Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 20639 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 20639 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 09/05/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOME nato a SANT’ANGELO DEI LOMBARDI il 26/03/2001 NOME nato a SANT’ANGELO DEI LOMBARDI il 19/03/1999
avverso la sentenza del 19/11/2024 della Corte d’appello di Napoli Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Procuratore generale, NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
La sentenza impugnata è stata deliberata il 19 novembre 2024 dalla Corte di appello di Napoli, che ha riformato parzialmente la decisione del Tribunale di Avellino del 9 giugno 2023, che aveva condannato NOME COGNOME per i reati di cui agli artt. 495 cod. pen. (così riqualificata l’originaria contestazione ex art. 496 cod. pen.) e 4 l. 110 del 1975 e NOME COGNOME per il solo delitto di falso personale, reati commessi il 2 novembre 2020. La riforma in appello è consistita nell’assoluzione di NOME COGNOME dalla contravvenzione.
Entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione a mezzo del difensore di fiducia, che ha redatto un atto unico.
2.1. Il primo motivo di ricorso denunzia violazione di legge e lamenta, in particolare, che la requisitoria del Procuratore generale presso la Corte di appello sia stata notificata alla difesa solo il giorno prima dell’udienza, senza il rispetto del termine di cui all’art. 23bis d.l. 28 ottobre 2020 n. 137 conv. con mod. dalla l. 18 dicembre 2020, n. 176.
Tale anomalia aveva impedito alla difesa di poter replicare e ciò aveva inciso concretamente sul diritto di difesa, giacché il Procuratore generale aveva concluso in maniera motivata anche con riferimento al diniego del proscioglimento ex art. 131bis cod. pen.
2.2. Il secondo motivo di ricorso lamenta violazione di legge invocando la riqualificazione del falso nel reato di cui all’art. 494 cod. pen. perché gli imputati avevano invertito le proprie generalità una volta sottoposti a controllo ma, nell’immediatezza, gli operanti avevano trovato i loro documenti sul cruscotto dell’autovettura, il che aveva permesso di disvelare immediatamente il mendacio. Ciò si legge nei ricorsi avrebbe determinato l’inidoneità ingannatoria della condotta. Inoltre, l’immediata disponibilità dei documenti per le forze dell’ordine impedirebbe l’assimilazione della condotta a quella di ‘attestazione’ di cui alla disposizione incriminatrice.
I ricorsi concludono che neanche si configurerebbe il reato ex art. 494 cod. pen. perché nessuno fu indotto in errore.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono, nel loro complesso, infondati e vanno pertanto respinti.
Il primo motivo di ricorso che lamenta violazione di legge perché le conclusioni del Procuratore generale presso la Corte di appello erano state comunicate al difensore degli imputati solo il giorno prima dell’udienza è infondato.
L’esame degli atti processuali possibile in ragione della natura processuale della censura ha consentito di accertare che, effettivamente, come sostenuto nei ricorsi, la comunicazione telematica delle conclusioni del Procuratore generale presso la Corte di appello al difensore è avvenuta il giorno 18 novembre 2024 (non si conosce, invece, la data di deposito presso l’ufficio giudicante, mentre nell’atto è indicata, come data di redazione, il 15 novembre 2014), rispetto all’udienza tenutasi il giorno successivo, udienza in cui il giudizio di appello è stato definito con la sentenza impugnata. Si è appurato altresì che il
difensore, nelle sue conclusioni, oltre a concludere nel merito, aveva anche lamentato che non gli fossero state comunicate le conclusioni del Procuratore generale.
Tanto premesso, non vi è dubbio che la dinamica sopra descritta abbia determinato una divaricazione dell’ iter seguito dalla Corte di appello di Napoli rispetto a quanto previsto dalla normativa applicabile ratione temporis , vale a dire quella di cui all’art. 23bis , comma 2, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. con mod. dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176.
Il profilo che viene in rilievo è che il Procuratore generale non ha depositato le sue conclusioni entro il decimo giorno antecedente all’udienza, in violazione della disposizione sopra indicata (come si trae dalla stessa data di redazione, che precede di soli quattro giorni l’udienza) e che la comunicazione alla difesa è avvenuta alla vigilia dell’udienza.
Sulla rilevanza patologica di questa anomalia si è sviluppato un vivace confronto giurisprudenziale, che ha offerto soluzioni non uniformi e che vedono parziali sovrapposizioni.
Senza alcuna pretesa di esaustività, il Collegio ricorda che si è sostenuto che il deposito tardivo delle conclusioni del Procuratore generale:
-non comporta alcuna nullità se non l’obbligo, per la Corte di appello, di non tenerle in considerazione (Sez. 5, n. 8131 del 24/01/2023, D., Rv. 284369 – 02);
-determina nullità a regime intermedio (Sez. 2, n. 14854 del 25/01/2023, Diop, Rv. 284297 – 01) e il giudicante non deve tenerne conto (Sez. 6, n. 22919 del 24/04/2024, P., Rv. 286664 – 01);
-determina nullità solo allorché le conclusioni del Procuratore generale siano state depositate dopo la scadenza del termine per il deposito di quelle difensive ovvero, se depositate prima, la parte alleghi la sussistenza di un concreto pregiudizio derivato alla difesa medesima (Sez. 6, n. 30146 del 28/04/2023, COGNOME, Rv. 285040);
-determina nullità solo quando le conclusioni del Procuratore generale siano depositate o comunicate dopo il deposito di quelle della difesa (Sez. 4, n. 43706 del 12/09/2023, NOME, Rv. 285227);
-non determina nullità per il principio di tassatività, ma il vizio viene comunque in rilievo se la parte deduce un interesse (Sez. 5, n. 27419 del 17/02/2023, R., Rv. 285874 – 01; Sez. 2, n. 34914 del 07/09/2021, Rv. 281941; in questo senso sembrerebbe porsi anche Sez. 7, n. 32812 del 16/03/2023, COGNOME, Rv. 285331).
Ciò premesso ed al netto della tesi più radicale circa l’irrilevanza del deposito tardivo è evidente che la scelta classificatoria della patologia
processuale come nullità si coglie esplicitamente solo in una parte della giurisprudenza; pur tuttavia, gli arresti sul punto presentano un minimo comun denominatore, vale a dire quello di avere reputato necessaria la dimostrazione della concreta mortificazione del diritto di difesa che è conseguita al deposito tardivo, quale misura dell’interesse del ricorrente a lamentare il vizio processuale che, nel caso della classificazione di esso come nullità di ordine generale a regime intermedio, vede come parametro normativo di riferimento l’art. 182, comma 1, cod. proc. pen. Se, dunque, è la parte che muove la censura a dover dimostrare di avere un concreto interesse ad eccepire il vizio e se l’anomalia rispetto al modello legale attiene all’esplicazione del diritto al contraddittorio, tanto si risolve nella necessità di dimostrare se e quale sia stato il grado di compressione del diritto di difesa derivante dal ritardato deposito (come dalla ritardata comunicazione) della requisitoria del Procuratore generale; nello specifico, tale dimostrazione passa attraverso la puntualizzazione del contenuto della requisitoria del Procuratore generale e del pregiudizio delle ragioni difensive derivante dall’intempestività del deposito e/o della conoscenza di essa da parte della difesa, nonché della rilevanza attribuitale dall’organo giudicante nell’economia della decisione, parametri che poi questa Corte è chiamata a valutare.
Ebbene, i ricorsi sul punto sono estremamente generici, dal momento che essi si limitano a sostenere che le conclusioni del Procuratore generale « contenevano, sia pure in modo succinto, una motivata richiesta di rigetto dell’appello anche con riferimento all’esclusione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto » . La genericità delle impugnative si salda con quella della requisitoria stessa, che non recava alcuna argomentazione esplicativa delle ragioni per cui, del tutto assertivamente, la parte pubblica aveva sostenuto che « la condotta sanzionata è correttamente qualificata e la motivazione della sentenza risulta logica ed esaustiva contrariamente a quanto dedotto con l’atto di appello, il primo Giudice ha correttamente ritenuto la responsabilità degli stessi in relazione ai reati ascritti, né potendo ritenersi che la riqualificazione operata violi il principio di cui all’art. 521 c.p., nonché motivando in relazione alla scelta di escludere l’applicazione dell’invocata causa di non punibilità » .
Né può valere la circostanza, sottolineata nel ricorso, che dette conclusioni fossero state lette in udienza dalla Corte territoriale perché, se è vero che nel corpo della sentenza impugnata si legge, appunto, che si era data lettura delle conclusioni delle parti, nessuna proposizione della motivazione fa poi richiamo alle considerazioni del Procuratore generale.
D’altronde è anche singolare che la difesa si dolga, oggi, di non aver potuto controbattere alla requisitoria del Procuratore generale quanto al diniego del
proscioglimento ex art. 131bis cod. pen., quando non ha poi formulato alcun motivo di ricorso sul punto, prestando acquiescenza al relativo punto della decisione della Corte di merito.
Il secondo motivo di ricorso con cui i ricorrenti lamentano la mancata riqualificazione nel reato di cui all’art. 494 cod. pen. è manifestamente infondato per varie, concorrenti ragioni.
2.1. Innanzitutto, la qualificazione del fatto nel reato di cui all’art. 495 cod. pen. è corretta, giacché è principio sedimentato nella giurisprudenza di questa Corte che il Collegio intende ribadire quello secondo cui integra il reato di cui all’art. 495 cod. pen., la condotta di colui che, privo di documenti di identificazione, fornisca ai carabinieri, nel corso di un controllo stradale, false dichiarazioni sulla propria identità, considerato che dette dichiarazioni – in assenza di altri mezzi di identificazione – rivestono carattere di attestazione preordinata a garantire al pubblico ufficiale le proprie qualità personali, e, quindi, ove mendaci, ad integrare la falsa attestazione che costituisce l’elemento distintivo del reato di cui all’art. 495 cod. pen., nel testo modificato dalla legge n. 125 del 2008, rispetto all’ipotesi di reato di cui all’art. 496 cod. pen. (Sez. 5, n. 7286 del 26/11/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 262658 – 01; in termini, Sez. 5, n. 25649 del 13/02/2018, COGNOME, Rv. 273324 – 01, sulle dichiarazioni rese ad una controllore di un servizio di trasporto urbano; Sez. 5, n. 47044 del 10/07/2019, COGNOME, Rv. 277839 – 01, sulle dichiarazioni rese al capotreno). Ciò che viene in rilievo quale chiave di volta di tutti i precedenti citati è il concetto di ‘attestazione’ circa le proprie generalità che la dichiarazione del privato integra laddove non vi siano altri strumenti di identificazione, attestazione che è destinata a fare fede di quanto dichiarato rispetto all’attività del pubblico ufficiale, peraltro a prescindere dalla confluenza di dette dichiarazioni in un atto pubblico, dopo la novella della disposizione in parola ex d.l. 23 maggio 2008, n. 92 conversazione in l. 24 luglio 2008, n. 125.
L’argomentazione difensiva secondo la quale il ritrovamento, da parte della polizia giudiziaria, all’interno del veicolo, dei documenti dei due Goman, che aveva consentito di disvelare rapidamente il mendacio, inciderebbe sulla qualificazione giuridica del fatto nei sensi pretesi nei ricorsi è radicalmente infondata, giacché mira a valorizzare un post fatto del tutto indipendente dall’iniziativa degli imputati ed inidoneo ad intaccare la tipicità della condotta, perfezionatasi prima che un’iniziativa della polizia giudiziaria consentisse di ritrovare fortuitamente i documenti dei due e di attribuire a ciascuno le rispettive generalità.
2.2. Quanto alla pretesa delle parti di ottenere la derubricazione nel reato di cui all’art. 494 cod. pen. perché l’un imputato si era sostituito all’altro, essa è del pari manifestamente infondata giacché è principio pacifico, fondato innanzitutto sulla clausola di salvezza posta nell’ incipit della disposizione, che il delitto di sostituzione di persona ex art. 494 cod. pen. ha carattere sussidiario, donde, allorquando l’induzione in errore, al fine di vantaggio o di danno, è commessa mediante l’attribuzione di un falso nome in una dichiarazione resa ad un pubblico ufficiale in un atto pubblico, ovvero all’autorità giudiziaria, è configurabile soltanto il più grave reato previsto dall’art. 495 cod. pen (Sez. 5, n. 45527 del 15/06/2016, Moglianesi, Rv. 268468 – 01; Sez. 6, n. 8152 del 19/05/1987, COGNOME, Rv. 176368 – 01).
Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così è deciso, 09/05/2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente NOME COGNOME
NOME COGNOME