Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 21000 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 21000 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 16/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
dalla parte civile RAGIONE_SOCIALE ANCHE QUALE RAGIONE_SOCIALE
nel procedimento a carico di:
NOME nato a Padova il 01/03/1941
avverso la sentenza del 13/09/2024 della CORTE APPELLO di ROMA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME
udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
udito per la parte civile ricorrente l’avv. NOME COGNOME che ha insistito per l’accoglimento del ricorso;
uditi per NOME COGNOME i difensori, prof. avv. COGNOME il quale ha concluso per il rigetto del ricorso e avv. NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del medesimo ricorso;
RITENUTO IN FATTO
1.Con la sentenza impugnata la Corte d’Appello di Roma, riformando la pronuncia di primo grado, ha assolto NOME COGNOME dal delitto di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen. in relazione ad un falso ideologico per induzione rispetto ad una sentenza del Consiglio di Stato.
Segnatamente, secondo la prospettazione accusatoria, l’imputato, nella veste di legale rappresentante della società RAGIONE_SOCIALE nel giudizio di appello dinanzi al giudice amministrativo avverso il provvedimento di esclusione di tale società dal bando di gara indetto dal Ministero per lo Sviluppo Economico in data 5 settembre 2012, relativo all’assegnazione dei diritti d’uso per la trasmissione radiotelevisiva in tecnica digitale nella Regione Veneto, poneva in essere una condotta ingannatoria tale da indurre in errore l’autorità giudiziaria. Invero, poiché l’esclusione era stata determinata anche dalla mancata attribuzione del punteggio relativo al patrimonio netto (in forza dell’omessa separazione contabile, nell’ultimo bilancio depositato prima del bando, tra le attività di operatore di rete e quelle di fornitore di servizi), NOME COGNOME aveva depositato un’attestazione della Camera di Commercio di Padova sul deposito del bilancio dell’anno 2011 e del relativo verbale in data 4 settembre 2012, antecedente alla pubblicazione del bando, senza precisare che in realtà i predetti documenti erano stati inseriti nella pratica aperta nella predetta data due giorni dopo, quando il bando era stato ormai pubblicato, e quindi non in tempo utile per ottenere il punteggio. Di qui, il Consiglio di Stato sarebbe stato indotto in errore, emanando una sentenza (la n. 5307 del 23 novembre 2015), da ritenersi ideologicamente falsa, nella parte in cui, accogliendo l’appello proposto dalla RAGIONE_SOCIALE aveva affermato che il deposito da parte di questa del bilancio e del verbale di assemblea attestante detta separazione contabile presso l’ente camerale di Padova era avvenuto il 4 settembre 2012, ossia in data antecedente al bando.
Accedendo alla ripercorsa prospettazione accusatoria, il Tribunale di primo grado riteneva l’imputato responsabile del reato ascritto poiché, dimostrato, in forza dell’espletata attività istruttoria, che il verbale assembleare contenente la menzione della separazione contabile era stato effettivamente depositato solo il 6 settembre 2012, assumeva che tale circostanza di fatto era rimasta ignota al
Consiglio di Stato in quanto non esplicitata nel giudizio amministrativo dallo RAGIONE_SOCIALE e che, in ogni caso, non era emerso in concreto che era stata realmente attuata la richiesta separazione contabile.
La Corte d’Appello di Roma – premesso che non era oggetto del giudizio la circostanza che fosse stata, o meno, effettivamente realizzata la separazione patrimoniale richiesta dal bando – ha ritenuto, di contro, che, pur a fronte dell’intervenuta prescrizione del reato, sussistessero evidenti elementi idonei a dimostrare l’assenza di responsabilità penale dell’imputato, assolvendolo per insussistenza del fatto.
In sostanza, secondo il giudice d’appello, NOME COGNOME si era limitato a depositare la documentazione che aveva inviato alla Camera di commercio, senza precisare che, dopo la pubblicazione del bando da parte del Ministero, ossia il 6 settembre 2012, aveva sostituito il verbale assembleare.
In virtù dell’indicato presupposto, la decisione impugnata ha ritenuto che tale condotta non potesse indurre in errore il Consiglio di Stato, specie poiché la difesa del Ministero dello Sviluppo economico non aveva svolto alcuna eccezione in proposito e tenuto altresì conto che lo stesso Consiglio di Stato aveva rigettato il ricorso per revocazione ex art. 395, comma 1, c.p.c., proposto da alcune emittenti locali contro la sentenza n. 5507 del 2015, non ritenendo configurabile il dolo dello Chasen.
Avverso la richiamata sentenza della Corte di Appello di Roma la parte civile RAGIONE_SOCIALE anche quale incorporante RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione deducendo, con il proprio difensore, avv. NOME COGNOME tre motivi, di seguito ripercorsi nei limiti necessari per la decisione.
2.1. Con il primo, articolato motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., nullità della sentenza per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione emergente dal testo della stessa.
Sotto un primo aspetto, la parte civile si duole dell’irragionevolezza della motivazione rispetto all’assunta condotta omissiva contestata nel capo di imputazione poiché, a differenza di quanto ritenuto dalla decisione impugnata, lo Chasen aveva dapprima depositato alla Camera di commercio, solo il 6 settembre 2012, un verbale assembleare sostitutivo del precedente nel quale era attestata la separazione contabile richiesta dal bando pubblicato il giorno precedente e, di seguito, prodotto nel giudizio dinanzi al Consiglio di Stato l’attestazione della Camera di commercio del deposito del verbale in data 4 settembre 2012, ossia con la dicitura utile per ottenere il punteggio previsto dal
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bando. Di qui, la ricorrente sottolinea che la condotta non si era limitata alla forma omissiva consistente nel tacere la sostituzione del verbale ma si era realizzata anche nella forma attiva, in quanto il deposito effettuato nel giudizio amministrativo aveva indotto in errore l’autorità giudiziaria.
Soggiunge, inoltre, che la pronuncia d’appello sarebbe manifestamente illogica laddove avrebbe assunto che, in realtà, il Consiglio di Stato non aveva esaminato il merito della questione del c.d. doppio deposito, avendo affermato che era decisivo l’errore nel quale era incorso il Ministero nell’assumere come rilevante, ai fini della tardività della produzione documentale, la circostanza che questa fosse avvenuta il 3 ottobre 2012, quando la Camera di commercio aveva pubblicato gli atti. Invero, ciò sarebbe stato affermato dal Consiglio di Stato sull’erroneo presupposto, frutto della condotta decettiva dello Chasen, che questi avesse depositato tempestivamente, ossia il 4 settembre 2012, tutta la documentazione necessaria alla Camera di commercio, sicché eventuali ritardi di quest’ultima nella pubblicazione degli atti sarebbero stati privi di rilievo.
Sotto un secondo aspetto, la ricorrente denuncia motivazione apparente e travisamento della prova con riferimento alle circostanze dedotte dalla propria difesa nella memoria depositata dinanzi alla Corte d’Appello di Roma il 2 settembre 2024.
Innanzi tutto, il vizio verterebbe sulla circostanza che, a seguito dell’accoglimento del ricorso da parte del TAR, il Ministero, nel rivalutare la posizione della società RAGIONE_SOCIALE in punto di attribuzione dei punteggi per il requisito patrimoniale, aveva ribadito, poiché non risultava dagli atti depositati l’avvenuta separazione patrimoniale, che il punteggio non era stato attribuito in quanto, solo nella data del 3 ottobre 2012, successiva al bando, esso era risultato integrato, sicché la medesima società non poteva vantare alcun diritto all’attribuzione di punteggio per quella voce perché la prova della separazione patrimoniale ritraibile dalla dichiarazione di atto notorio era tardiva.
Pertanto, l’errore nel quale sarebbe incorsa la Corte d’Appello sarebbe stato quello di non aver considerato l’elemento fondamentale posto alla sua attenzione con la memoria, ossia che alla domanda di partecipazione al bando non era stato allegato il verbale assembleare del 10 agosto 2012 con attestazione della separazione contabile bensì una dichiarazione di notorietà inutile allo scopo, datata 3 ottobre 2012, dichiarazione cui aveva fatto riferimento il Ministero.
Di qui, dato che il TAR, recependo tale impostazione, aveva rigettato il ricorso della società RAGIONE_SOCIALE a fronte dell’appello di quest’ultima al Consiglio di Stato, né il Ministero, né l’Avvocatura dello Stato che lo rappresentava, avevano ritenuto necessario, come impropriamente richiesto dalla Corte d’Appello, formulare alcuna osservazione su una circostanza che era già chiarita, ossia che
alla data del bando il requisito era insussistente. Tuttavia, il Ministero non aveva mai ritenuto nella propria determina, come assunto al contrario dalla decisione impugnata, travisando le risultanze probatorie, che il 3 ottobre 2012 fosse stata depositata la documentazione attestante la separazione patrimoniale poiché questa non emergeva comunque dal bilancio e dal verbale che, anzi, esprimeva valori contraddittori.
2.2. Mediante il secondo motivo la ricorrente deduce violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., per inosservanza degli artt. 48 e 479 cod. pen.
A fondamento della doglianza premette che la società RAGIONE_SOCIALE nei motivi di appello, aveva contestato che la propria condotta potesse costituire “presupposto” del provvedimento giurisdizionale e che la Corte territoriale non aveva preso posizione su tale questione.
La parte civile – premesso che nella giurisprudenza di legittimità è ormai riconosciuta, a differenza di quanto avveniva in passato, la configurabilità del reato di falsità ideologica in atto pubblico anche per gli atti a contenuto dispositivo – sottolinea che il Consiglio di Stato non è stato tratto in inganno nell’interpretazione della certificazione della Camera di commercio, bensì sul fatto che essa attestava, ovvero su una circostanza inesistente, fatta apparire dall’imputato come esistente (le. la documentazione della separazione contabile prima del 4 settembre 2012), decisiva per la pronuncia di accoglimento del giudice amministrativo.
2.3. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., nullità della sentenza per manifesta illogicità dell motivazione con riguardo all’utilizzo dei criteri civilistici per la valutazione circa sussistenza del danno, ciò che avrebbe dovuto fare, in forza dei canoni espressi dalla sentenza n. 182 del 2021 della Corte Costituzionale, pur a fronte di una pronuncia assolutoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.In via preliminare non è fondata l’eccezione di tardività della memoria depositata dalla difesa dello Chasen il 9 aprile 2025 poiché, considerato che il ricorso è stato promosso dalla parte civile, la stessa – le cui argomentazioni sono state ad ogni modo ripercorse dai difensori nel corso della discussione orale può essere considerata alla stregua di una memoria di replica.
2.Nel merito, i primi due motivi di ricorso, suscettibili di valutazione unitaria, non sono fondati.
2.1. A riguardo, occorre premettere, in termini generalissimi, che il delitto di falso per induzione si configura quando la falsità dell’atto si correla all’attivit decettiva di un altro soggetto causativa dell’errore dell’autore immediato.
In particolare, nella giurisprudenza di questa Corte è stato chiarito che l’inganno da cui deriva la responsabilità ex art. 48 cod. pen. può consistere in qualunque artificio o in un altro comportamento idoneo a sorprendere l’altrui buona fede, attraverso il quale l’autore mediato induca in errore l’autore immediato del delitto (Sez. 5, n. 13249 del 13/01/2006, COGNOME, Rv. 234104; Sez. 6, n. 10159 del 27/10/1989, dep. 1990, COGNOME, Rv. 184861).
2.2. Con riguardo alla problematica che viene in rilievo nel giudizio in esame, occorre considerare che le decisioni giudiziarie rientrano nel novero degli atti dispositivi, ossia quelli che consistono in una manifestazione di volontà e non nella rappresentazione o descrizione di un fatto.
In proposito, Sez. U, n. 1827 del 03/02/1995, COGNOME, Rv. 200117 – nel solco della quale si sono poste, negli anni successivi, ribadendone le conclusioni, Sez. U, n. 35488 del 28/06/2007, COGNOME, Rv. 236867 – ha chiarito che anche nell’atto dispositivo è configurabile la falsità ideologica in relazione alla part “descrittiva” in esso contenuta e, più precisamente, all’attestazione, non conforme a verità, dell’esistenza di una data situazione di fatto costituente il presupposto indispensabile per il compimento dell’atto, a nulla rilevando che tale attestazione non risulti esplicitamente dal suo tenore formale, poiché, quando una determinata attività del pubblico ufficiale, non menzionata nell’atto, costituisce indefettibile presupposto di fatto o condizione normativa dell’attestazione, deve logicamente farsi riferimento al contenuto o tenore implicito necessario dell’atto stesso, con la conseguente irrilevanza dell’omessa menzione, talora scaltramente preordinata, ai fini della sussistenza della falsità ideologica (Sez. U, n. 1827 del 03/02/1995, Rv. 200117, con riguardo ad una fattispecie relativa al verbale di un esame di laurea e al rilascio di un diploma di laurea, entrambi atti dispositivi, siccome contenenti l’approvazione del candidato e la sua proclamazione di “dottore”, che, facendo riferimento all’adempimento, da parte del candidato stesso, di tutte le condizioni stabilite dal regolamento universitario, sono stati ritenuti ideologicamente falsi in relazione all’attestazione implicita di “verità” di documenti e certificati concernenti esami di profitto viziat di falsità, materiale e/o ideologica, non essendo stati i relativi esami mai sostenuti, pur risultando regolarmente superati).
Negli anni successivi, tale orientamento era stato posto in discussione dalla concezione più restrittiva espressa, tra le altre, da Sez. 5, n. 38453 del 25/09/2001, Perfetto, Rv. 220001, secondo cui – per quel che maggiormente rileva in questa sede – l’ipotesi nella quale il soggetto ingannato non solo riproduce la dichiarazione del mentitore, ma la utilizza anche come premessa di un’argomentazione, che esiti in una conclusione errata, non integra il reato di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen. perché, sebbene siano false tanto la dichiarazione del mentitore quanto la conclusione del soggetto ingannato, costui commette un errore e non un falso, in quanto la proposizione che viene assunta come premessa del ragionamento dal soggetto ingannato non è immediatamente descrittiva del fatto rappresentato dal mentitore, bensì dell’intervenuta dichiarazione di costui. Con la conseguenza che la falsità della conclusione dell’argomento non dipende dalla falsità della premessa, che è vera, bensì dall’invalidità dell’argomento, nel quale la conclusione viene tratta come conseguenza necessaria dell’attestazione del mentitore, senza considerare la possibilità che questa sia falsa.
La richiamata sentenza “COGNOME” ha tuttavia ribadito che il falso ideologico nei documenti a contenuto dispositivo può investire le attestazioni, anche implicite, dell’atto e i presupposti di fatto giuridicamente rilevanti ai fini della part dispositiva dell’atto medesimo, che concernano fatti compiuti o conosciuti direttamente dal pubblico ufficiale, ovvero altri fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità (Sez. U, n. 35488 del 28/06/2007, COGNOME, Rv. 236867).
2.3. La giurisprudenza di legittimità, nell’elaborazione successiva, ha così riconosciuto in diverse occasioni che anche il delitto di falso ideologico per induzione può essere integrato in fattispecie nelle quali la falsità riguardi atti aventi contenuto dispositivo come i provvedimenti giudiziari, qualora l’induzione in errore abbia ad oggetto le premesse dalle quali muove il ragionamento del giudice.
In particolare, sulla scorta dei principi sanciti dalle richiamate sentenze delle Sezioni Unite, si è tra l’altro ritenuto che il delitto in esame è integrato: dalla condotta di colui che, mediante la falsificazione di un titolo di credito, induca il giudice ad emettere un decreto ingiuntivo, in quanto in esso il pubblico ufficiale attesta, in modo non conforme al vero, l’esistenza di una situazione costituente il presupposto indispensabile per il compimento dell’atto (Sez. 5, n. 48389 del 24/09/2014, Di NOME, Rv. 261969); dalla condotta dell’avvocato che, instaurando procedimenti civili in forza di procure apparentemente rilasciate da persone in realtà ignare o già decedute, induce il giudice all’emissione di sentenze di accoglimento delle relative domande (Sez. F, n. 39192 del
29/08/2013, COGNOME, Rv. 257018); dalla falsità della procura alle liti che induca in errore l’autorità giudiziaria sulla legittimazione del difensore a compiere atti processuali consentendo gli stessi in una ipotesi nella quale dovrebbe dichiarare l’inammissibilità dell’azione (Sez. 5, n. 5861 del 20/12/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 258346).
2.4. Come si evince dalle pronunce richiamate, la falsità ideologica (e, dunque, quella per induzione che ad essa si correla) è allora sì configurabile anche rispetto ad una manifestazione di giudizio, quale è la sentenza, ma solo con riferimento alla sussistenza dei presupposti necessari per l’adozione dell’atto.
Ciò implica che debba essere effettuata una distinzione rispetto alle decisioni giudiziarie che possono ritenersi, in forza di questo criterio, ideologicamente false da quelle che sono, in tesi, solo espressione di erronee valutazioni del materiale istruttorio a disposizione da parte dell’organo giudicante.
A riguardo, non si può trascurare che, rispetto alla più ampia nozione di “falso valutativo”, le Sezioni Unite di questa Corte hanno posto in rilievo che occorre considerare che l’atto valutativo comporta necessariamente un apprezzamento discrezionale del valutatore, apprezzamento che può essere più o meno ampio a seconda dei criteri eventualmente previsti sul piano normativo per limitare il relativo potere (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli, §§ 9.5., 9.6. e 9.7). Dunque, la valutazione può dirsi falsa solo se esonda i limiti del vaglio discrezionale consentito sul piano legislativo al soggetto chiamato ad emanare l’atto.
Questo principio, rispetto alle decisioni giudiziarie, comporta che la falsità ideologica sia configurabile soltanto a fronte di una statuizione che, dinanzi ad un determinato presupposto, non avrebbe potuto che essere quella, escludendo qualsivoglia valutazione discrezionale dell’organo giudicante.
Dal che deriva, correlativamente, che il delitto di falso ideologico per induzione è configurabile solo se l’attività decettiva commessa dall’autore mediato si pone quale ineludibile premessa della decisione che, in forza del presupposto sul quale la stessa attività decettiva si estrinseca, deve essere pronunciata dall’autore immediato.
In GLYPH sostanza, GLYPH una GLYPH pronuncia GLYPH giudiziaria GLYPH può GLYPH essere GLYPH considerata ideologicamente falsa per induzione solo quando una delle parti depositi documenti falsi o renda dichiarazioni non veritiere che, oltre a rivestire carattere decisivo per la definizione della controversia, escludano ex lege qualsivoglia successiva valutazione demandata all’autorità giudiziaria.
Un esempio normativamente disciplinato che consente di comprendere il fenomeno è, nel processo civile, quello del giuramento c.d. decisorio: infatti, in
virtù dell’art. 2736 cod. civ., se una parte deferisce all’altra il giuramento su circostanze favorevoli alla parte chiamata a giurare, la controversia non può che essere definita in senso favorevole alla parte che giura (Sez. 1 civ., n. 9831 del 07/05/2014, Rv. 631124 – 01; Sez. 3 civ., n. 24025 del 13/11/2009, Rv. 610118 – 01), e ciò anche se è giurato il falso, circostanza, questa, che non può portare alla caducazione della sentenza, ferma la responsabilità sul piano penale di colui che ha prestato il giuramento per il delitto di cui all’art. 371 cod. pen.
Per altro verso, una decisione giudiziaria è invece solo frutto di una valutazione errata quando il giudice, nell’ambito dei poteri ad esso attribuiti a seconda del tipo di processo e del complesso della documentazione e del materiale istruttorio messo a disposizione dalle parti, pervenga ad un esito non corrispondente all’accertamento della verità materiale per un errore nella valutazione delle prove allo stesso liberamente demandata nell’ambito dell’esercizio dei suoi poteri discrezionali. Con la conseguenza che, rispetto agli atti e alle risultanze dell’istruttoria oggetto di valutazioni rimess all’apprezzamento dell’organo giudicante, un’ipotetica attività decettiva della parte non ne determina la responsabilità penale per il delitto di falso ideologico per induzione, atteso che l’erroneità della decisione non dipende in via immediata e diretta da quella attività decettiva sulla quale si innesta l’autonomo potere valutativo delle complessive risultanze istruttorie da parte del giudice.
2.5. Alla luce di quanto premesso, i primi due motivi di ricorso non sono fondati.
Infatti, come si evince anche dalle ipotesi richiamate in via esemplificativa nelle quali è stata riconosciuta la configurabilità del delitto di falso per induzione in atto pubblico in relazione a decisioni giudiziarie, ciò è avvenuto con riguardo a fattispecie molto diverse da quella in esame, poiché caratterizzate dalla produzione di documenti falsi indispensabili per la decisione della controversia nel merito (ad esempio, procura all’avvocato: Sez. 5, n. 5861 del 20/12/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 258346) oppure per l’accoglimento della domanda monitoria (ad esempio, produzione di falsi titoli di credito a corredo del ricorso per ingiunzione: Sez. 5, n. 48389 del 24/09/2014, COGNOME, Rv. 261969) da parte dell’autorità giudiziaria ed a fronte del deposito dei quali, dunque, l’esito divisato non poteva che essere quello auspicato dall’autore mediato.
Nel giudizio dinanzi al Consiglio di Stato la società RAGIONE_SOCIALE invece, ha depositato un’attestazione della Camera di commercio che non può considerarsi falsa anche rispetto alla data ivi indicata della produzione della documentazione da parte della società medesima poiché, come è stato chiarito nell’istruttoria in
forza delle dichiarazioni della funzionaria preposta della locale Camera di commercio, a fronte dell’apertura di una pratica, per prassi dell’ente, a tutti gli atti che vi sono depositati, sino alla chiusura di essa, è attribuita la medesima data dell’apertura.
Se è vero che, a fronte di tale prassi e della data di conseguenza favorevole per l’attribuzione del punteggio risultante dalla certificazione, lo Chasen potrebbe aver cercato, non puntualizzando che il verbale attestante la sussistenza del requisito della separazione patrimoniale era stato depositato solo il 6 settembre 2012, di far prevalere la propria tesi in giudizio, tuttavia questa condotta non può – in assenza, giova ribadire, della produzione di un atto falso nonché di artifizi e raggiri idonei a colorare ulteriormente la condotta della parte per indurre l’autorità giudiziaria ad emanare la pronuncia auspicata – essere ricondotta alla fattispecie di reato di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen.
In sostanza, a tutto concedere, il Consiglio di Stato potrebbe aver compiuto un errore nella valutazione della documentazione complessiva messa a disposizione per la decisione sull’appello, documentazione in cui – è opportuno sottolineare – era ricompresa tutta quella relativa al giudizio di primo grado, in forza della quale avrebbe potuto avere autonoma contezza (i.e. senza la necessità, a differenza, sotto tale aspetto, di quanto affermato dalla Corte territoriale, di un’eccezione della controparte) del meccanismo attuato dalla Camera di commercio per la datazione dei documenti pervenuti in un momento successivo all’apertura di un procedimento e, pertanto, assumere, sempre astrattamente, una volta valutati gli ulteriori presupposti, una differente decisione nonostante la produzione da parte della società appellante dell’attestazione della camera di commercio. Produzione che, dunque, non può essere considerata attività ingannatoria correlata in via immediata e diretta ad un, peraltro solo ipotetico, errore dell’autorità giudiziaria.
Il terzo motivo è manifestamente infondato, poiché, a fronte di una pronuncia assolutoria in sede di gravame, il giudice penale non può condannare l’imputato al risarcimento del danno in favore della parte civile.
Tale potere, infatti, è conferito dall’art. 578, comma 1, cod. proc. pen. in via eccezionale al giudice dell’impugnazione nella sola (ben) diversa ipotesi nella quale interviene una declaratoria di estinzione del reato, per il quale nei confronti dell’imputato era stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile. In questo caso, infatti, il giudice d’appello o di legittimità decide sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili.
Tale potere, dunque, non può essere esteso all’ipotesi in cui, pur a fronte della prescrizione maturata, nel giudizio di impugnazione l’imputato venga
assolto per insussistenza del fatto, come è avvenuto nel caso in esame.
Ciò si porrebbe, del resto, in contrasto con la stessa ratio
della disposizione espressa dall’art. 578, comma 1, cod. proc. pen., costituita, come sancito dalla
fondamentale sentenza n. 182 del 2021 della Corte Costituzionale, dall’esigenza di evitare che «cause estintive del reato, indipendenti dalla volontà delle parti,
possano frustrare il diritto al risarcimento e alla restituzione in favore della persona danneggiata dal reato, qualora sia già intervenuta sentenza di
condanna, oggetto di impugnazione; finalità questa che si coniuga alla necessità
di salvaguardare evidenti esigenze di economia processuale e di non dispersione dell’attività di giurisdizione».
4. Nel complesso, pertanto, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna l a ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 16 aprile 2025 Il Consigliere Estensore COGNOME
Il Presidente