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Falso in atto pubblico: nota di servizio infedele

Un operatore di polizia giudiziaria è stato condannato per il reato di falso in atto pubblico per aver redatto due note di servizio attribuendo a una fonte confidenziale informazioni che questa non aveva mai fornito. La Corte di Cassazione ha confermato la condanna, chiarendo che il reato si configura nell’infedele attestazione di quanto riferito dalla fonte, a prescindere dalla veridicità oggettiva delle informazioni riportate. La Corte ha inoltre annullato la riduzione di pena concessa in appello perché basata su un motivo inammissibile.

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Pubblicato il 25 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Falso in Atto Pubblico: La Verità dell’Attestazione Prevale sulla Verità del Fatto

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, offre un’importante lezione sul reato di falso in atto pubblico, in particolare quando commesso da un operatore di polizia giudiziaria nella redazione di atti di servizio. Il caso riguarda un Maresciallo condannato per aver attestato falsamente in due annotazioni di aver ricevuto specifiche informazioni da una fonte confidenziale. La pronuncia chiarisce un principio fondamentale: l’oggetto della falsità non è la verità o meno dell’informazione riportata, ma la veridicità dell’attestazione stessa, ovvero se la fonte abbia effettivamente fornito quella notizia.

I Fatti di Causa

Un Maresciallo della Guardia di Finanza veniva condannato per aver redatto due annotazioni di servizio relative a informazioni ricevute da un confidente, un ex poliziotto. Secondo le annotazioni, la fonte avrebbe riferito dettagli precisi su un soggetto, indicandone il nome e descrivendo come “confidenziali” i suoi rapporti con cittadini cinesi. Le indagini successive, tuttavia, rivelarono una realtà diversa: la fonte aveva sì segnalato un incontro, ma senza fornire il nome della persona osservata né qualificare i suoi rapporti come “confidenziali”. Questi dettagli erano stati aggiunti dall’imputato nelle annotazioni, basandosi su accertamenti svolti autonomamente in un momento successivo.

I Motivi del Ricorso in Cassazione

La vicenda è giunta in Cassazione a seguito di due ricorsi. Il primo, del Procuratore Generale, contestava la riduzione della pena decisa dalla Corte d’Appello, sostenendo che l’imputato non aveva impugnato tale punto nel suo ricorso originario, violando così il principio devolutivo. Il secondo, dell’imputato, si basava su tre motivi principali:
1. Violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza: la difesa sosteneva che l’accusa si era concentrata sul fatto che gli incontri con la fonte non fossero mai avvenuti, mentre la condanna si basava sulla falsità del loro contenuto, limitando il diritto di difesa.
2. Insussistenza del reato: l’imputato argomentava che le informazioni aggiunte, pur non provenienti dalla fonte, erano comunque vere e accertate prima della stesura delle note, rendendo il falso “innocuo”.
3. Vizio di motivazione sulla pena: si lamentava una riduzione non proporzionata della pena in appello.

La Decisione della Corte: La Sottile Linea del Falso in Atto Pubblico

La Suprema Corte ha accolto il ricorso del Procuratore Generale e respinto quello dell’imputato. Ha annullato senza rinvio la sentenza d’appello nella parte relativa alla sanzione, ripristinando la pena più severa del primo grado. Ha confermato, invece, la condanna per il reato di falso in atto pubblico.

Le Motivazioni

La sentenza si fonda su principi procedurali e sostanziali di grande rilevanza.

Il Principio Devolutivo e i Limiti del Giudice d’Appello

La Corte ha ribadito che il giudice d’appello non può decidere su punti della sentenza non specificamente impugnati. Poiché l’imputato aveva contestato solo la sua responsabilità e non la pena, la Corte d’Appello non avrebbe potuto ridurla d’ufficio, basandosi su un motivo nuovo e inammissibile. Questo riafferma la rigidità del principio devolutivo, che delimita il campo d’azione del giudice del gravame.

Oggetto del Falso in Atto Pubblico: Attestazione vs. Verità Oggettiva

Questo è il cuore della decisione. La Cassazione chiarisce che il reato di falso in atto pubblico non risiede nella potenziale falsità della notizia in sé, ma nella falsa attestazione da parte del pubblico ufficiale di un fatto avvenuto in sua presenza o da lui compiuto. Nel caso specifico, il fatto falsamente attestato era l’aver ricevuto determinate informazioni dalla fonte confidenziale. È irrilevante che quelle informazioni (il nome della persona, la natura dei rapporti) si siano poi rivelate vere a seguito di altre indagini. Il crimine consiste nell’averle attribuite a una fonte che non le aveva mai pronunciate, alterando così la funzione probatoria dell’atto pubblico, che deve dare fedelmente conto di ciò che è stato dichiarato o percepito dal pubblico ufficiale.

La Correlazione tra Accusa e Sentenza

La Corte ha respinto la censura dell’imputato, ritenendo l’eccezione tardiva (doveva essere sollevata in appello) e, nel merito, infondata. Il capo d’imputazione era sufficientemente ampio da includere non solo la questione dell’effettivo svolgimento degli incontri, ma anche la veridicità del loro contenuto, garantendo all’imputato la possibilità di difendersi su tutti gli aspetti della condotta contestata.

Conclusioni

La sentenza riafferma con forza la necessità di assoluta fedeltà nella redazione degli atti pubblici da parte delle forze dell’ordine. Il principio chiave è che la funzione documentale dell’atto prevale sulla verità oggettiva del contenuto esterno ad esso. Un operatore non può “arricchire” una dichiarazione ricevuta con informazioni acquisite aliunde, anche se veritiere, senza commettere il reato di falso in atto pubblico. Questa pronuncia serve come monito sull’importanza della precisione e dell’integrità nella documentazione delle attività di indagine, a tutela della fede pubblica e della correttezza processuale.

Quando si configura il reato di falso in atto pubblico in una nota di servizio?
Il reato si configura quando il pubblico ufficiale, come un operatore di polizia, attesta falsamente nell’atto fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza. Nel caso specifico, il reato è consistito nell’aver scritto nella nota che una fonte aveva fornito certe informazioni, mentre in realtà non era vero, alterando così la funzione probatoria dell’atto.

È possibile ridurre la pena in appello se il ricorso iniziale non contesta il trattamento sanzionatorio?
No. In base al principio devolutivo, il giudice d’appello può decidere solo sui punti della sentenza che sono stati specificamente contestati nell’atto di impugnazione. Se l’appello contesta solo la responsabilità penale, il giudice non può ridurre la pena, neanche sulla base di motivi nuovi presentati successivamente se questi non si ricollegano a un capo già impugnato.

Se le informazioni scritte in un’annotazione sono vere, si commette comunque il reato di falso se la fonte non le ha mai riferite?
Sì. La Corte di Cassazione ha chiarito che l’oggetto del reato non è la veridicità dell’informazione in sé, ma la veridicità dell’attestazione. Attribuire a una fonte informazioni che non ha mai fornito costituisce falso in atto pubblico, anche se tali informazioni si rivelano oggettivamente vere a seguito di altre indagini. L’atto pubblico deve documentare fedelmente ciò che la fonte ha dichiarato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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