Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 4827 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5   Num. 4827  Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 12/01/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato a LECCE il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a CAMPI SALENTINA il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a GALATINA il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a MAGLIE il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a TRICASE il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a SOLETO il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a GALATINA il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a SANARICA il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a MAGLIE il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a MAGLIE il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 13/01/2023 della CORTE APPELLO di LECCE
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo:
Il Proc. AVV_NOTAIO. conclude per l’inammissibilita’ di tutti i ricorsi uditi i difensori:
AVV_NOTAIO si riporta alle conclusioni già depositate in cancelleria in data 27.12.2023 di cui deposita copia unitamente alla nota spese nell’odierna Udienza;
AVV_NOTAIO COGNOME insiste nell’accoglimento dei ricorsi;
AVV_NOTAIO CONTE insiste nell’accoglimento del ricorso. In subordine eccepisce la prescrizione rimettendosi alla valutazione della Corte;
AVV_NOTAIO, in qualità di sostituto processuale dell’AVV_NOTAIO, si riporta ai motivi di ricorso di cui chiede l’accoglimento; in proprio insist nell’accoglimento dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 13 gennaio 2023 la Corte di appello di Lecce ha dichiarato inammissibile l’appello presentato dal pubblico ministero avverso la sentenza del 9 ottobre 2020 del Tribunale di Lecce e, in parziale accoglimento degli appelli di alcuni degli imputati, ha riformato parzialmente la predetta sentenza.
L’ipotesi accusatoria originaria vedeva coinvolti oltre sessanta imputati, accusati a vario titolo di associazione per delinquere e di numerosi reati-satellite, volti a precostituire la prova di falsi incidenti stradali e, attraverso certificazi mediche che attestavano conseguenze difformi dal reale, ottenere indennizzi assicurativi non dovuti.
Caduta già all’esito del primo giudizio l’accusa di associazione per delinquere, assolti diversi imputati e preso atto della maturata prescrizione per numerosi reati, all’esito del secondo grado di giudizio risulta confermato il giudizio di responsabilità anche a fini penali nei confronti di: NOME COGNOME e NOME COGNOME per il reato di cui al capo 8; NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME per il reato di cui al capo 9; NOME COGNOME per il reato di cui al capo 23; NOME COGNOME per tutti i reati appena indicati (capi 8-9-23) nonché per il reato di cui al capo 24.
Tutti i capi di imputazione appena menzionati hanno ipotizzato il concorso degli imputati nella falsità ideologica commessa dal medico del pronto soccorso che, volta a volta, avrebbe certificato i riferiti esiti clinici dei falsi incidenti.
La Corte di appello ha assolto il medico originariamente imputato e ha ritenuto che gli imputati nei cui confronti la pronuncia di responsabilità è stata confermata dovessero rispondere di falso per induzione, essendo il medico autore mediato. In tal senso la Corte di appello ha riqualificato le originarie imputazioni nei termini di cui agli artt. 48, 476 comma secondo e 479 cod. pen.
Secondo la Corte di appello: il falso incidente di cui al capo 8 vede NOME e NOME COGNOME mettere i propri dati a disposizione dell’AVV_NOTAIO, che avrebbe riscosso la somma liquidata a titolo di risarcimento per propri clienti (diversi dai COGNOME), sulla base di un falso certificato medico; l’incidente falso d cui al capo 9 vede coinvolti ancora l’AVV_NOTAIO e la moglie NOME, destinataria del risarcimento, liquidato dall’imputato COGNOME, nonché gli altri imputati coinvolti nel falso sinistro quali passeggeri delle auto o, comunque, in quanto destinatari dei falsi referti medici; l’AVV_NOTAIO è stato condannato anche per gli analoghi casi indicati nei capi 23 e 24, nel primo caso in concorso con la COGNOME destinataria del falso referto.
I fatti sono contestati come commessi rispettivamente il 25 maggio 2009 (capo 8), il 5 settembre 2009 (capo 9), il 21 dicembre 2009 (capo 23) e il 15 luglio 2009 (capo 24).
La Corte di appello ha ritenuto operanti 442 giorni di sospensione della prescrizione.
 Hanno proposto ricorso per cassazione tutti gli imputati appena menzionati, a mezzo dei rispettivi difensori, affidandosi ai motivi di seguito enunciati negli stretti limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pe
AVV_NOTAIO, nell’interesse dei ricorrenti COGNOME e COGNOME, ha depositato anche motivi nuovi.
AVV_NOTAIO ha presentato un unico ricorso per i propri assistiti NOME COGNOME e NOME COGNOME.
3.1. Con il primo motivo si deduce violazione di legge, e segnatamente degli artt. 178, comma 1 lett. b) e c) nonché 522, comma 2, cod. proc. pen., da cui deriverebbe la nullità della sentenza, con riferimento alla pronuncia sui capi 23 e 24 nei confronti di NOME COGNOME.
Infatti, a pagina 40 della sentenza di primo grado risulterebbe chiaramente che COGNOME è stato condannato anche per i reati di cui ai capi 23 e 24, ancorché a lui non contestati, venendogli anche applicato un espresso aumento a titolo di continuazione.
Dedotto il vizio in appello, la Corte territoriale ha risposto che in realtà l condanna per i predetti capi non ha riguardato il COGNOME, mentre l’errore nella determinazione della pena è stato corretto dalla stessa Corte di appello.
Il ricorrente deduce che la Corte territoriale avrebbe dovuto dichiarare la nullità della sentenza di primo grado e che «non averlo fatto implica la nullità della censurata sentenza ex art. 522, co. 2 cpp».
3.2. Con il secondo motivo, comune a COGNOME e COGNOME, si deduce violazione di legge con riferimento alle norme incriminatrici applicate nella decisione sul capo 9 (artt. 48, 476 comma secondo e 479 cod. pen.).
Lamentano i ricorrenti che l’istruttoria non abbia fornito prova della loro responsabilità, in particolare con riferimento all’induzione in errore del medico che avrebbe redatto le certificazioni false, Né corrisponderebbe al vero che il COGNOME abbia svolto le funzioni di liquidatore: al ricorso è allegato il documento relativo alla liquidazione del sinistro di cui si discute, da cui risulterebbe u codice identificativo di un liquidatore diverso dal COGNOME.
3.3. Si deduce infine carenza di motivazione rispetto al diniego delle circostanze attenuanti generiche in favore del COGNOME.
AVV_NOTAIO per NOME COGNOME ha articolato i motivi di seguito enunciati.
4.1. Con il primo motivo originario e con il primo motivo aggiunto deduce il vizio di cui all’art. 606, comma 1 lett. c), cod. proc. pen. con riferimento agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. e 6 Cedu.
Nei capi di imputazione per i quali il COGNOME ha riportato condanna, si ipotizzava che i pazienti non si fossero mai presentati alla visita medica, e tale sarebbe stata la ricostruzione del Tribunale.
La Corte di appello ha invece preso atto che i pazienti si sono presentati al medico, ma questi ha certificato traumi che non avevano bisogno di alcun riscontro obiettivo: dunque, sarebbe stato indotto in errore dalle false dichiarazioni dei pazienti. Di qui l’assoluzione del medico e la condanna degli altri imputati per aver indotto il medico a realizzare le false certificazioni.
Si tratta, obietta il ricorrente, di un mutamento di prospettiva non consentito, che ha comportato la modifica del fatto naturalisticamente inteso e che integra violazione del diritto di difesa: la riqualificazione giuridica del fa non era sufficientemente prevedibile e non è stata sottoposta al contraddittorio.
4.2. Con il secondo motivo originario e con il secondo motivo aggiunto deduce violazione di legge penale, con riguardo all’art. 476, comma secondo, cod. pen.
Secondo la tesi del ricorrente, la circostanza aggravante contestata non sarebbe prospettabile laddove la certificazione, come nei casi di cui si discute, abbia ad oggetto traumi non oggettivabili: infatti, la fede privilegiata non può essere estesa né alla veridicità delle dichiarazioni rese dal paziente in sede di anamnesi, né al giudizio diagnostico effettuato dal medico sulla base delle risultanze emerse, trattandosi di un giudizio formulato sulla base delle proprie competenze.
Nel secondo motivo nuovo, in particolare, il ricorrente suffraga l’affermazione con citazioni della giurisprudenza civile in ordine all’esclusione della fede privilegiata in certificati di pronto soccorso, con riferimento alla causa della patologia proprio con riguardo a un riferito impatto da incidente stradale.
4.3. Il terzo motivo è consequenziale al secondo e deduce violazione dell’art. 157 cod. pen.: esclusa la circostanza aggravante di cui all’art. 476, comma secondo, cod. pen., i reati sarebbero prescritti prima della pronuncia della sentenza di primo grado.
 Il ricorso presentato da NOME COGNOME, a firma del medesimo AVV_NOTAIO, si basa su motivi (anche nuovi) analoghi a quelli articolati nel ricorso di NOME COGNOME, ancorché ovviamente riferiti al solo reato di cui al capo 23 ed alla posizione di paziente effettivamente presentatasi al medico (per riferire di un trauma da contraccolpo al rachide cervicale), in capo alla ricorrente.
 AVV_NOTAIO ha presentato due distinti ricorsi nell’interesse di NOME COGNOME e di NOME COGNOME.
I ricorsi possono essere riassunti in unico contesto, fondandosi su motivi comuni.
6.1. Il primo motivo deduce violazione di legge con riferimento agli artt. 235 e 253 cod. proc. pen.
I referti che riguardano le ricorrenti non sarebbero presenti in originale, non essendo stati sequestrati presso l’ospedale di Galatina.
Pertanto la sentenza impugnata va annullata.
6.2. Il secondo motivo è analogo a quello articolato nei ricorsi a firma dell’AVV_NOTAIO, relativo alla violazione di legge ravvisata nell’aver ritenuto sussistente la circostanza aggravante della fede privilegiata con riguardo a certificati attestanti traumi non obiettivabili.
Esclusa l’aggravante, i reati ascritti alle ricorrenti sarebbero prescritti prima della sentenza di primo grado.
NOME e NOME COGNOME hanno presentato un comune ricorso, a firma dell’AVV_NOTAIO, fondato su un unico motivo con il quale si deduce vizio di motivazione con riferimento all’affermazione di responsabilità per il reato di cui al capo 8, pronunciata nei loro confronti.
Sulla premessa secondo la quale i clienti interessati a lucrare dal falso sinistro non fossero i COGNOME, l’affermazione di responsabilità sarebbe illogica avendola la Corte fondata sul dato, che i ricorrenti contestano, del non disconoscimento della firma in calce ai referti che riguardano i ricorrenti (firma che invece è stata disconosciuta, nel momento in cui essi hanno risposto all’interrogatorio negando di essersi mai recati al Pronto soccorso, ciò di cui la motivazione dà conto), nonché sull’empirica constatazione da parte della Corte, in assenza di perizia, dell’attendibilità della sottoscrizione, dato che pure i ricorrenti contestano.
Tenuto conto del fatto che l’auto dei NOME era stata realmente coinvolta, tempo prima, in un incidente stradale autentico, che il loro nominativo nella
denuncia di falso sinistro è stata genericamente indicato e che i dati dei ricorrenti erano in possesso del COGNOME e di altri, la Corte non ha giustificato dal punto di vista logico la conclusione circa la responsabilità degli imputati, che non avrebbero avuto alcun interesse a partecipare ad un’operazione truffaldina dalla quale non avrebbero conseguito alcun vantaggio.
 NOME e NOME COGNOME si affidano ad un comune ricorso, a firma dell’AVV_NOTAIO.
8.1. Con il primo motivo eccepiscono la prescrizione intervenuta dopo la sentenza di appello e prima della redazione del ricorso.
8.2. Con il secondo motivo deducono violazione di legge, con riferimento alla riqualificazione del fatto, nei termini già esposti nel dar conto dei ricorsi a firma dell’AVV_NOTAIO.
8.3. Con il terzo motivo deducono violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’affermazione di responsabilità, a titolo di concorso in un reato proprio, che sarebbe avvenuta in contrasto con le prove raccolte. Gli stessi imputati hanno ammesso di aver concordato con il NOME di recarsi dal medico e di ritirare un referto per il corrispettivo di 50 euro, ma tanto non consente di dedurre logicamente la loro responsabilità per un reato che ha visto il NOME e la NOME percepire un vantaggio che essi invece non hanno conseguito.
E’ stata chiesta la discussione orale.
Il Procuratore generale, nella requisitoria scritta, ha chiesto dichiararsi inammissibili tutti i ricorsi.
La parte civile Unipolsai ha depositato conclusioni scritte e nota spese, nei confronti dei ricorrenti NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME.
I Difensori degli imputati hanno chiesto l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
E’ inammissibile il ricorso presentato nell’interesse di COGNOME e COGNOME.
1.1. La doglianza contenuta nel primo motivo è manifestamente infondata.
Vi si sostiene la violazione dell’art. 522, comma 2, cod. proc. pen., pur a fronte di una sentenza assolutoria.
Va ricordato, infatti, che la sentenza di appello ha rilevato l’errore nel quale era incorso il giudice di primo grado allorché aveva condannato NOME COGNOME anche per i reati di cui ai capi 23 e 24, a lui non contestati. Ciò premesso, la Corte ha confermato la pronuncia di responsabilità per il solo reato di cui al capo
9, quantificando la relativa pena nel minimo edittale e senza, ovviamente, applicare alcun aumento a titolo di continuazione.
E’ dunque fuori fuoco l’invocazione della norma che si riferisce alla condanna per un fatto non contestato.
1.2. E’ inammissibile anche il secondo motivo.
1.2.1. Anzitutto esso invoca violazione di legge, vizio che presuppone circostanze in sé incontestate ovvero oggettive, rispetto alle quali si prospetta un diverso inquadramento rispetto a quello prescelto nel provvedimento impugnato.
Il motivo, al contrario, censura espressamente la valutazione delle prove operata dai giudici di merito, accusando la Corte di appello di “travisamento delle prove materiali scrutinate dal Tribunale di prime cure” e di “palese vizio di motivazione”.
Il ricorso si limita a giudicare non raggiunta la prova della responsabilità dei ricorrenti, senza però evidenziare vizi di manifesta illogicità della motivazione, emergenti non già dalla ricostruzione dei fatti che non è possibile operare in questa sede, quanto dal testo stesso della sentenza impugnata.
In ogni caso, la critica è del tutto generica e, anche sotto questo profilo, il motivo è inammissibile.
1.2.2. Esso sembra pure invocare il vizio del travisamento della prova, laddove accusa la sentenza di secondo grado di aver dato per provato che il sinistro di cui al capo di imputazione sia stato liquidato dal COGNOME. Per dimostrare l’erroneità dell’assunto, il ricorrente allega un documento sul quale compare il codice 690 e deduce che il codice attribuito al COGNOME sia stato invece il NUMERO_DOCUMENTO.
Ebbene, occorre ricordare che il vizio di contraddittorietà processuale (o di travisamento della prova) chiama in causa, in linea generale, le ipotesi di infedeltà della motivazione rispetto al processo e, dunque, le distorsioni del patrimonio conoscitivo valorizzato dalla motivazione rispetto a quello effettivamente acquisito nel giudizio.
Tre sono le figure di patologia della motivazione riconducibili al vizio in esame: la mancata valutazione di una prova decisiva (travisamento per omissione); l’utilizzazione di una prova sulla base di un’erronea ricostruzione del relativo “significante” (c.d. travisamento delle risultanze probatorie); l’utilizzazione di una prova non acquisita al processo (c.d. travisamento per invenzione).
Il vizio di contraddittorietà processuale (da tenere distinto rispetto a quello di contraddittorietà logica, riconducibile, eventualmente, al vizio di illogicità manifesta) non ricomprende invece il travisamento del fatto, stante la
preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (per tutte v. Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, COGNOME, Rv. 273217, nonché Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, COGNOME, Rv. 253099).
Il vizio invocato vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell’esatta trasposizione nel ragionamento del giudice del dato probatorio nei termini di una “fotografia”, neutra e a-valutativa, del “significante”, ma non del “significato”, atteso il persistente divieto di rilettura e di re-interpretazi nel merito dell’elemento di prova (Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, COGNOME Santos, Rv. 283370). Rilettura, invece, implicata inevitabilmente da ricorsi che, offrendo al giudice di legittimità, frammenti probatori o indiziari, sollecitino quest’ultimo una rivalutazione o ad una diretta interpretazione degli stessi (Sez. 5, n. 34149 del 11/06/2019, E., Rv. 276566).
Ancora in via di necessaria premessa va ricordato che, nel caso di cosiddetta “doppia conforme”, il vizio del travisamento della prova, per utilizzazione di un’informazione inesistente nel materiale processuale o per omessa valutazione di una prova decisiva, può essere dedotto con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, comma primo, lett. e) cod. proc. pen. solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti – con specifica deduzione – che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (Sez. 3, n. 45537 del 28/09/2022, M., Rv. 283777; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269217).
Infatti, se il vizio viene dedotto per la prima volta con il ricorso pe cassazione, si sottrae «alla Corte distrettuale ogni valutazione di merito su quell’ipotizzato error in iudicando commesso dal Tribunale: iniziativa, questa, che traducendosi nel mancato rispetto dei limiti del “devolutum”, con un improprio ampliamento del tema di cognizione in sede di legittimità, va sanzionata da questa Corte di cassazione in quanto integrante una causa di inammissibilità speciale del ricorso ai sensi dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen.» (Sez. 6, n. 21015 del 17/05/2021, Africano, Rv. 281665, in motivazione).
Infine, è onere di chi deduca il travisamento della prova dimostrare il carattere di “decisività” delle prove asseritamente non considerate.
Nel caso di specie, va rilevato come sia il Tribunale che, in maniera più chiara, la Corte di appello (pag. 50 della decisione impugnata) abbiano fondato la prova della circostanza che il liquidatore del sinistro sia stato il ricorrente sull testimonianza dell’ispettore COGNOME.
Ebbene, il ricorrente non deduce specificamente che vi sia stato un travisamento del “significante” di quella testimonianza, ma vi oppone un documento, la cui lettura ed interpretazione attengono al “significato” e non sono tali da imporsi con immediata evidenza, dal momento che l’attribuzione di un codice piuttosto che di un altro al COGNOME è questione di fatto, sulla quale la Corte è dal ricorso inammissibilmente chiamata ad esprimersi; tantomeno il ricorrente deduce la decisività del documento che pare essere oggetto di denunciato travisamento per omissione, cioè la sicura sua idoneità a travolgere il risultato probatorio ottenuto attraverso la valutazione della citata testimonianza dell’ispettore COGNOME.
1.3. Il vizio di motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche è pure inammissibilmente dedotto.
Come lo stesso ricorrente COGNOME (il motivo si riferisce solo a lui) riporta a pagina 13 del ricorso, la Corte di appello si è espressa sul punto non ravvisando elementi per riconoscere le attenuanti generiche al COGNOME, in ragione della posizione di perito liquidatore per conto delle RAGIONE_SOCIALE.
A fronte della motivazione resa, il ricorrente deduce che la Corte avrebbe dovuto riconoscergli le circostanze attenuanti generiche in ragione del ridimensionamento della sua responsabilità, emerso dal processo.
La Corte di appello, occorre ancora osservare, ha sanzionato l’imputato con il minimo della pena edittale prevista.
Ed allora, il motivo è inammissibile: secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, in tema di attenuanti generiche il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché non sia contraddittoria (cfr. Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, COGNOME, Rv. 271269; Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, COGNOME, Rv. 265826; Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, COGNOME, Rv. 259899).
Se «il legislatore ha dato al giudice il potere discrezionale di valorizzare circostanze non specificamente previste come attenuanti ovvero elementi compresi tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., quando si presentino con connotazioni, positivamente valutate, tanto peculiari e di tale rilevante peso da incidere in maniera particolare ed esclusiva sulla “quantità”, oggettiva e soggettiva, del reato e, quindi, tali da giustificare l’attribuzione ad essi dell potenzialità di concorrere, quali circostanze attenuanti generiche, alla determinazione della pena nella misura meglio adeguata ai parametri di legge» (Sez. 3, n. 52411 del 19/06/2018, COGNOME, non massinnata sul punto, che ha ripreso il principio affermato da Sez. 2, n. 5808 del 06/03/1992, COGNOME, Rv. 190368), occorre riconoscere che la Corte territoriale ha dato sufficiente giustificazione
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dell’esercizio di tale potere, nel momento in cui ha semplicemente escluso che fossero emersi elementi tali da rendere necessaria una diminuzione ulteriore della pena rispetto al minimo edittale ed ha invece osservato che la posizione di perito liquidatore per conto delle RAGIONE_SOCIALE assicurative, rivestita dal ricorrente, fosse una condizione ostativa a tale ulteriore intervento mitigatorio della sanzione.
La motivazione è dunque corretta e con essa il ricorrente non si confronta: non solo non ne mette in evidenza profili di intrinseca inattendibilità, ma vi oppone una considerazione di merito che la Corte territoriale ha già valutato nel momento in cui ha determinato la pena nel minimo edittale per l’unico reato per il quale ha pronunciato condanna.
Possono essere affrontati congiuntamente i motivi con i quali è dedotta la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza con riferimento alla riqualificazione, operata dalla Corte di appello, dei reati contestati.
Si tratta del primo motivo dei ricorsi presentati nell’interesse di NOME e COGNOME (e del primo motivo nuovo da ciascuno di essi depositato) e del secondo motivo del ricorso presentato nell’interesse di NOME e NOME COGNOME.
I motivi sono manifestamente infondati e dunque inammissibili.
Si eccepisce la violazione dell’ad. 522 cod. proc. pen., consistita nell’essere stata pronunciata condanna per un fatto ricostruito in modo diverso rispetto alla descrizione contenuta nel capo di imputazione.
Ora, se è vero che «per “fatto diverso” … deve intendersi non solo un fatto che integri una imputazione diversa, restando esso invariato, ma anche un fatto che presenti connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, rendendo necessaria una puntualizzazione nella ricostruzione degli elementi essenziali del reato» (Sez. 4, n. 10149 del 15/12/2020, dep. 2021, Varani, Rv. 280938), va ricordato il consolidato insegnamento della Corte di cassazione a Sezioni Unite, secondo il quale per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vedendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l'”iter” del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto
dell’imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, COGNOME, Rv. 248051; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, COGNOME, Rv. 205619).
La violazione del principio di correlazione tra contestazione e sentenza è ravvisabile nel caso in cui il fatto ritenuto nella decisione si trovi, rispetto quello contestato, in rapporto di eterogeneità, ovvero quando il capo d’imputazione non contenga l’indicazione degli elementi costitutivi del reato ritenuto in sentenza, né consenta di ricavarli in via induttiva, tenendo conto di tutte le risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione (Sez. 2 , n. 21089 del 29/03/2023, NOMEcino, Rv. 284713).
Dunque, la diversità del fatto che impone la modifica del capo di imputazione e preclude al giudice di pronunciarsi, imponendogli di restituire gli atti al pubblico ministero, è solo quella che determina una effettiva lesione del diritto al contraddittorio e del conseguente diritto di difesa (Sez. 3, n. 24932 del 10/02/2023, COGNOME, Rv. 284846; Sez. 5, n. 37461 del 22/09/2021, COGNOME, Rv. 281930).
Il principio di correlazione tra accusa e sentenza costituisce declinazione pratica del diritto dell’imputato di essere informato, in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico, sancito anche dall’art. 6, comma 3, lett. a), Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha precisato che tale diritto è funzionale a quello di disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare le proprie difese, diritto garantito dall’art. 6, comma 3, lett. b), Convenzione EDU, e del più generale diritto a un processo equo, sicché l’informazione data deve contenere gli elementi necessari per permettere all’imputato di preparare le proprie difese (Corte EDU, 11/12/2007, COGNOME contro Italia; 25/07/2000, COGNOME contro Italia; 15/12/1998, COGNOME contro Italia): «L’ampiezza dell’informazione “dettagliata” prevista da questa norma – ha spiegato la Corte (08/12/2009, COGNOME contro Italia) – varia a seconda delle particolari circostanze della causa; tuttavia, l’accusato deve in ogni caso poter disporre di elementi sufficienti per comprendere pienamente le accuse elevate contro di lui per poter preparare convenientemente la sua difesa. A tale proposito, l’adeguatezza delle informazioni deve essere valutata in relazione al comma b) del paragrafo 3 dell’articolo 6, che riconosce ad ogni persona il diritto di disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie per preparare la sua difesa» (Corte EDU, 25/07/2000, COGNOME c. Italia, cit., § 60).
Ciò premesso, va richiamato e ribadito il consolidato orientamento secondo il quale «non sussiste violazione del principio di necessaria correlazione tra
accusa e sentenza, allorché, contestato all’imputato un reato a titolo di concorso personale, se ne affermi la responsabilità in sentenza ai sensi dell’art. 48 cod. pen., in quanto la responsabilità dell’autore mediato realizza un particolare e qualificato comportamento del tutto compatibile con il contributo sotteso dalla formula di cui all’art. 110 cod. pen., originariamente contestato» (Sez. 2, n. 3644 del 26/10/2016, dep. 2017, Bosio, Rv. 269548; conf. Sez. F, n. 35729 del 01/08/2013, COGNOME, Rv. 256577). Tanto è vero che vale anche il reciproco: «non dà luogo a violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenza (art. 521 cod. proc. pen.) ed è quindi legittima la riqualificazione giuridica del fatto, originariamente contestato all’imputato per avere tratto in inganno e indotto in errore gli autori della condotta di falso, (art. 48 e 479 cod. pen.), ai sensi invece dell’art. 110 cod. pen., ossia come commesso a titolo di concorso personale con gli stessi autori» (Sez. 5, n. 27133 del 15/06/2006, NOME, Rv. 235010).
E’ appena il caso di ricordare, comunque, che i capi di imputazione descrivevano fatti nei quali i pazienti “non sono stati mai sottoposti effettivamente a visita … e non avevano le patologie ivi refertate”; condizione dunque, quest’ultima, descritta dall’accusa. La Corte di appello ha assolto il medico sulla base del dubbio circa il fatto che davvero le visite siano state del tutto omesse o, piuttosto, che le certificazioni si siano limitate a riferire gli es di quanto i pazienti dichiaravano, difformemente dal vero.
La qualificazione giuridica data al fatto dalla Corte di appello è corretta, e conforme agli approdi consolidati: «integra il delitto di falso ideologico in atto pubblico, mediante induzione in errore del pubblico ufficiale, la falsa dichiarazione resa dal paziente al medico circa l’esistenza di sintomi patologici» (Sez. 1, n. 3030 del 09/12/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 283953; conf., in materia di attestazione di disturbi psichiatrici, Sez. 6, n. 896 del 01/07/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 262047); «integra il delitto di falso ideologico in atto pubblico, mediante induzione in errore del pubblico ufficiale, la falsa dichiarazione resa dal paziente al medico del pronto soccorso circa l’origine causale delle lesioni lamentate e sottoposte all’esame dei sanitari. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso che le dichiarazioni relative ad inesistenti incidenti stradali possano assumere rilievo in relazione al meno grave reato di cui all’art. 483 cod. pen.)» (Sez. 5, n. 37971 del 20/06/2017, COGNOME, Rv. P_IVA).
Sono pure manifestamente infondati – e dunque inammissibili – i motivi di ricorso che denunciano violazione di legge con riferimento alla qualificazione giuridica dei fatti e, segnatamente, con riferimento alla ritenuta sussistenza della
circostanza aggravante di cui al comma secondo dell’art. 476 cod. pen. (aggravante correttamente contestata attraverso il riferimento, contenuto nei pertinenti capi di imputazione, alla norma che la prevede: cfr. Sez. U, n. 24906 del 18/04/2019, Sorge, Rv. 275436): si tratta del secondo motivo originario e del secondo motivo nuovo dei ricorsi presentati nell’interesse di COGNOME e COGNOME e del secondo motivo del ricorso presentato nell’interesse di COGNOME e COGNOME.
Con riguardo ad un caso analogo a quelli oggetto di scrutinio, questa Corte ha già affermato che «integra il delitto di falsità ideologica commesso dal pubblico ufficiale in atto pubblico fidefacente, la condotta del medico ospedaliero che rediga un certificato con false attestazioni, in quanto ciò che caratterizza l’atto pubblico fidefacente, anche in virtù del disposto di cui all’art. 2699 cod. civ. è – oltre all’attestazione di fatti appartenenti all’attività del pubblico ufficia caduti sotto la sua percezione – la circostanza che esso sia destinato ‘ab initio’ alla prova e cioè precostituito a garanzia della pubblica fede e redatto da un pubblico ufficiale autorizzato, nell’esercizio di una speciale funzione certificatrice; ne deriva che la diagnosi riportata nel certificato ha natura di fede privilegiata, essendo preordinata alla certificazione di una situazione – caduta nella sfera conoscitiva del p.u. – che assume anche un rilievo giuridico esterno alla mera indicazione sanitaria o terapeutica. (Fattispecie di referto attestante traumi da falsi sinistri stradali per consentire lucro a danno delle RAGIONE_SOCIALE assicuratrici)» (Sez. 5, n. 12213 del 13/02/2014, Amoroso, Rv. 260208).
Il referto è atto opponibile a tutti: può essere fatto valere in giudizio, può essere presentato a un ente previdenziale, ovvero, come nel caso in esame, può essere posto alla base di una richiesta risarcitoria in esecuzione delle disposizioni di un contratto di assicurazione. E’ dunque questa sua valenza erga omnes a costituire un riconoscibile indicatore della natura fidefacente dello stesso, mentre sono del tutto irrilevanti, rispetto alla natura dell’atto, le argomentazioni d natura sostanzialmente medico-legale spese dai ricorrenti, laddove si intrattengono sulla tipologia di accertamenti necessari o meno alla diagnosi: quel che conta è che il certificato attesti, da parte del pubblico ufficiale che lo forma, l’esistenza di una determinata patologia, e che tale certificato assuma la valenza che si è appena indicata.
La giurisprudenza sul punto è pacifica e va riaffermata: «integra il delitto di falsità ideologica commesso dal pubblico ufficiale in atto pubblico fidefaciente, la condotta del medico ospedaliero che rediga un referto con false attestazioni diagnostiche, in quanto la diagnosi riportata nel referto ha natura di fede privilegiata, essendo preordinata alla certificazione di una situazione caduta nella
sfera conoscitiva del pubblico ufficiale, che assume anche un rilievo giuridico esterno alla mera indicazione sanitaria o terapeutica» (Sez. 6, n. 12401 del 01/12/2010, dep. 2011, Langella, Rv. 249633; conf. Sez. 5, n. 33498 del 20/05/2019, COGNOME, Rv. 277253).
La declaratoria di inammissibilità dei motivi sulla circostanza aggravante di cui all’art. 476, comma secondo, cod. pen. assorbe la risposta all’ultimo motivo dei ricorsi presentati nell’interesse di COGNOME e COGNOME, con il quale si  GLYPH è dedotta GLYPH l’intervenuta GLYPH prescrizione del GLYPH reato sul GLYPH presupposto dell’insussistenza dell’aggravante.
Inammissibile è pure il terzo motivo del ricorso presentato nell’interesse di NOME e NOME COGNOME.
5.1. Esso deduce anzitutto violazione di legge.
Il vizio di cui all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. riguarda l’erronea interpretazione della legge penale sostanziale (ossia, la sua inosservanza) ovvero l’erronea applicazione della stessa al caso concreto (e, dunque, l’erronea qualificazione giuridica del fatto o la sussunzione del caso concreto sotto la fattispecie astratta). Non si versa nella denuncia di tale vizio in presenza dell’allegazione di un’erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, ipotesi, questa, mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa denunciabile sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, Altoè, Rv. 268404).
Il motivo si intrattiene apertamente sulla ritenuta «mancanza di prova» e sulla necessità di «una più approfondita disamina dei risultati probatori emersi nel corso del giudizio», che comporterebbe una conclusione diversa da quella raggiunta dai giudici di appello.
Sulla base di quanto espressamente dichiarato dai ricorrenti, dunque, non si vede in un caso di violazione di legge, ma, semmai, di vizio di motivazione.
In ogni caso, laddove ritengono di non poter rispondere del “reato proprio commesso dal pubblico ufficiale”, i ricorrenti dimenticano la qualificazione giuridica data al fatto e la circostanza che, anche nel caso in cui sia esclusa la responsabilità del concorrente intraneo (come nel caso in esame, in cui il medico è stato assolto), il concorrente estraneo resta punibile nei casi di autoria mediata di cui all’art. 48 cod. pen., come è appunto quello di cui si discute (per tutte v. Sez. 4, n. 36730 del 20/04/2018, COGNOME, Rv. 273822).
5.2. Nemmeno il vizio di motivazione, però, è dedotto ammissibilmente.
I ricorrenti, infatti, denunciano malgoverno nell’interpretazione delle prove e in particolare, del tutto genericamente, una scorretta lettura delle dichiarazioni rese dagli stessi imputati, senza alcuna precisazione circa i contorni del travisamento e la decisività delle dichiarazioni asseritamente travisate.
Al contrario, dalla motivazione della sentenza impugnata (pagg. 50-51) non emerge ictu ()cui/ alcuna illogicità che rivesta carattere manifesto: laddove alla premessa della confessione di un accordo criminoso tra i COGNOME e il COGNOME ed alla prova dell’accesso dei primi all’ospedale, dove hanno ottenuto a pagamento un certificato medico senza sottoporsi a visita, è stata tratta la conclusione attendibile della prova del loro concorso nel reato.
Manifestamente infondato, e dunque inammissibile, è il primo motivo del ricorso presentato da NOME e NOME COGNOME: la prescrizione maturata in epoca successiva alla sentenza di appello non può essere dichiarata in presenza di ricorso inammissibile e dunque inidoneo ad introdurre il nuovo grado di giudizio (Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, Aiello, Rv. 26896; Sez. U, n. 21 del 11/11/1994, dep. 1995, Cresci, Rv. 199903).
 E’ inammissibile, in quanto reiterativo, generico e manifestamente infondato, il primo motivo del ricorso presentato nell’interesse di NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Le ricorrenti ripropongono una doglianza prospettata nell’atto di appello, cui è stata fornita una risposta con la quale esse minimamente si confrontano.
Secondo la loro prospettazione, mancando in atti gli originali dei referti, il reato non sarebbe configurabile.
La Corte di appello ha risposto, condivisibilmente, che: a) tutti i referti riportano l’attestazione della conformità all’originale, datata 12 marzo 2012; b) nessuno degli imputati li ha disconosciuti, nemmeno il medico che li ha redatti; c) si tratta di documenti così ben realizzati che il reato sarebbe configurabile anche laddove mancasse l’attestazione di conformità all’originale, secondo quanto indicato da Sez. U, n. 35814 del 28/03/2019, Marcis, Rv. 276285 (cfr. pagg. 38 e 51 della sentenza impugnata).
Con la risposta fornita dalla Corte di appello, che è del tutto condivisibile, manca ogni confronto critico nel motivo di ricorso.
I motivi di impugnazione, infatti, sono inammissibili quando risultano intrinsecamente indeterminati, risolvendosi sostanzialmente in formule di stile, come pure quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (nel primo caso, si tratta di
“genericità intrinseca”; nel caso di mancata correlazione con le ragioni della decisione impugnata, si tratta di “genericità estrinseca”: Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, COGNOME, in motivazione). In tale ottica è inammissibile il ricorso per cassazione che si risolva nella pedissequa reiterazione dei motivi già dedotti in appello e motivatamente disattesi dal giudice di merito: esso infatti non assolve la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di impugnazione in sede di legittimità (Sez. 5, n. 3337 del 22/11/2022, dep. 2023, Maisto, n.m.; Sez. 5, n. 21469 del 08/03/2022, COGNOME, n.nn.; Sez. 6, n. 22445 del 08/05/2009, COGNOME, Rv. 244181; Sez. 5, n. 11933 del 27/01/2005, Giagnorio, Rv. 231708).
In ogni caso, il ricorso non deduce efficacemente la difformità delle copie autentiche rispetto agli originali e non dimostra dunque l’interesse alla doglianza.
L’unico motivo del ricorso presentato nei confronti di NOME e NOME COGNOME (AVV_NOTAIO) non è inammissibile.
Nel rispondere al motivo di appello con il quale gli imputati contestavano la loro responsabilità per il reato di cui al capo 8, la Corte di appello ha così ricostruito gli antefatti della vicenda e i fatti oggetto di accusa: a) NOME COGNOME, alla guida dell’autovettura intestata alla sorella NOME, era rimasto coinvolto in un incidente senza danni alle persone; b) il padre NOME COGNOME si era allora rivolto all’AVV_NOTAIO per verificare se fosse possibile conseguire un indennizzo, nonostante l’assenza di coinvolgimento di terze persone, ed aveva perciò lasciato all’AVV_NOTAIO tutti i dati personali e i documenti di rilievo; c) 22 maggio 2009 ha avuto luogo un falso incidente, asseritamente coinvolgente la stessa auto e gli stessi NOME ed NOME COGNOME, che però hanno respinto ogni addebito di responsabilità ed hanno negato di essersi recati al pronto soccorso. Colui che era indicato come testimone dell’incidente ha negato di avervi mai assistito, mentre ha confermato di conoscere sia l’AVV_NOTAIO sia il carrozziere COGNOME; d) l’indennizzo per il falso incidente è stato incassato dal carrozziere RAGIONE_SOCIALE e dall’AVV_NOTAIO, per conto di clienti (che figuravano coinvolti nel falso incidente) diversi dai COGNOME.
La responsabilità dei due imputati, che non hanno lucrato alcun indennizzo e che si sono dichiarati estranei al falso incidente, è stata tratta dalla firma apparentemente da loro apposta in calce ai certificati del pronto soccorso, che la Corte territoriale ha ritenuto autentica pur non effettuando alcun accertamento peritale, e che secondo la Corte stessa non è stata mai disconosciuta.
La circostanza che la firma non sia stata disconosciuta appare frutto di un’affermazione apodittica della Corte territoriale: nel momento in cui la Corte
stessa dà atto che i due COGNOME, apparenti sottoscrittori dei certificati, hanno negato di essersi recati al Pronto Soccorso, appare evidente che essi abbiano “disconosciuto” la sottoscrizione apposta in calce ad un certificato che sarebbe stato rilasciato all’atto dell’accesso al pronto soccorso che essi hanno negato.
Se si aggiunge il fatto che, secondo quanto indicato dalla Corte stessa, i dati dei due imputati e quelli dell’autovettura erano in possesso dell’AVV_NOTAIO, che ha percepito la somma liquidata a titolo di risarcimento, deve concludersi che la versione alternativa secondo la quale i dati dei COGNOME sarebbero stati utilizzati impropriamente e senza il loro effettivo coinvolgimento non è palesemente innplausibile. In definitiva la Corte di appello si è fermata alla mera apparenza, non verificata attraverso una perizia, dell’autenticità delle sottoscrizioni in calce ai referti, dato che rimane l’unico collegamento dei COGNOME con il reato, non sufficiente al superamento del dubbio ragionevole.
Ciò premesso, deve prendersi atto dell’intervenuta prescrizione, alla data del 7 febbraio 2023 (come si dirà più approfonditamente appresso).
La sentenza va quindi annullata nei confronti dei citati ricorrenti, con rinvio al giudice competente in sede civile.
Tutti i restanti ricorsi vanno dichiarati inammissibili, per le ragioni sopra esposte.
E’ opportuno precisare che il termine di prescrizione è maturato in data successiva alla pronuncia della sentenza di appello, ed è dunque irrilevante laddove i ricorsi sono stati dichiarati inammissibili – alla luce dei principi gi innanzi richiamati (Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, Aiello, Rv. 26896; Sez. U, n. 21 del 11/11/1994, dep. 1995, Cresci, Rv. 199903).
Infatti, durante il primo grado di giudizio il termine di prescrizione è stato sospeso: dal 23 febbraio all’il maggio 2018, per 77 giorni, in ragione dell’adesione dei difensori all’astensione di categoria; per 42 giorni dal 6 dicembre 2019 al 17 gennaio 2020 per analoga ragione; per 64 giorni durante la c.d. prima fase covid (cfr. Sez. U, n. 5292 del 26/11/2020, dep. 2021, Sanna, Rv. 280432). Ai 183 giorni di sospensione maturati in primo grado si sono aggiunti, in appello, 140 giorni dal 29 aprile 2022 al 16 settembre 2022 e 119 giorni dal 16 settembre 2022 al 13 gennaio 2023 per differimenti su richiesta della difesa.
In totale vi è stata sospensione della prescrizione per 442 giorni (183 giorni in primo grado e 259 giorni in appello).
I termini di prescrizione sono dunque i seguenti: 7 febbraio 2023 per il reato di cui al capo 8; 21 maggio 2023 per il reato di cui al capo 9; 6 settembre 2023 per il reato di cui al capo 23; 2 aprile 2023 per il reato di cui al capo 24.
Alla declaratoria di inammissibilità consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma, ritenuta congrua, di euro tremila alla cassa delle ammende.
10. I ricorrenti COGNOME, COGNOME e COGNOME devono essere condannati in solido alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile; spese che, tenuto conto della natura del processo e dell’opera prestata (studio e discussione in pubblica udienza) possono liquidarsi in euro 5000 oltre accessori, considerata anche la difesa di una parte nei confronti di tre parti aventi identica posizione, da parte del medesimo difensore (art. 12, comma 2, d.m. 10/03/2014 n. 55, come modificato dall’art. 1, comma 1 lett. c), d.m. 08/03/2018 n. 37). 
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata senza rinvio agli effetti penali nei confronti di COGNOME NOME e COGNOME NOME relativamente al reato di cui al capo 8 in quanto estinto per prescrizione, e con rinvio agli effetti civili al giudice civi competente per valore in grado di appello.
Dichiara inammissibili i ricorsi di COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della RAGIONE_SOCIALE delle Ammende.
Condanna, inoltre, gli imputati COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Unipol Sai, che liquida in complessivi euro 5000, oltre accessori di legge.
Così deciso il 12/01/2024