelle specifiche fatture. I giudici di merito avevano infatti accertato una serie di palesi anomalie:

* Timbri e calligrafie differenti rispetto ai documenti autentici della società emittente.
* Numeri di fattura non coincidenti, con l’imputato che utilizzava fatture con numerazione progressiva superiore all’ultima realmente emessa dal fornitore.
* Bollettari con codici diversi.
* Il legale rappresentante della società emittente aveva formalmente disconosciuto quelle fatture.

Questi elementi, gravi, precisi e concordanti, costituivano una prova sufficiente dell’inesistenza delle operazioni documentate da quelle specifiche fatture, rendendo irrilevante la circostanza che tra le parti potessero esserci stati altri scambi commerciali leciti.

Le conclusioni

La sentenza in esame è un’importante conferma del rigore con cui la giurisprudenza affronta il fenomeno delle fatture false. La decisione chiarisce che per integrare il reato non è necessario dimostrare l’assenza totale di rapporti tra le parti, ma è sufficiente provare, anche tramite elementi indiziari e documentali, che le singole fatture utilizzate in dichiarazione si riferiscono a operazioni mai avvenute. L’inammissibilità del ricorso, che ha impedito un riesame del merito, sancisce la definitività della condanna e ribadisce che la lotta all’evasione fiscale si basa su un’analisi attenta e rigorosa degli elementi di prova, al di là delle apparenze formali.

Quando si considera consumato il reato di dichiarazione fraudolenta ai fini della prescrizione?
Il reato si perfeziona nel momento in cui la dichiarazione fiscale viene presentata agli uffici finanziari, non alla data di emissione delle fatture false. È da quella data che inizia a decorrere il termine di prescrizione.

Una condanna per fatture false è possibile anche se esistono altri rapporti commerciali reali con lo stesso fornitore?
Sì. La sentenza chiarisce che la condanna si basa sulla falsità di specifiche fatture utilizzate per evadere le imposte. Se viene provato, tramite elementi oggettivi (come timbri diversi, numerazione incongruente, disconoscimento da parte dell’emittente), che quelle determinate fatture si riferiscono a operazioni inesistenti, la condanna è legittima, indipendentemente dall’esistenza di altri scambi commerciali leciti tra le stesse parti.

La celebrazione di un processo d’appello con ‘rito cartolare’ viola sempre il diritto di difesa?
No. La Corte ha stabilito che, in base alla normativa applicabile (in questo caso quella emergenziale), il rito cartolare era la procedura standard. Il diritto di difesa non è violato se le parti non hanno esercitato la facoltà, ove prevista, di richiedere esplicitamente la discussione orale o la partecipazione in presenza.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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