Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 20379 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 20379 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 17/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a VILLABATE il 29/10/1962
avverso la sentenza del 25/09/2024 della CORTE APPELLO di CALTANISSETTA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza del 25 settembre 2024 la Corte di appello di Caltanissetta, esclusa la recidiva, ha confermato il giudizio di responsabilità espresso dal Gip del Tribunale di Enna, nei confronti di NOME COGNOME in relazione ai reati di cessione di sostanza stupefacente in favore del detenuto NOME COGNOME aggravato dall’essere stato il fatto commesso dall’odierno ricorrente, cappellano del carcere di Enna, all’interno della struttura penitenziaria nonché di detenzione di un’arma clandestina e, in specie, di un revolver calibro 38 con matricola abrasa, della relativa ricettazione, della detenzione di un fucile a canne mozze, di proiettili e cartucce oltre che di strumenti atti a forzare serrature.
La Corte territoriale ha respinto i motivi dedotti in punto di affermazione della responsabilità dell’imputato, di riqualificazione della condotta di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309/1990 nella fattispecie attenuata di cui al comma 5 della norma stessa, quello relativo al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, al trattamento sanzionatorio e alla confisca di quanto in sequestro. Ha accolto, invece, la Corte di appello il motivo relativo alla recidiva contestata rilevando che in relazione alla condanna che lo aveva originato, era intervenuta riabilitazione.
Avverso la sentenza è stato proposto ricorso nell’interesse del COGNOME affidato a tre motivi.
3.1. Con il primo si deduce violazione di legge e, in particolare, l’erronea applicazione degli artt. 73 e 80 d.P.R. n. 309/1990 oltre che la illogicità e contraddittorietà della motivazione relativamente al mancato accoglimento della richiesta di riqualificazione del fatto contestato nella previsione di cui al comma 5 dell’art. 73 d.P.R. cit.
Il ricorrente era accusato di avere ceduto al detenuto COGNOME NOME sostanza stupefacente del tipo hashish del peso di 75,45 grammi, fatto aggravato dall’essere stato commesso all’interno di un carcere, nonché per avere detenuto all’interno della propria abitazione un revolver con matricola abrasa, per aver commesso la ricettazione del detto revolver nonché il porto di un fucile a canne mozze cal. 12, di 201 proiettili cal. 9 x 21, d.i 6 cartucce ricondizionate, di un taiser, di un coltello a uncino e d due sciabole oltre che strumenti atti a forzare serrature. Benché abbia escluso la contestata recidiva, la sentenza, secondo la difesa, merita censura in quanto erano stati evidenziati elementi che davano contezza
della portata della condotta antigiuridica posta in essere dal prevenuto relativamente al reato di detenzione a fini di spaccio di sostanza stupefacente. A dispetto dell’asserita caratura criminale del ricorrente costui si è solo limitato a porre in essere le condotte che è stato possibile contestargli nei capi di imputazione. A pagina 3 della sentenza di primo grado si evidenzia che si trattava di una estesa attività di indagine volta a reprimere il fenomeno illecito della introduzione di dispositivi telefonici sostanze stupefacente all’interno del carcere di Enna.
COGNOME ha ammesso di avere introdotto droga all’interno del penitenziario e di averla ceduta a Rasano durante un colloquio riservato; che di seguito venivano eseguite perquisizioni tanto all’interno della casa circondariale quanto dell’autovettura del sacerdote (nel corso della quale erano rinvenuti gli strumenti di cui al capo F) oltre che nella stanza del convento ove COGNOME alloggiava (all’interno della quale si trovavano le armi e le munizioni di cui ai capi B), D) ed E). Il ricorrente ha ammesso le proprie responsabilità. Egli ex militare dell’aeronautica ed ex carabiniere ha cercato di spiegare le ragioni che lo avevano spinto a quei gesti e benché egli abbia, anche attraverso degli scritti inviati dal carcere, cercato d chiarire che non era stato lucido durante i vari interrogatori, anche fornendo numeri di telefono e nomi di soggetti con i quali si era relazionato, detti elementi, lungi dall’essere valorizzati dai giudicanti, sono stati valutati in senso assolutamente sfavorevole anche ai fini della determinazione della pena e del riconoscimento delle invocate circostanze attenuanti generiche. Si chiedeva con il secondo motivo la riqualificazione del reato sub A) nella fattispecie di lieve entità di cui al comma 5 dell’art 73 d.P.R. 309/90 che il primo giudice aveva escluso ritenendo rilevante il quantitativo di principio attivo, dato che dalla droga era possibile ricavare 393 dosi medie singole, oltre che per l’avere sfruttato il COGNOME la sua qualità di cappellano del carcere per introdurre al suo interno sostanza stupefacente. Secondo la difesa, tuttavia, la Corte territoriale non avrebbe risposto alle censure mosse con l’atto di appello. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
3.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al mancato accoglimento della richiesta di un più mite trattamento sanzionatorio con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e un più contenuto aumento per la continuazione. La Corte si è limitata ad affermare che nel caso in esame non vi erano elementi positivi da valorizzare, avuto riguardo alla gravità della condotta. Lamenta, inoltre, la difesa che la Corte avrebbe, tra l’altro, sostenuto che le dichiarazioni rese dal cappellano erano equivoche benché non sia stato svolto alcun
accertamento sui numeri e sui nomi che il sacerdote aveva messo a disposizione dell’autorità giudiziaria.
3.3 Con il terzo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in merito al mancato accoglimento della richiesta di revoca delle statuizioni di confisca delle somme di denaro a vario titolo detenute dall’imputato oltre che degli altri beni in sequestro. Era stata dedotta la illegittimità dell’ordinanza con la quale il Gip di Enna aveva disposto la confisca del denaro di cui ai saldi attivi sui conti correnti correlati alle ca di credito oltre che delle somme rinvenute nella disponibilità dell’imputato e degli altri beni in sequestro, mancando la correlazione tra le somme e i beni sequestrati e la contestazione mossa all’imputato. Rileva la difesa che se una pur astratta correlazione può rinvenirsi con riferimento al denaro rinvenuto all’interno dei locali dove la cessione è avvenuta, essa è da escludere con riferimento ai saldi attivi sui conti correnti correlati alle carte credito oltre che ai dispositivi elettronici e agli oggetti personali di proprietà COGNOME.
Il P.G., in persona del sostituto NOME COGNOME ha depositato conclusioni scritte chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I motivi di ricorso sono manifestamente infondati.
Il primo motivo è generico e non si confronta con l’ampia motivazione posta a fondamento del giudizio di colpevolezza del COGNOME e della mancata riqualificazione del reato contestato nella fattispecie di cui al comma 5 dell’art. 73 d.P.R. 309/1990.
La Corte territoriale con motivazione non manifestamente illogica, coerente con le emergenze acquisite e con congrui richiami giurisprudenziali ha posto in evidenza come il COGNOME, cappellano del carcere di Enna, ha ceduto al Rasano, sfruttando il ruolo svolto all’interno del penitenziario, un quantitativo di sostanza stupefacente del tipo hashish -affatto irrisorio dato che si trattava di 75,45 grammi con un principio attivo equivalente a 17,334 grammi per un totale di 393 dosi medie singole, condotta questa che è stata ritenuta connotata da un elevato grado di offensività, ritenuto incompatibile con la fattispecie di lieve entità.
Gli argomenti spesi dalla difesa in merito alla versione dei fatti offerta dal ricorrente, contrariamente a quanto assume la difesa, sono stati oggetto di ampia disamina da parte della Corte territoriale (pag. 2) laddove
con argomenti dotati di logicità, è stata respinta la tesi difensiva secondo cui l’imputato, in abiti ordinari, sarebbe stato costretto da parte di soggett a lui sconosciuti a porre in essere la condotta illecita ed è stata conseguentemente respinta la tesi della inevitabilità altrimenti del pericolo invocato o della impossibilità di operare una scelta al di fuori di quella oggetto della richiesta rivoltagli accompagnata da minacce. A tanto la Corte è pervenuta ponendo in evidenza la circostanza che l’imputato, con un passato da militare dell’Arma, avrebbe dovuto non solo opporsi alla richiesta di natura illecita ma denunciare l’accaduto.
La motivazione posta non é né carente né manifestamente illogica neppure con riferimento al mancato riconoscimento della fattispecie di cui al comma 5 dell’art. 73 d.P.R. citato.
GLYPH Parimenti inammissibile il motivo afferente il trattamento sanzionatorio, latamente inteso.
E’ noto che in tema di circostanze attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché non sia contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen. considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione. Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche è
sufficiente che il giudice faccia riferimento agli elementi ritenuti decisivi comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 7, Ord. n. 39396 del 27/05/2016, Jebali, Rv. 268475; Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, COGNOME, Rv. 265826; Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 2, n. 2285 dell’11/10/2004, dep. 2005, Alba, Rv. 230691).
Peraltro, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo (Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Stara.ce, Rv. 270986).
La Corte territoriale ha fatto buon governo di tali principi e ha ritenuto che nel caso di specie non fossero emersi motivi per mitigare il trattamento sanzionatorio mediante il riconoscimento delle circostanze attenuanti di cui all’art. 62 bis cod. pen. Inoltre, ha posto l’accento sulla gravità dell condotta tenuta da un appartenente al clero, nell’esercizio delle sue funzioni e all’interno di un penitenziario oltre che al comportamento, volto a sviare le indagini; elementi sui quali già si era diffuso il primo giudice rilevando come alcuna capacità dimostrativa di una seria resipiscenza potesse essere attribuita a quelle dichiarazioni che venivano definite equivoche, approssimative, fuorvianti, distorsive della realtà, volte a sviare le indagini e frutto di una condotta ambigua che ne lumeggiava la personalità negativa.
Quanto alla determinazione della pena va rammentato che la graduazione del trattamento sanzionatorio rientra nella discrezionalità del giudice di merito che la esercita alla luce dei principi enunciati dagli artt 132 e 133 cod. pen.
Deve, pertanto, considerarsi inammissibile una censura volta ad ottenere una nuova valutazione della congruità della pena in sede di legittimità, che non sia frutto né di arbitrio né di un ragionamento illogico ma piuttosto della valutazione espressa, valorizzando la gravità dei fatti ascritti e le modalità con le quali gli stessi sono stati posti in essere oltr che la personalità del ricorrente, argomenti questi, con i quali il ricorso non si confronta.
E’ inammissibile il motivo afferente alla confisca disposta ai sensi dell’art. 240 bis cod. pen. Il ricorrente non si confronta criticamente con la motivazione deducendo il difetto del nesso di pertinenzialità con l’attività illecita contestata e denunciando la illegittimità della confisca ai sensi dell’art. 240 cod. pen., senza alcuna correlazione con il decisum delle
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sentenze conformi che, invece, hanno statuito ai sensi dell’art. 85-bis, d.P.R. n. 309/1990.
In tal modo il motivo di ricorso risulta inammissibile per genericità. Va, infatti, osservato che il motivo di ricorso per cassazione deve doverosamente confrontarsi con le argomentazioni del provvedimento impugnato per l’ammissibilità dell’impugnazione, ex art. 581 cod. proc. pen., perché la sua funzione tipica è quella della critica argomentata avverso il provvedimento oggetto di ricorso. Trova, pertanto, applicazione il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui, in tema di inammissibilità del ricorso per cassazione, i motivi devono ritenersi generici non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez.2, n.19951 dei 15/05/2008, Rv.240109; Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Rv. 255568; Sez.2, n.11951 del 29/01/2014, Rv.259425).
Erra, dunque, il ricorrente nel richiamare i principi sanciti da questa Corte in materia di confisca ai sensi dell’art. 240 cod. pen. Nel caso in esame, la confisca, con motivazione ampia e congrui richiami giurisprudenziali, è stata disposta ai sensi dell’art. 240 bis cod. proc. pen. che prevede il rimedio nei casi in cui il condannato non possa ‘giustificare la provenienza e di cui anche per interposta persona, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito.
La Corte territoriale ha rammentato che all’interno della stanza n. 4 del convento ove il ricorrente alloggiava è stata rinvenuta la somma di 26.515 euro conservata in una cassetta di sicurezza e all’interno di un borsello di colore nero in banconote di vario taglio.
Ha argomentato la Corte che nulla è stato provato in merito alla legittima provenienza del denaro sequestrato e di quello contenuto sui conti legati alle carte di credito, essendosi lamentata, come è genericamente avvenuto anche dinanzi a questa Corte di legittimità, la mancanza di correlazione tra le somme, i beni sequestrati e la contestazione mossa, tutto ciò a fronte di una confisca “per sproporzione”.
Sul punto, la Corte territoriale non ha mancato di mettere in luce la conversazione intercorsa tra il COGNOME e la sorella, durante un colloquio in carcere, allorquando alla domanda rivoltagli dalla germana che gli chiedeva le ragioni per le quali tenesse tanto denaro in casa, il ricorrente rispondeva “perché poi la banca dice … com’è che ti stai conservando questi piccioli” il che, come osservato dal giudice di secondo grado rimanda alla consapevolezza della illecita origine del denaro.
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Inoltre la Corte di appello ha sottolineato come a fronte del carattere inusuale del possesso di una ingente somma di denaro, in assenza di plausibili giustificazioni in ordine alla sua provenienza, essendo rimaste del tutto generiche e indimostrate le affermazioni circa la ricezione di una parte del denaro da uno zio che aveva riscosso degli arretrati e altra parte dai fedeli, dalla informativa in atti emergeva che in occasione del controllo effettuato presso la Casa circondariale il cane antidroga segnalava con insistenza il cassetto n. 26 degli armadietti posti presso la prima portineria. Detto armadietto era assegnato al cappellano COGNOME che ne deteneva la chiave e per quanto il controllo avesse dato esito negativo ne ha inferito che detta circostanza corroborava la non occasionalità della condotta illecita di detenzione della droga per cederla ai detenuti, come riscontrata nell’episodio dello spaccio al Rasano.
Con tutto quanto rappresentato, il ricorso non si confronta.
Del pari inammissibile in quanto del tutto generico, il motivo nella parte in cui lamenta la mancata restituzione “degli altri beni in sequestro” neppure specificati.
Alla declaratoria di inammissibilità segue la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali e della somma di C. 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità (cfr. C. Cost. n. 186/2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Deciso il 17 aprile 2025
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