Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 43094 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 43094 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 16/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOME nato a Pescara il DATA_NASCITA avverso la sentenza del 16/04/2024 della Corte di appello di Roma visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME AVV_NOTAIO; udito il Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso; udito il difensore delle parti civili, AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo la conferma della sentenza impugnata, ha depositato conclusioni scritte e nota spese; udito il difensore dell’imputato, AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Roma ha confermato, anche agli effetti civili, la condanna di COGNOME NOME in ordine ai seguenti delitti:
capo A) – sostituzione di persona (art. 494 cod. pen.) commesso “nel mese di marzo 2016” e consistito nell’essersi presentato all’agente immobiliare COGNOME NOME, come nipote di COGNOME NOME rappresentando l’intenzione della parente di vendere la villa di sua proprietà sita a Grottaferrata, località Capo Croce;
capo C) – falso, per induzione, in atto pubblico (art. 48 e 476 cod. pen. capo C), perché, «in concorso con altri soggetti non identificati, con inganno rappresentato nel produrre al AVV_NOTAIO le false carte di identità intestate rispettivamente a COGNOME NOME e a COGNOME NOME, nonché la falsa attestazione di cui al capo 8), induceva in errore il predetto AVV_NOTAIO che redigeva il contratto di compravendita del fabbricato di cui al capo A), trasferendone la proprietà dalla effettiva titolare NOME a COGNOME NOME».
L’imputato era stato già assolto in primo grado, con la formula “perché il fatto non sussiste”, dalla residua imputazione di cui al capo B) consistente nella formazione di un falso attestato di prestazione energetica riferito all’immobile di cui al capo A), atto recante le false sottoscrizioni di COGNOME NOME e di COGNOME NOME materialmente predisposto da COGNOME NOME ma firmato dall’imputato.
La Corte di appello ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica di Roma nei confronti del testimone NOME COGNOME, dubitando della genuinità della sua deposizione.
Avverso la sentenza ricorre l’imputato, tramite il difensore, articolando quattro motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Con il primo deduce vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità dell’imputato per il delitto di sostituzione di persona (capo A).
Sostiene che la Corte di appello non avrebbe superato, con adeguati argomenti, le obiezioni difensive in punto di affidabilità delle dichiarazioni di COGNOME NOME: il testimone avrebbe riconosciuto l’imputato in una fotografia, l’unica mostratagli, scaricata da un non meglio individuato profilo social, a cui riferibilità all’imputato sarebbe rimasta indimostrata; nel corso del suo esame dibattimentale COGNOME avrebbe fornito una ricostruzione della vicenda invertendo l’ordine cronologico degli accadimenti rispetto a quanto riferito in sede di sommarie informazioni (come risulta dalle contestazioni mosse dalla difesa in sede di controesame); le dichiarazioni dello stesso non collimerebbero con il racconto degli altri testimoni in particolare di COGNOME NOME e COGNOME NOME.
2.2. Il secondo motivo denuncia analoghi vizi sulla ritenuta responsabilità dell’imputato per il delitto di falso in atto pubblico di cui al capo C).
Il giudice di primo grado aveva desunto la responsabilità dell’imputato dalla circostanza che lo stesso aveva sottoscritto l’attestato di prestazione energetica presentato al AVV_NOTAIO per la predisposizione dell’atto pubblico di compravendita.
Con l’atto di gravame il difensore contestava l’automaticità di una simile conclusione, in assenza di prova della consapevolezza, in capo all’imputato, della strumentalità dell’attestato rispetto alla induzione in errore del AVV_NOTAIO, soprattutto considerando la comprovata estraneità dell’imputato all’attività dinanzi al AVV_NOTAIO (l’attestato era stato consegnato dalla “parte acquirente” mai identificata).
La Corte di appello supera l’obiezione in maniera contraddittoria, incorrendo anche nel travisamento delle dichiarazioni del teste COGNOME, in quanto: svaluta il verdetto assolutorio, divenuto definitivo, sulla condotta di falso di cui al capo B); assegna valore a circostanze tra loro inconciliabili quali, da un lato, la presenza di un terzo soggetto – oltre a COGNOME e l’imputato – al quale il primo avrebbe consegnato l’attestato e, dall’altro, la ritenuta disponibilità dell’attestato da parte dell’imputato; elementi fattuali che, peraltro, non emergerebbero dalla deposizione di COGNOME.
2.3. Con il terzo motivo il ricorrente contesta il riconoscimento della recidiva; con il quarto la mancata sostituzione della pena detentiva con la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità.
Si è proceduto a discussione orale su richiesta del difensore dell’imputato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato limitatamente al capo C).
Il primo motivo è inammissibile.
La doglianza per un verso è generica e, per altro verso, manifestamente infondata.
2.1. È generica nella parte in cui non si confronta con le risposte già ottenute dalla Corte di appello che ha fornito ampia motivazione circa la piena credibilità soggettiva e attendibilità della deposizione testimoniale resa da COGNOME NOME, occupandosi, in modo analitico e senza cadute logiche, di confutare nel merito le doglianze difensive, riproposte in questa sede in punto di: affidabilità del riconoscimento (pag. 6); riscontri ricevuti da fonti esterne sia dichiarative sia
documentali (pag. 5); superamento delle censurate discrasie, ritenute irrilevanti, in merito al succedersi degli eventi (pag. 5).
2.2. La doglianza, poi, è manifestamente infondata nella parte in cui lamenta una inversione dell’onere probatorio in punto di riferibilità all’imputato della immagine riprodotta nella fotografia esibita a COGNOME.
Il ragionamento dei giudici di merito è lineare: l’immagine utilizzata per il riconoscimento è stata scaricata da un profilo soda! dell’imputato (come dichiarato dall’operante di AVV_NOTAIO, cfr. pag. 5 sentenza di primo grado); quindi, in base alle risultanze processuali, è dimostrato che il soggetto lì ritratto è l’imputato, a fronte di tanto spettava all’imputato introdurre circostanze idonee quantomeno far dubitare della certezza del dato come sopra acquisito (se non a smentirlo, semplicemente producendo la propria carta di identità); ciò non è accaduto, quindi non emergono, all’interno del processo, elementi capaci di porre in discussione gli esiti di quella acquisizione probatoria (cfr. pag. 6 sentenza impugnata).
Il secondo motivo, che investe il capo C), è fondato nei termini di seguito indicati.
3.1. Occorre, anzitutto, confrontarsi con i caratteri della figura di reato oggetto di addebito.
L’imputazione ascrive all’imputato di aver concorso, con persone non identificate, nella creazione di un falso atto pubblico di compravendita, inducendo in errore il AVV_NOTAIO.
Il capo di imputazione richiama gli artt. 48-476 cod. pen. (falso materiale in atto pubblico), ma è pacifico, dalla descrizione della condotta, che la contestazione riguarda il delitto di falso ideologico in atto pubblico (479 cod. pen.).
In sostanza, nel contesto della stipula di un atto pubblico di compravendita, sono stati esibiti da venditore e acquirenti falsi documenti di identità che hanno indotto il AVV_NOTAIO, tenuto a verificare l’identità delle parti nei modi previsti dal legge notarile, sia ad una falsa attestazione dell’identità dei contraenti sia ad una falsa attribuzione delle dichiarazioni negoziali ricevute (cfr. Sez. 5, n. 22839 del 17/04/2019, COGNOME Domenico, Rv. 276632 – 01).
L’art. 476 cod. pen. (rectius l’art. 479 cod. pen.) viene collegato all’art. 48 cod. pen., a mente del quale, quando l’agente sia indotto in errore sul fatto costituente reato, «del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo».
Lo schema normativo risultante dalla combinazione degli articoli indicati viene così a configurare una fattispecie particolare di falsità ideologica, che, come fa notare autorevole dottrina, vede capovolto il normale rapporto tra falso e inganno,
in quanto è il secondo a precedere il primo. In questi casi, infatti, un soggetto (autore immediato), indotto in errore da altri (autore mediato), si forma ed esterna una falsa rappresentazione della realtà, dando corpo agli estremi oggettivi di un delitto di falso ideologico, di cui non risponde per mancanza di dolo, ma che viene addebitato all’autore dell’inganno. E poiché sovente lo stesso inganno consiste di una falsa dichiarazione compiuta dall’autore mediato e supposta vera dall’autore immediato, ne consegue che questa peculiare fattispecie richiede una falsità (quella commessa dall’autore mediato) che sia causa di un’altra falsità (quella commessa, inconsapevolmente, dall’autore immediato).
3.2. Nella fattispecie in rassegna il giudice di merito -al di là di come l’organo di accusa ha concepito la contestazione – deve chiedersi, in primo luogo, se l’autore immediato (AVV_NOTAIO) sia stato davvero tratto in inganno dagli autori mediati, oppure sia stato consapevole della falsità nel momento in cui ha attestato di essere certo della identità dei contraenti quando per uno di essi disponeva soltanto di una mera fotocopia della carta di identità “oscurata” nella parte relativa alla fotografia.
Risolta la questione (e assunte le eventuali conseguenti determinazioni di competenza), tenuto conto che le indagini non sono mai pervenute alla identificazione dei due soggetti presentatisi come COGNOME NOME e COGNOME NOME, e che, quindi, questi due autori mediati sono rimasti ignoti, il giudice di merito deve indicare le ragioni per le quali ritiene dimostrata la responsabilità dell’odierno imputato, specificandone il consapevole apporto partecipativo.
È stato appurato che l’imputato ha sottoscritto, come professionista, l’attestato di prestazione energetica poi consegnato al AVV_NOTAIO, da una delle parti contraenti, in vista della redazione della “finta” compravendita. L’attestato è corredato dalla “foto legalizzata” dell’imputato (cfr. pag. 7 sentenza di secondo grado).
L’attestato non può più qualificarsi giuridicamente come “falso”, poiché il primo giudice ne ha escluso la penale rilevanza, così motivando: “è ininfluente che l’atto fosse corredato dalle firme contraffatte della COGNOME e di COGNOME (come da costoro pure confermato), atteso che le sottoscrizioni dei committenti non sono affatto necessarie per la validità dell’atto di cui trattasi e non essendovi comunque prova certa che tale attestato rappresentasse dati di fatto non veritieri in merito al compendio immobiliare, non essendo stata tale questione comprovata con sufficienza in dibattimento (pur avendo confermato il COGNOME che egli non visionò effettivamente gli immobili, ma si basò unicamente sui dati fornitigli dagli interessati” (cfr. sentenza di primo grado pag. 6; della conclusione, non
suscettibile di rivisitazione in assenza di impugnazione del pubblico ministero, prende atto anche il giudice di secondo grado a pag. 7 della sentenza di appello).
In tale ottica è necessario allora che il quadro probatorio raccolto consenta di affermare, al di là di ogni ragionevole dubbio, in cosa sia consistito esattamente il contributo offerto all’imputato e di sostenere che l’agire dell’imputato fosse sorretto dalla consapevolezza di concorrere nella successiva formazione dell’atto pubblico falso.
3.3. Su questo punto la sentenza di primo grado si arresta a una frettolosa affermazione, laddove ricava la responsabilità dell’imputato: “dalla connessione teleologica e il loro concepimento all’interno di un unico disegno criminoso, volto ad effettuare una compravendita sine titulo con l’evidente scopo di lucrarne il ricavato” (cfr. pag. 6).
Si tratta di argomento che, nei termini generici esposti, non soddisfa l’onere motivazionale richiesto a sostegno del giudizio di condanna, né risponde alla regola valutativa di cui all’art. 192, comma 2, cod. proc. pen.
Tale lacuna non è colmata dalla sentenza di secondo grado.
Invero la Corte di appello ha ritenuto falsa la deposizione del testimone NOME COGNOME, disponendo la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica.
Di conseguenza sono venuti a cadere tutti gli elementi di fatto forniti dal testimone circa l’incarico ricevuto, le modalità di redazione dell’atto, la consegna dello stesso, le persone presenti.
E allora la Corte di appello avrebbe dovuto spiegare come fosse dimostrata la partecipazione dell’imputato al piano criminoso, facendo ricorso alla prova logica, espungendo, però, le circostanze riferite dal COGNOME.
3.4. Secondo il modello scandito dall’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. il giudice è tenuto a individuare ciascun indizio – da intendersi come fatto certo dal quale, per inferenza logica basata su regole di esperienza consolidate e affidabili, si perviene alla dimostrazione del fatto incerto da provare – e a “caratterizzarlo”.
Ciascuna circostanza di fatto assumibile come indizio deve essere connotata, in primo luogo, dal requisito, non espressamente richiamato ma fondante, della “certezza”, che implica la verifica processuale della sua sussistenza (Sez. 4, n. 39882 del 01/10/2008, COGNOME). L’indicato requisito non può assumersi in termini di assolutezza e di verità in senso ontologico, partecipando, invece, di quella specie di certezza che si forma nel processo attraverso il procedimento probatorio (Sez. 1, n. 31456 del 21/05/2008, COGNOME); esso tuttavia conduce ad evitare che la prova critica (indiretta) possa fondarsi su di un fatto verosimilmente accaduto, supposto o intuito, inammissibilmente valorizzando – contro indiscutibili postulati
di civiltà giuridica – personali impressioni o immaginazioni del decidente o mere congetture (Sez. 1, n. 18149 del 11/11/2015, dep. 2016, Korkaj, Rv. 266882).
La caratterizzazione di ogni indizio passa, in secondo luogo, attraverso i requisiti di gravità, precisione e concordanza. Per gravità deve intendersi la consistenza, la resistenza alle obiezioni, la capacità dimostrativa vale a dire la pertinenza del dato rispetto al thema probandum; per precisione la specificità, l’univocità e la insuscettibilità di diversa interpretazione altrettanto o più verosimile; infine concordanza significa che i plurimi indizi devono muoversi nella stessa direzione, essere logicamente dello stesso segno, e non porsi in contraddizione tra loro.
Il metodo di lettura unitaria e complessiva dell’intero compendio probatorio implica come operazione propedeutica quella di valutare ogni elemento indiziario singolarmente, ciascuno nella propria valenza qualitativa e nel grado di precisione e gravità, per poi valorizzarlo, ove ne ricorrano i presupposti, in una prospettiva globale e unitaria, tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231678).
Questo percorso di individuazione degli indizi, di caratterizzazione degli stessi, muovendo dal prioritario requisito di certezza, con tutti gli ulteriori passaggi, non si rinviene nella sentenza impugnata, che deve essere annullata sul capo C).
Il terzo motivo, che contesta il riconoscimento della recidiva, è inammissibile perché privo di specificità.
Il ricorrente lamenta che la Corte di appello non avrebbe considerato la “risalenza” dei precedenti penali e la loro ridotta offensività.
L’affermazione non si confronta con la realtà del dato offerto dal casellario giudiziale, valorizzato dalla Corte di appello (pagg. 8 e 9 della motivazione), secondo cui l’imputato ha riportato due distinte condanne, divenute irrevocabili nel dicembre 2015, per delitti di falso (artt. 482-477 cod. pen. e artt. 476-482 e art. 640 cod. pen.); quindi, a differenza di quanto sostenuto in ricorso, non si tratta né di fatti di ridotta offensività (trattandosi di condotte omogenee a quella oggetto di addebito al capo A) né di condanne risalenti nel tempo, dato che ai fini della recidiva occorre avere riguardo alla data di irrevocabilità delle sentenze di condanna (cfr. tra le altre Sez. 2, n. 32785 del 13/07/2021, Amadasi, Rv. 281860 – 01) che nella specie si colloca appena sei mesi prima rispetto alla commissione del delitto sub A).
Il quarto motivo, che si appunta sulla mancata sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità, è infondato, avendo la Corte di appello fornito adeguata motivazione sulle ragioni del diniego (pagg. 9 e 10).
Discende che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio limitatamente al reato sub C).
Il ricorso va rigettato nel resto.
Non risulta maturato il termine massimo di prescrizione dei reati, alla luce dell’incidenza – sia sul termine ordinario sia su quello massimo (Sez. 5, n. 32679 del 13/06/2018, COGNOME, Rv. 273490 – 01) – della circostanza aggravante a effetto speciale della recidiva reiterata specifica e infraquinquennale.
Al definitivo la liquidazione delle spese sostenute nel presente giudizio dalle parti civili.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato sub C) con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Roma. Rigetta nel resto il ricorso. Spese delle parti civili al definitivo.
Così deciso il 16/10/2024