Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 11928 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 11928 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 26/02/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOMECOGNOME nata a CAPUA il 04/08/1963
COGNOME NOMECOGNOME nato a SAN GIUSEPPE VESUVIANO il 01/03/1964
avverso la sentenza del 21/11/2023 della CORTE APPELLO di NAPOLI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo per la posizione COGNOME NOME l’ annullamento con rinvio limitatamente alla censura sulle attenuanti generiche; per la posizione del COGNOME NOMECOGNOME annullamento con rinvio limitatamente al sesto motivo di ricorso.
udito il difensore di COGNOME avvocato NOME COGNOME che, riportandosi ai motivi di ricorso, ha chiesto l’annullamento con o senza rinvio della sentenza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Napoli, con la sentenza emessa il 21 novembre 2023, in riforma della decisione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 26 marzo 2018, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di COGNOME NOME e COGNOME NOME in ordine al reato di cui al capo A), art. 314 cod. pen., perché estinto per intervenuta prescrizione, rideterminando la pena inflitta in anni uno di reclusione nei confronti di COGNOME NOME in relazione al delitto di falso ideologico in atto pubblico di cui al capo D), ed in anni uno e mesi quattro di reclusione nei confronti di COGNOME NOMECOGNOME in relazione alle residue imputazioni per falso ideologico in atto pubblico di cui ai capi B) e C).
Secondo l’accertamento risultante dalle sentenze di merito si tratta di vicende emerse a seguito di una verifica, avviata dopo un esposto anonimo, relativa all’indebito utilizzo di autovetture in dotazione ai militari in servizio presso la sezione di Polizia Giudiziaria della Procura delle Repubblica di Santa Maria Capua Vetere.
In particolare, il 15 gennaio 2015 gli odierni ricorrenti (unitamente a COGNOME Michele), tutti in servizio presso la sezione di Polizia Giudiziaria della Procura delle Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, utilizzarono l’autovettura Alfa Romeo 156 , targata TARGA_VEICOLO, per recarsi a Potenza, per incontrare per ragioni esclusivamente personali il dott. NOME COGNOME Procuratore della Repubblica di Potenza.
La natura esclusivamente personale della trasferta, non determinata da ragioni istituzionali, è stata desunta dai giudici di merito sulla scorta della deposizione testimoniale dello stesso dott. COGNOME che aveva riferito che gli imputati si erano recati a Potenza per mere ragioni di cortesia, non sorretta da ragioni di ufficio.
Dal carattere conviviale della trasferta (nel corso della quale gli imputati erano pure andati a pranzo) i giudici di merito avevano poi desunto la falsità della dichiarazione resa dal COGNOME nell’ordine di servizio del 15 gennaio 2015 , sia nella parte in cui aveva dichiarato che il servizio era stato effettuato per conto dell’autorità giudiziaria e di aver svolto attività di polizia giudiziaria dalle 7.00 alle 18.30, anche in ambiente esterno, sia nella relazione indirizzata al comando di appartenenza, nella quale aveva attestato di aver espletato lavoro straordinario dalle 14.30 alle 18.30 (fatti di cui al capo C).
Analogamente l’ordine di uscita dell’autovettura in uso è stato ritenuto ideologicamente falso, in quanto il servizio non era stato effettuato per conto dell’autorità giudiziaria (Capo B).
I giudici di merito, altresì, hanno ritenuto che la COGNOME avesse attestato falsamente di aver espletato lavoro straordinario per la durata di due ore il 15 gennaio 2015.
Hanno proposto ricorso per cassazione i suddetti imputati, a mezzo dei loro difensori, formulando i motivi di censura di seguito sinteticamente esposti.
Con il primo motivo del ricorso presentato nell’interesse di COGNOME NOME si contesta l’inosservanza o erronea applicazione degli artt. 314, comma secondo, 323 cod. pen. e 129 cod. proc. pen., nonché vizio di omessa e illogica motivazione, anche sub specie di travisamento della prova e di atti processuali, con riferimento alla ritenuta sussistenza del fatto di peculato d’uso, sebbene dichiarato prescritto.
In particolare: -a ) il COGNOME aveva iniziato il proprio servizio alle 7.00, recandosi in Procura alle ore 9.00 per svolgere attività istituzionale; -b ) l’impedimento alla trattazione di temi relativi alla organizzazione del lavoro della sezione della Polizia Giudiziaria, ove era in servizio, era stato determinato dalla condotta del dott. COGNOME che non aveva voluto affrontare l’argomento.
Le emergenze probatorie avevano evidenziato, contrariamente alle conclusioni della Corte di Appello, che l’incontro aveva ad oggetto fatti inerenti all’ufficio, in quanto finalizzato ad avere un consiglio su come risolvere alcune disfunzioni della sezione di Polizia Giudiziaria sorte dopo la partenza del dott. COGNOMENOME
In ogni caso, la Corte di Appello avrebbe dovuto riqualificare i fatti nel delitto di cui all’art. 323 cod. pen. (ora abrogato per effetto dell’art. 1, comma 1 lett. b, l. n. 114 del 2024) che ricomprende anche condotte distrattive, quando si dispone di beni per finalità pubbliche diverse da quelle previste, ma pur sempre nell’ambito delle attribuzioni del pubblico ufficiale e quindi assolvere il ricorrente perché i fatti non sono più previsti dalla legge come reato.
4.1 . Con il secondo motivo si censura l’inosservanza o erronea applicazione degli artt. 479, 476, comma secondo, cod. pen. ed art. 2699 e 2700 cod. civ. e travisamento della prova e di atti processuali in relazione al capo B).
Le attestazioni contenute nell’ordine di uscita non costituiscono atto pubblico, essendo altresì prive di carattere fidefacente.
La sigla ‘ A.G. ‘ apposta sull’ordine di uscita dell’automobile relativa all’ente per il quale viene svolto il servizio -viene indicato in modo generico al solo fine di specificare, come da prassi, che l’autovettura è in uso alla polizia giudiziaria.
Sotto altro aspetto, l’ordine di uscita non è espressione di poteri autoritativi, deliberativi o certificativi della pubblica funzione ovvero non involge manifestazioni dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla pubblica amministrazione.
Inoltre, quanto annotato sarebbe corrispondente al vero, giacché il percorso effettuato da Caserta a Potenza e ritorno è stato correttamente indicato nell’ordine di uscita e quindi comunicata all’amministrazione di appartenenza.
La sentenza di appello non ha dato conto della ragione per la quale dovesse ritenersi falsa l’attestazione sull’uso dell’autovettura sin dalle 8.00, mentre già da quell’ora il COGNOME aveva svolto compiti istituzionali.
4.2 . Con il terzo motivo si contesta l’inosservanza o erronea applicazione degli artt. 479, 476, comma secondo, cod. pen. ed artt. 2699 e 2700 cod. civ., nonchè travisamento della prova e di atti processuali in relazione al capo C).
Le attestazioni contenute nella relazione di servizio del 15 gennaio 2015, sia nella parte in cui era stato indicato che il servizio era stato effettuato per conto dell’autorità giudiziaria e di svolgimento attività di polizia giudiziaria dalle 7.00 alle 18.30, anche in ambiente esterno, sia nella relazione indirizzata al comando di appartenenza nella quale era attestato l’espletamento di lavoro straordinario dalle 14.30 alle 18.30, non costituisce atto pubblico, essendo altresì priva di carattere fidefacente.
Il ricorrente era tenuto solo a predisporre il modello IP1, trattandosi di un mero promemoria, sicché la Corte di Appello ha usato come sinonimi i termini ordine di servizio, relazione di servizio , che invece esprimono documenti intrinsecamente diversi.
4.3 . Con il quarto motivo si contesta l’inosservanza o erronea applicazione degli artt. 479, 476, comma secondo, cod. pen. ed artt. 2699 e 2700 cod. civ., nonché travisamento della prova e di atti processuali in relazione ai capi B) e C).
Invero, sulla scorta degli insegnamenti di Cass., Sez. Un., n. 15938/2006, l’ordine di uscita e l’ordine di servizio afferiscono al rapporto lavorativo senza involgere manifestazioni dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla pubblica amministrazione.
4.4 . Con il quinto motivo si contesta l’inosservanza o erronea applicazione degli artt. 479, 476, comma secondo, cod. pen., 55 quinquies, comma 1, d.lgs. 30 marzo 200, n. 165 in relazione ai capi B) e C).
Invero, si tratterebbe di attestazioni falsamente rappresentative della presenza in servizio e nella propria sede di lavoro da parte dell’imputato, mentre secondo i giudici di merito non lo sarebbe stato, svolgendo lavoro straordinario in realtà non esegui ta, sicché la condotta dovrebbe essere ricondotta nella previsione dell’art. 55 quinquies, comma 1, d.lgs. 30 marzo 200, n. 165, con conseguente dichiarazione di estinzione per prescrizione.
4.5 . Con il sesto motivo si contesta l’inosservanza o erronea applicazione degli artt. 62 n. 4, 479, 476, comma secondo, 314, comma secondo, cod. pen. e travisamento della prova e di atti processuali.
La Corte di Appello erroneamente ha negato l’applicazione dell’attenuate di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen. , ritenendo che la stessa possa essere applicata solo ai reati contro il patrimonio o che offendono il patrimonio.
In particolare, tenuto conto che la circostanza attenuante in parola era stata riconosciuta al coimputato COGNOME COGNOME dal Tribunale sul rilievo che il danno strettamente patrimoniale subito dalla pubblica amministrazione era particolarmente lieve, la Corte di Appello avrebbe dovuto valutare tale circostanza anche in relazione al prescritto delitto di cui al capo A).
In ogni caso, i giudici di merito hanno precisato che i delitti di cui ai capi B) e C) erano preordinati alla percezione di vantaggi economici, sicché avrebbero comunque dovuto applicare la circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen., tenuto conto del vantaggio patrimoniale modesto che sarebbe dovuto derivare.
Il difensore di fiducia di COGNOME NOME ha proposto tre motivi di ricorso.
5.1. Con il primo motivo si contesta la violazione della legge penale nonché la mancanza, contraddittorietà e comunque manifesta illogicità della motivazione in relazione alla responsabilità dell’imputata.
In particolare, erano assenti tanto l’elemento soggettivo del dolo richiesto dalla falsità ideologica quanto la carenza dell’elemento soggettivo.
Invero, dall’attività istruttoria non era emerso alcun elemento idoneo a sconfessare il dato della presenza in ufficio della ricorrente, nella fascia oraria 17.00/19.00 del 15 gennaio 2015, svolgendo quindi attività straordinaria.
Inoltre, l’attestazione di presenza in orario extra lavorativo non può integrare il delitto di falsità ideologica del pubblico ufficiale in atto pubblico, in quanto destinata esclusivamente a controlli interni della P.A.
5.2. Con il secondo motivo deduce violazione di legge in relazione all’art. 131 bis cod. pen. oltre che carenza, illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine al mancato riconoscimento della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto.
La condotta della Muto va inquadrata nella particolare tenuità del fatto, tenuto conto delle modalità della condotta, dell’interesse tutelato e dell’esiguità del danno cagionato
5.3. Con il terzo motivo censura erronea applicazione degli artt. 62, n. 2, cod. pen., 62 bis, 133 e 175 cod. pen.
La Corte di Appello non ha motivato sulla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 62, n. 2, cod. pen., né sulla richiesta di applicazione nella loro massima estensione delle circostanze attenuanti generiche, tenuto conto della incesuratezza e dell’atte ggiamento processuale.
Infine, i giudici di merito non hanno motivato in ordine alla mancata concessione della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.
Il Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, NOME COGNOME con istanza del 27 gennaio 2025, ha chiesto la trattazione orale.
Con motivi nuovi del 7 febbraio 2025, l’Avv. NOME COGNOME: –a ) insisteva per l’inconfigurabilità dei delitti contestati al COGNOME, trattandosi di atti interni privi di valenza attestativa o probatoria, in ogni caso non dotati di efficacia fidefacente; –b ) evidenziava l’insussistenza dell’aggravante prevista dall’art. 61, n. 2, cod. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi proposti da COGNOME NOME e da COGNOME NOME sono infondati.
Il primo motivo di ricorso proposto da COGNOME NOME è manifestamente infondato.
È noto che, ex art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., il vizio di motivazione censurabile in sede di legittimità deve “risultare” dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo e, dunque, deve essere di palmare evidenza. Deve trattarsi, insomma, di un dato dalla oggettiva superiore valenza esplicativa difforme, rispetto a quelli valorizzati in sede di merito, tale da determinare (almeno) un obiettivo ragionevole dubbio di colpevolezza: altrimenti ricadendosi nella mera contrapposizione della credibilità di un dato istruttorio rispetto ad un altro, ovvero in una valutazione di merito qui preclusa (Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601; Sez. 5, n. 785 del 27/09/2023, dep. 2024, P., Rv. 285877).
Nel caso, poi, di estinzione del reato per prescrizione, non rinunciata dall’imputato, l’art. 129 cod. proc. pen. richiede (affinché vi sia pronuncia assolutoria) un quid pluris : l’elemento indicato come in grado di scardinare l’ipotesi accusatoria deve essere di tale forza e natura da non ingenerare, semplicemente, un incontrovertibile ragionevole dubbio di colpevolezza, bensì da far risultare palese l’innocenza dell’accusato (S ez. 6, n. 33030 del 24/05/2023, COGNOME, Rv. 285091;
Sez. 3, n. 18069 del 20/01/2022, COGNOME, Rv. 283131; Sez. 5, n. 33145 del 08/10/2020, PG cCari, Rv. 279842).
Tanto è chiaramente assente nella censura in esame, che si diffonde in articolate considerazioni giuridiche e fattuali, assolutamente controvertibili e meramente alternative rispetto all’ipotesi accusatoria e che, di certo, non fanno emergere l’evidenza della dedotta innocenza per insussistenza del fatto.
Nello specifico, come chiarito con costante orientamento dalla giurisprudenza di legittimità, a partire dai principi affermati da Sez. U, n. 19054 del 20/12/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 255296-01, ai fini della configurabilità del reato di peculato, l’uso dell’auto di servizio per fini privati è, in via generale, vietato dovendosi presumere la sua esclusiva destinazione ad uso pubblico in assenza di provvedimenti (nel caso che ci occupa del tutto assenti), che consentano puntuali e documentate deroghe a tale impiego, la cui esistenza ed il cui contenuto devono essere specificamente provati (in applicazione del principio; così è stata ritenuta immune da censure la decisione che aveva ritenuto la configurabilità del reato di cui all’art. 314 cod.pen., in riferimento alla condotta del sindaco che aveva utilizzato l’autovettura di rappresentanza ed il relativo autista per raggiungere il posto di lavoro presso la ASL e per trasmettere documenti al medesimo ufficio, in assenza di produzione di provvedimenti comunali autorizzativi di uso del mezzo per fini privati (Sez. 3, n. 57517 del 27/09/2018, Romano, Rv. 274679).
L’assenza o la mancanza di una significativa lesione patrimoniale per la pubblica amministrazione, derivante dall’uso indebito di un’auto di servizio, pertanto, non rappresenta un ostacolo alla configurabilità del reato di peculato d’uso, in quanto ciò che rileva è il pregiudizio arrecato all’ordinaria attività funzionale della pubblica amministrazione dal suddetto uso indebito (Sez. 6, n. 5206 del 15/12/2017, S. ed altro, Rv. 272178, secondo cui integra il delitto di peculato d’uso la condotta dell’appartenente ad una forza di polizia che utilizzi l’auto di servizio per incontrarsi con una prostituta dalla quale ottenere, abusando della qualità, prestazioni sessuali gratuite).
Il ricorrente censura la valorizzazione, da parte dei giudici di merito, di alcune prove ed elementi (in particolare: le dichiarazioni del teste COGNOME che aveva evidenziato come la visita dei ricorrenti era stata determinata solo da motivi di cortesia, tanto da andare a pranzo insieme, senza affrontare alcuna questione di lavoro ovvero chiedere consigli di tipo organizzativo relativi alla sezione di Polizia Giudiziaria ove svolgevano il servizio, pp. 6 e 7 della sentenza; l’analisi dei tabulati telefonici dalla quale emergeva come i rispettivi cellulari avevano agganciato celle della zona di Potenza tra le ore 12.31 e le ore 16.16), rispetto ad altri (riportati in ricorso, per giunta parzialmente).
È evidente, dunque, che in tal modo si sia su un piano eminentemente valutativo e quindi fattuale (causa esso stesso di inammissibilità del motivo di ricorso in Cassazione): mirandosi ad una (meramente possibile, ma non oggettivamente emergente con palmare evidenza) diversa ricostruzione dei fatti rispetto a quella operata in sede di merito.
Si è, insomma, in un ambito del tutto eccentrico rispetto al necessario giudizio di “evidenza” dell’innocenza.
Infondati sono il secondo, il terzo, il quarto ed il quinto motivo, che possono essere trattati congiuntamente, perché diretti a contestare sotto differenti punti prospettici la natura di atto pubblico ed il carattere fidefacente dell’ ordine di uscita dell’autovettura (capo B) e dell’ ordine di servizio (capo C), anche ai fini di una eventuale riqualificazione ex art. 55 quinquies d.lgs. n. 165 del 2001.
3.1. Con riferimento a tali motivi di ricorso, il ricorrente non tiene nel dovuto conto che, in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, COGNOME, Rv. 265482).
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte, anche a seguito della modifica apportata all’art. 606 comma 1, lett. e), cod. proc. pen., dalla l. n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito.
In questa sede di legittimità, pertanto, è precluso il percorso argomentativo seguito dal menzionato ricorrente, che si risolve in una mera e del tutto generica lettura alternativa o rivalutazione del compendio probatorio, posto che, in tal caso, si demanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, COGNOME, Rv. 273217; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, COGNOME, Rv. 253099; Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, S., Rv. 277758).
In altri termini, il dissentire dalla ricostruzione compiuta dai giudici di merito e il voler sostituire ad essa una propria versione dei fatti, costituisce una mera censura di fatto sul profilo specifico dell’affermazione di responsabilità dell’imputato, anche se celata sotto le vesti di pretesi vizi di motivazione o di violazione di legge penale, in
realtà non configurabili nel caso in esame, posto che il giudice di secondo grado ha fondato la propria decisione su di un esaustivo percorso argomentativo, contraddistinto da intrinseca coerenza logica.
Come precisato da questa Corte, il ricorso per cassazione con cui si lamenta la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per l’omessa valutazione di circostanze acquisite agli atti non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, ma deve, invece,: -a ) identificare l’atto processuale cui fa riferimento; -b ) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; -c ) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; -d ) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, Papini, Rv. 274816).
Tali necessari passaggi argomentativi non si rinvengono nel ricorso di cui si discute, con il quale, in definitiva, l’imputato si limita a proporre, come già detto, una versione dei fatti genericamente alternativa, senza indicare puntualmente l’atto o gli atti processuali, non considerati o malamente interpretati, in grado, lo si ribadisce, non di fondare una possibile lettura alternativa delle risultanze processuali, che è quella proposta dal COGNOME, ma di inficiare radicalmente il percorso motivazionale seguito dai giudici di merito.
3.2. Inoltre, quando il ricorso è presentato ai sensi della lettera e) del comma 1 dell’art. 606 cod. proc. pen., (come nella specie: v. secondo, terzo, quarto e sesto motivo) nella redazione del ricorso il ricorrente ha un onere formale aggiuntivo rispetto a quelli indicati dall’art. 581 cod. proc. pen., onere processuale che è stato ricavato interpretativamente dalla formulazione della lett. e) dell’art. 606 cod. proc. pen., nel testo introdotto dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46 (secondo cui il vizio deve risultare dal testo della motivazione “ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”), di inequivoca individuazione e di specifica rappresentazione degli atti processuali che intende far valere per sostenere l’esistenza del vizio.
Nella lettura di questa norma, la giurisprudenza di legittimità, che in un primo momento aveva ritenuto possibile soddisfare l’onere mediante diverse modalità, compresa la mera indicazione precisa della posizione dell’atto all’interno del fascicolo del giudice del merito (Sez. 3, n. 43322 del 02/07/2014, COGNOME, Rv. 260994), ha poi progressivamente assunto un indirizzo di maggior rigore e, richiamando il principio
processual-civilistico dell’autosufficienza del ricorso, ha ritenuto che non sia sufficiente limitarsi a richiamare atti del processo specificamente indicati, ma che sia necessaria la loro integrale trascrizione o allegazione al ricorso (Sez. 2, n. 20677 del 11/04/2017, COGNOME, Rv. 270071; Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015, COGNOME, Rv. 265053; Sez. 2, n. 26725 del 01/03/2013, Natale, Rv. 256723; per una applicazione del principio anche al di fuori del vizio di motivazione v. Sez. 4, n. 18335 del 28/06/2017, dep. 2018, PG in proc. COGNOME, Rv. 273261).
Per questo indirizzo giurisprudenziale, che ormai si è consolidato, sono, quindi, inammissibili, per violazione del principio di autosufficienza, quei motivi di ricorso che, deducendo il vizio di manifesta illogicità o di contraddittorietà della motivazione, richiamano atti specificamente indicati, ma non ne contengono la loro integrale trascrizione o allegazione (v. sentenze COGNOME e COGNOME sopra citate).
Nel caso in esame, il ricorrente non ha allegato al ricorso, né ha riportato in modo integrale all’interno dello stesso, il verbale stenotipico relativo alla testimonianza di NOME COGNOME, di NOME COGNOME e del COGNOME (indicato senza riferimento al nome di battesimo), ma ha trascritto solo stralci per addurre la loro non correttamente interpretazione da parte della Corte di appello.
L’impossibilità di conoscere, nel caso concreto, l’atto processuale dal quale emergerebbe la prova dell’assenza della responsabilità dell’imputato si risolve in un limite all’ammissibilità della doglianza, che risulta conseguentemente conformata in termini di mera istanza di rivisitazione, in senso favorevole al ricorrente, delle risultanze probatorie già congruamente valutate nelle fasi di merito.
3.3. Il percorso motivazionale dei giudici di appello appare caratterizzato da una ponderata valutazione delle risultanze processuali, dotata di intrinseca coerenza logica, alla luce della quale, l’affermazione di responsabilità del ricorrente si fonda sulla base di una serie di elementi di fatto univoci, attestanti la presenza dei due odierni imputati a Potenza tra le ore 12.31 e le ore 16.16 (secondo quanto desunto dai tabulati telefonici), cui si aggiungono le dichiarazioni del teste NOME che aveva evidenziato come la visita dei ricorrenti era stata determinata solo da motivi di pregressa amicizia, avendo lavorato insieme, senza che nel corso dell’incontro fossero state mai affrontate questioni attinenti al lavoro, anche al fine della richiesta di chiedere consigli di tipo organizzativo relativi alla sezione di Polizia Giudiziaria ove svolgevano il servizio, sicché tanto l’ordine di uscita dell’automezzo Alfa Romeo targato 340 BA , dal quale risultava che il servizio era effettuato per conto dell’Autorità Giudiziaria, quanto l’ordine di servizio nel quale si dava conto di aver espletato attività di servizio di polizia giudiziaria e di polizia amministrativa dalle ore 7.00 alle ore 18.30, sono del tutto incompatibili con lo svolgimento di attività di servizio, attestata (falsamente) dal ricorrente.
3.4. La difesa solleva anche la questione di diritto relativa alla natura dell’ordine di uscita e dell’ordine di servizio, ritenuti atti pubblici nella sentenza impugnata, natura contestata nel ricorso mediante richiamo alla pronuncia n. 15983 del 11/04/2006, Sepe, Rv. 233423, di questa Corte a Sezioni unite.
Il richiamo non è però pertinente se si tiene conto che il caso esaminato, relativo ad un rapporto di lavoro privatistico, riguardava il cartellino marcatempo ed i fogli di presenza, atti rilevanti a meri fini retributivi, che i dipendenti di una soprintendenza avevano alterato per attestare orari di entrata ed uscita diversi da quelli effettivi.
La decisione in esame ha puntualizzato che ogni atto redatto dal pubblico ufficiale per uno scopo inerente alle sue funzioni, è atto pubblico, e quindi tali sono quelli, formati nell’esercizio delle funzioni, attestanti fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza ed aventi attitudine ad assumere rilevanza giuridica.
Ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 479 cod. pen., non ha rilievo la distinzione tra atti del procedimento amministrativo con efficacia interna e quelli destinati a spiegare effetti esterni, in quanto anche i primi possono avere valenza probatoria in relazione all’attività espletata dalla Pubblica Amministrazione.
Invero, costituiscono atti pubblici non solo quelli destinati ad assolvere una funzione attestativa o probatoria esterna, con riflessi diretti ed immediati nei rapporti tra privati e pubblica amministrazione, ma anche gli atti cosiddetti interni, cioè, sia quelli destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, sia quelli che si collocano nel contesto di un complesso “iter” – conforme o meno allo schema tipico ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali successivi (Sez. 5, n. 11914 del 15/11/2019, COGNOME, Rv. 278955, ove si è affermato che è configurabile il delitto di falso ideologico in atto pubblico nella condotta del funzionario incaricato alla verifica preliminare delle istanze presentate per l’ottenimento del permesso di soggiorno, c.d. decretatore, che appone a margine della richiesta, priva dei necessari requisiti, la dicitura manoscritta ‘ok’, attestandone in tal modo la regolarità, trattandosi di un atto interno che si inserisce nella sequenza procedimentale quale necessario presupposto degli atti successivi finalizzati al rilascio del permesso medesimo; Sez. 5, n. 38455 del 10/05/2019, PMT C/ Carta Giuseppe, Rv. 27709201; si vedano anche Sez. 5, n. 9368 del 19/11/2013, COGNOME, Rv. 25895201; Sez. 5, n. 4322 del 06/11/2012, Camera, Rv. 25438801; Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, COGNOME e altro, Rv. 24985801; Sez. 5, n. 7636 del 12/12/2006, Fiorentino, Rv. 23651501).
Del resto, il concetto di atto pubblico è, agli effetti della tutela penale, più ampio di quello desumibile dall’art. 2699 cod. civ., dovendo rientrare in detta nozione non soltanto i documenti redatti da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato, ma anche quelli formati dal pubblico ufficiale o dal pubblico impiegato, nell’esercizio delle loro funzioni, per uno scopo diverso da quello di conferire ad essi pubblica fede, purché
aventi l’attitudine ad assumere rilevanza giuridica e/o valore probatorio interno alla pubblica amministrazione, cosicché sono atti pubblici anche gli atti interni e quelli preparatori di una fattispecie documentale complessa (come le autocertificazioni del privato redatte ai sensi del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, art. 46 o art. 47 da considerarsi come rese a pubblico ufficiale: Sez. 5, n. 15901 del 15/02/2021, COGNOME, Rv. 281041).
L’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità ha affermato che , in tema di falso documentale, la relazione di servizio redatta dal pubblico ufficiale, è atto pubblico che, come tale, fa fede fino a querela di falso dei fatti che siano caduti sotto la percezione diretta dell’autore o che siano dallo stesso riferiti. Ne consegue che integra il reato di falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale in atto pubblico la relazione con cui quest’ultimo attesti fatti oggettivamente in contrasto con la realtà storica della vicenda narrata (Sez. 5, n. 8252 del 15/01/2010, Bassi e altro, Rv. 246157, fattispecie relativa ad un agente della Polizia municipale).
Le “relazioni di servizio” redatte dal pubblico ufficiale sono, invero, atti pubblici fidefacenti poiché con esse il pubblico ufficiale attesta l’attività espletata nell’esercizio delle sue funzioni e i fatti caduti sotto la sua diretta percezione (Sez. 5, n. 50082 del 29/09/2017, P.G. in proc. COGNOME e altro, Rv. 271625; Sez. 5, n. 38085 del 05/07/2012, COGNOME e altri, Rv. 253543).
L’ordine di servizio e l’ordine di uscita dell’automobile, redatti nella specifica qualità, sono, pertanto, assistiti da fede privilegiata, in quanto forniti – come altri atti redatti dalla polizia giudiziaria – di una speciale potestà documentatrice, desumibile dal sistema, in forza della quale l’atto assume una presunzione di verità assoluta, ossia di massima certezza eliminabile solo con l’accoglimento della querela di falso o con sentenza penale.
Principi ribaditi in un condivisibile arresto, secondo cui integra il delitto di cui all’art. 479 cod. pen. la compilazione da parte di un agente di polizia di una relazione di servizio, completa di nota di straordinario e di foglio di viaggio, attestante falsamente la presenza ad un servizio di ordine pubblico fuori sede, funzionale a conseguire l’indennità di straordinario (Sez. 5, n. 5079 del 10/01/2020, Cosimati, Rv. 278739).
Peraltro, le censure del ricorrente sono in ogni caso generiche nella parte in cui eccepiscono che il responsabile della sezione di polizia giudiziaria non sarebbe tenuto a compilare il rapporto di servizio per rendicontare le attività svolte, ma deve solo inviare il modello IP1 web relativo ai giorni di presenza, l’orario di servizio ordinario e straordinario . Dimentica infatti il ricorrente che il reato di falso ideologico in atto pubblico, per il consolidato insegnamento di questa Corte, è configurabile in relazione a qualsiasi documento che, benché non imposto dalla legge, viene compilato da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni per documentare, sia pure nell’ambito interno
dell’amministrazione di appartenenza, la regolarità degli adempimenti ai quali è obbligato ovvero circostanze di fatto cadute sotto la sua percezione diretta o, comunque, ricollegabili a tali adempimenti e si inserisce nell’ iter procedimentale prodromico all’adozione di un atto finale (Sez. 5, n. 9368 del 19/11/2013, dep. 2014, Budetta, Rv. 258952).
Sicché è irrilevante il fatto che il documento contenente la falsa attestazione non sia previsto da un’espressa norma che ne indichi i requisiti di forma, né che esso debba essere riprodotto in atti diversi e successivi, posto che anche gli atti atipici possono rientrare nella categoria dell’atto pubblico.
3.5. Appare, quindi, corretta la conclusione dei giudici di merito secondo cui gli atti falsificati dal ricorrente hanno natura di atto pubblico in quanto, non diversamente dalle relazioni di servizio, attestano attività di ordine pubblico, ivi specificata in dettaglio, svolta dai pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni, costituendo tra l’altro la base per la futura organizzazione del servizio, inevitabilmente destinata a rimanerne condizionata in caso di indicazione di operazioni di fatto non svolte.
Infatti, gli atti redatti dal COGNOME erano diretti ad indicare al suo superiore l’attività compiuta e la ragioni della stessa, trattandosi quindi di atti attestanti l’attività di ufficio compiuta dal pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni.
E nella specie, tenuto conto della sequela procedimentale finalizzata alla organizzazione del lavoro della sezione di PG della Procura presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, l’attestazione del ricorrente di utilizzazione dell’automobile in uso al la stessa sezione di PG per ragioni istituzionali, ha una evidente valenza di contributo di conoscenza e di valutazione, concorrendo a realizzare l’atto conclusivo, costituente la manifestazione del potere pubblicistico, giacché si pone come necessario presupposto di momenti procedurali successivi, anche in vista dell’utilizzo delle automobili di servizio ed organizzazione del rapporto di lavoro.
Invero, l’attività istruttoria espletata ha evidenziato come l’ordine di servizio è il documento che giustifica l’uscita e l’utilizzo dell’autovettura in uso alla sezione di PG in un determinato giorno (v. p. 2 della sentenza di primo grado).
Per come prima ricordato, gli atti compilati dal ricorrente riportavano, pur nella loro eventuale sciatta compilazione, comunque dati falsi rispetto a quelli emersi dalle prove dichiarative, documentali e tecniche, incrociate tra loro (in relazione alle ragioni del servizio ed al luogo di svolgimento dello stesso, non limitato alla provincia di Caserta).
L’ordine di uscita (capo B) e l’ordine di servizio (capo C) rivestono senza dubbio la qualità di atto pubblico interno al procedimento amministrativo, attestando una determinata attività dei pubblici ufficiali e dell’espletamento delle loro mansioni, inserendosi nel contesto di un più complesso iter procedimentale, ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali successivi e, soprattutto, della
funzione di controllo dell’organizzazione del lavoro, da esercitarsi nelle forme e nei modi previsti dalla legge.
Dalla natura di atto pubblico discende la rilevanza penale della compilazione degli atti con dati non rispondenti a verità, a prescindere dalla quantità e tipologia di dati storici che sia necessario inserire o che si siano inseriti in concreto.
Le false attestazioni di “missioni” sottoscritte dall’imputato, sono, dunque, non solo penalmente rilevanti, in quanto non sono ascrivibili ad un ambito meramente privatistico, ma integrano anche il reato di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici ai sensi dell’art. 479 cod. pen.
Sul punto, si rivela quindi inconsistente la questione sollevata in merito all’asserita confusione terminologica in cui sarebbe incorsa la Corte di Appello, allorquando avrebbe usato come sinonimi i termini ordine di servizio e relazione di servizio che invece esprimono documenti intrinsecamente diversi, giacché si è comunque in presenza di atti redatti dal ricorrente nell’esercizio delle funzioni pubbliche, attestanti fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza ed aventi attitudine ad assumere rilevanza giuridica.
Invero, il ricorrente ha rappresentato di aver utilizzato una autovettura di servizio su delega dell’autorità giudiziaria, svolgendo compiti di polizia giudiziaria ed amministrativa, oltre a svolgere attività di lavoro straordinario dalle ore 14.30 alle ore 18.30, omettendo il particolare di essersi recato, nell’orario in cui avrebbe dovuto essere impegnato in attività del suo ufficio, con la Muto a Potenza, esclusivamente per finalità personali, con l’ulteriore precisazione che sino alle 16.16 era in provi ncia di Potenza.
Gli atti redatti dall’imputato sono stati ritenuti atti pubblici in quanto volti a rappresentare una falsa realtà in vista della ratifica di un servizio non prestato, con finalità non meramente economiche (in quanto attestanti un’attività polizia giudiziaria di fatto non svolta, con conseguenti ripercussioni sull’organizzazione del servizio), con natura quindi diversa da quella del cartellino segnatempo, non ritenuto atto pubblico nella pronuncia a sezioni unite di questa corte n. 15983/2006, per come prima riferito relativa ad un rapporto di lavoro privatizzato, mentre il personale di polizia è soggetto ad un rapporto di lavoro di natura pubblicistica.
Appare irrilevante, inoltre, la circostanza più volte invocata che il ricorrente dalle ore 7.00 ha utilizzato l’automobile di servizio per svolgere compiti istituzionali, giacché risultano falsi -e quindi idonei ad integrare le fattispecie contestate -i dati fattuali indicati specificatamente nei capi di imputazione.
Invero, integra il reato di falso ideologico in atto pubblico la condotta del pubblico ufficiale che, formando una relazione di servizio, espone una parziale rappresentazione di quanto accaduto, tacendo dati la cui omissione, non irrilevante nell’economia dell’atto,
produce il risultato di una documentazione incompleta e comunque contraria, anche se parzialmente, al vero (Sez. 5, n. 32951 del 21/05/2014, COGNOME, Rv. 261651).
3.6. La doglianza che investe la richiesta di riqualificazione delle condotte contestate nel delitto di false attestazioni o certificazioni ex art. 55 quinquies d.lgs. n. 165 del 2001 è palesemente inammissibile, in quanto il ricorrente ha proposto doglianze che si riflettono esclusivamente sui criteri di valutazione del materiale probatorio, puntualmente delibato dei giudici del gravame, i quali hanno offerto – su tutti i punti della vicenda, ora nuovamente rievocati dal ricorrente -una motivazione del tutto esauriente, contestabile solo proponendo una non consentita lettura alternativa dei fatti.
Ad ogni modo, come affermato anche da questa Corte il delitto di false attestazioni o certificazioni ex art. 55-quinquies d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, si consuma con la mera realizzazione, da parte dei pubblici dipendenti, di un comportamento fraudolento consistente nell’irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze, circostanza non contestata nell’odierna fattispecie (Sez. 3, n. 45696 del 27/10/2015, Chianese, Rv. 265400).
3.7. Le superiori argomentazioni determinano la inammissibilità dei motivi nuovi del 7 febbraio 2025, prospettando il ricorrente motivi di doglianza già ampiamente esaminati.
3.8. Infine, tenuto conto che i reati di falso ideologico, contestati al Salvati, rientrano nella previsione dell’art. 476 comma secondo cod. pen., richiamato dall’art. 479 cod. pen., il termine prorogato di prescrizione è il 12 luglio 2027, cui aggiungere 101 giorni di sospensione ex art. 159 cod. pen., con termine finale di prescrizione al 24 ottobre 2027.
Col sesto motivo il ricorrente si duole del fatto che la Corte di appello ha escluso l’applicazione dell’ art. 62 n. 4 cod. pen., richiesta formulata in sede di gravame, sul rilievo che si trattava di reato contro il patrimonio ovvero determinato da motivi di lucro.
Il motivo è inammissibile.
Questa Corte ha affermato che la circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità ex art. 62, numero 4, cod. pen. è applicabile anche ai reati contro la fede pubblica, purché il fatto sia commesso per un motivo di lucro e la speciale tenuità riguardi sia l’entità del lucro, conseguendo o conseguito, sia l’evento dannoso o pericoloso, dovendosi riferire tale ultima espressione a qualsiasi offesa penalmente rilevante che, tanto in astratto, con riferimento alla natura del bene giuridico tutelato, quanto in concreto, sia di tale modestia da risultare proporzionata alla tenuità del vantaggio che il reo si proponeva di conseguire o ha conseguito (Sez. 5, n. 2490 del 19/01/2024, COGNOME, n.m.; Sez. F, n. 34651 del 02/08/2016, COGNOME, Rv. 267679; Sez. 5, n. 9248 del 14/10/2014, Seck, Rv. 262962, ove si è precisato che la circostanza
attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità è applicabile anche ai reati che offendono la fede pubblica in quanto riferibile, in virtù del tenore testuale assunto dall’art. 62, comma primo, n. 4 cod. pen. a seguito della modifica introdotta dall’art. 2 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, a tutti i delitti determinati da motivi di lucro, indipendentemente dalla natura giuridica del bene tutelato, purché la speciale tenuità riguardi sia l’entità del lucro, conseguendo o conseguito dall’agente, sia l’entità dell’evento dannoso o pericoloso subito dalla vittima; Sez. 5, n. 26807 del 19/03/2013, Ngom, Rv. 257545).
Come noto, le Sezioni Unite hanno precisato che la circostanza attenuante del lucro e dell’evento di speciale tenuità è applicabile, indipendentemente dalla natura giuridica del bene oggetto di tutela, ad ogni tipo di delitto commesso per un motivo di lucro, compresi i delitti in materia di stupefacenti, ed è compatibile con la fattispecie di lieve entità prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 (Sez. U, n. 24990 del 30/01/2020, Dabo, Rv. 279499).
Tuttavia, si è opportunamente sottolineato che l’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen. cod. pen. “attiene ai motivi a delinquere (lucro perseguito), al profitto (lucro conseguito) e all’evento (dannoso o pericoloso) del reato”; sicché per riconoscerla è necessaria “una puntuale ed esaustiva verifica, della quale il giudice di merito deve offrire adeguata giustificazione, che dia consistenza sia all’entità del lucro perseguito o effettivamente conseguito dall’agente, che alla gravità dell’evento dannoso o pericoloso prodotto dalla condotta considerata”.
Se questi sono i presupposti, allora è evidente che chi la invoca non può limitarsi a chiedere la sua applicazione in termini generici ed indeterminati.
L’applicazione dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen., infatti, non è parametrata soltanto al lucro conseguito, ma anche al lucro perseguito, sicché per chiederne l’applicazione in termini non generici (e perciò inammissibili) la difesa avrebbe dovuto indicare sulla base di quali elementi di fatto sarebbe possibile sostenere che il vantaggio patrimoniale perseguito dal ricorrente era di speciale tenuità.
Il ricorso, invece, non contiene nessuna indicazione in tal senso, risultando quindi la deduzione difensiva generica.
Il primo motivo di ricorso proposto nell’interesse di COGNOME NOME è manifestamente infondato.
L a prova della falsità dell’atto redatto dal la COGNOME, oggetto della imputazione di cui al capo D), deriva storicamente dall’incrocio dei dati tecnici, relativi alle celle agganciate dai telefoni cellulari ed alle dichiarazioni testimoniali di NOME, sicché, data la natura generica del dolo che sorregge il delitto di falso ex art. 479 cod. pen., contestato all’imputata, una volta dimostrato il fatto storico della mancata rispondenza
tra la realtà e quanto attestato nell’atto pubblico falso, non è necessario provare neppure la volontà di abuso.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità, infatti, integra il reato di falso ideologico in atto pubblico la condotta del pubblico ufficiale che in una relazione di servizio fornisca una parziale rappresentazione dei fatti caduti sotto la sua diretta percezione, in quanto tale relazione costituisce atto pubblico e, ai fini dell’elemento soggettivo, è sufficiente il dolo generico, consistente nella rappresentazione e nella volontà dell’ immutatio veri , mentre non è richiesto l’ animus nocendi né l’ animus decipiendi , con la conseguenza che il delitto sussiste sia quando la falsità sia compiuta senza l’intenzione di nuocere, sia quando la sua commissione sia accompagnata dalla convinzione di non produrre alcun danno (Sez. 5, n. 17929 del 20/01/2020, COGNOME, Rv. 279214; conf. Sez. 5, n. 6182 del 03/11/2010, dep. 2011, COGNOME e al., Rv. 249701).
Inoltre, si è precisato che i fogli di comunicazione di lavoro straordinario redatti da agenti di polizia hanno natura di atti pubblici, in quanto, non diversamente dalle relazioni di servizio, attestano attività di ordine pubblico svolta dai pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni (Sez. 6, n. 210 del 03/01/2024, COGNOME, non mass.; Sez. 5, n. 34817 del 05/07/2011, COGNOME, Rv. 250942).
Correttamente la Corte d’Appello ha osservato che la COGNOME ha indicato di aver svolto due ore di straordinario, lavorando quindi oltre l’orario di ufficio, proprio perché aveva deciso di allontanarsi dal luogo di lavoro solo per ragioni personali, per recarsi a Potenza, e non già perché impegnata in attività di polizia giudiziaria.
La ricorrente ha quindi documentato, sia pure nell’ambito interno dell’amministrazione di appartenenza, la regolarità degli adempimenti ai quali era obbligata (lavoro straordinario), omettendo di riferire che le due ore di straordinario si erano rese necessarie per ovviare al mancato espletamento del lavoro nelle ore ordinarie, perché impegnata in una trasferta extraregionale per mere ragioni di interesse personale.
Quanto al carattere fidefacente dell’atto redatto dalla ricorrente, ove aveva attestato falsamente di aver espletato lavoro straordinario per la durata di due ore il 15 gennaio 2015, si rinvia a quanto già scritto nei §§ 3.2., 3.3. e 3.4.
Il secondo motivo che eccepisce l’erroneità del mancato accoglimento della richiesta di applicazione della disciplina della particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 131-bis cod. pen., è manifestamente infondato.
Le Sezioni Unite COGNOME hanno insegnato che il giudizio sulla tenuità del fatto richiede una valutazione complessa che ha a oggetto le modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133 cod. pen. primo comma, richiedendosi una equilibrata considerazione dì tutte le peculiarità della fattispecie
concreta, e non solo di quelle attinenti alla entità dell’aggressione del bene giuridico protetto, e tanto sul fondamentale rilievo che il disvalore penale del fatto per assegnare allo stesso l’attributo della particolare tenuità dipende dalla concreta manifestazione del reato, che ne segna perciò il disvalore. Non esiste, in realtà, un’offesa tenue o grave in chiave archetipa; piuttosto, è la concreta manifestazione del reato che ne segna il disvalore (la causa di non punibilità presuppone un fatto conforme al tipo e offensivo ma il cui grado di offesa sia particolarmente tenue tanto da non richiedere la necessità di pena), e, in tale ottica, assume particolare rilievo il riferimento testuale alle modalità della condotta, al comportamento: la norma non si interessa della condotta tipica, ma ha riguardo alle forme di estrinsecazione del comportamento, anche in considerazione delle componenti soggettive della condotta stessa, al fine di valutarne complessivamente la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e conseguentemente il bisogno di pena. Insomma, è necessario operare nell’ambito della distinzione tra fatto legale, tipico, e fatto storico, situazione reale ed irripetibile costituita da tutti gli elementi di fatto concretamente realizzati dall’agente: la norma intende, cioè, riferirsi alla connotazione storica della condotta, essendo in questione non la conformità al tipo, bensì l’entità del suo complessivo disvalore. Occorre, pertanto, avere riguardo – ai fini della applicabilità della causa di non punibilità – al fatto storico, alla situazione reale e irripetibile costituita da tutti gli elementi di fatto concretamente realizzati dall’agente, perché non è in questione la conformità al tipo bensì l’entità del suo complessivo disvalore e questo spiega il riferimento alla connotazione storica della condotta nella sua componente oggettiva e soggettiva (Sez. U. n. 13681 del 25/02/2016, COGNOME, Rv. 266590). Pertanto, il giudizio finale di particolare tenuità dell’offesa postula necessariamente la positiva valutazione di tutte le componenti richieste per l’integrazione della fattispecie, sicché i criteri indicati nel primo comma dell’art. 131-bis cod. pen. sono cumulativi, quanto al giudizio finale circa la particolare tenuità dell’offesa ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità, e alternativi quanto al diniego, nel senso che l’applicazione della causa di non punibilità in questione è preclusa dalla valutazione negativa anche di uno solo di essi (infatti , secondo il tenore letterale dell’art. 131-bis cod. pen. nella parte del primo comma qui rilevante, la punibilità è esclusa quando per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, l’offesa è di particolare tenuità (Sez. 3, n. 893 del 28/06/2017, PM in proc. COGNOME, Rv. 272249; Sez. 6, n. 55107 del 08/11/2018, COGNOME, Rv. 274647; Sez. 3, n. 34151 del 18/06/2018, Foglietta e altro, Rv. 273678).
La Corte di appello ha reso una plausibile argomentazione in ordine alla insussistenza dei presupposti per la declaratoria di non punibilità, in specie, laddove ha fatto leva sulle modalità del fatto, sintomatiche dell’utilizzo del veicolo per finalità non istituzionali oltre che la strumentalizzazione della trasferta nella città di Potenza per ottenere anche ulteriori benefici di natura economica.
La Corte di appello ha quindi evidenziato che le modalità obiettive della condotta non permettevano di qualificare il fatto in termini di minima e trascurabile offesa del bene giuridico tutelato dalla norma penale violata.
Pertanto, i giudici di merito hanno, appunto, negato la tenuità del fatto in scrutinio, incentrando il proprio giudizio di disvalore sulla condotta complessivamente considerata che ne segna la gravità.
A fronte di tale limpido argomentare, i rilievi difensivi, con cui si afferma apoditticamente la sussistenza delle condizioni per applicare la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cod. pen., appaiono, oltre che manifestamente infondati, anche acriticamente reiterativi della relativa richiesta formulata al giudice di appello, con la motivazione del quale sul punto la ricorrente non si confronta.
Il terzo motivo nella parte in cui contesta la omessa motivazione da parte della Corte di Appello sulla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 2, cod. pen. ovvero sulla applicazione delle circostanze attenuanti generiche nel giudizio di prevalenza, è infondato.
Invero, la sentenza di primo grado (che si salda con la pronuncia di appello) ha spiegato, con motivazione adeguata e logica, le ragioni della sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 2, cod. pen., precisando che le false attestazioni erano finalizzate a coprire le vere ragioni illecite della trasferta compiuta a Potenza .
Inammissibile la censura con la quale si contesta il giudizio di equivalenza e non già di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche.
Infatti, devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata; in sede di legittimità non è, di conseguenza, censurabile la sentenza, per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata col gravame, quando questa risulta disattesa dalla motivazione complessivamente considerata, essendo sufficiente, per escludere la ricorrenza del vizio previsto dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione della prospettazione difensiva implicitamente e senza lasciare spazio ad una valida alternativa (Sez. 5, n. 6746 del 13/12/2018, COGNOME, Rv. 275500; Sez. 2, n. 35817 del 10/07/2019, Sirica, Rv. 276741).
Orbene, la Corte di appello, per come prima riferito, per escludere l’applicazione dell’art. 131 bis cod. pen., ha richiamato le modalità del fatto, sintomatiche dell’utilizzo del veicolo per finalità non istituzionali oltre che la strumentalizzazione della trasferta nella città di Potenza per ottenere anche ulteriori benefici di natura economica, circostanze incompatibili con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in un giudizio di prevalenza.
7.1. Il terzo motivo è inammissibile anche nella parte in cui censura l’omessa motivazione sulla richiesta di cui all’art. 175 cod. pen.
Invero, dalla lettura dell’atto di appello depositato il 24 settembre 2018 si desume che alcuna contestazione al riguardo è stata formulata, sicché deve inferirsi che la censura in scrutinio è stata tardivamente sollevata, non essendo deducibili per la prima volta in sede di legittimità vizi non dedotti in precedenza come motivo di appello (in tal senso, ex multis , Sez. 2, n. 31650 del 03/04/2017, COGNOME e altri, Rv. 270627; Sez. 5, n. 48703 del 24/09/2014, COGNOME, Rv. 261438).
Non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare perché non devolute alla sua cognizione (così sin da Sez. 2, n. 40240 del 22/11/2006, COGNOME, Rv. 235504) che ha sancito che “è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 606, comma terzo, cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 24 e 111, comma 7, Cost., nella parte in cui dispone che il ricorso per cassazione proposto per violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello è inammissibile, perché la disposizione appena richiamata detta una disciplina ragionevole di regolazione del diritto di ricorrere per cassazione per violazione di legge contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, limitandolo, per ragioni di funzionalità complessiva del sistema, soltanto per il caso in cui la parte abbia inteso adire tutti i tre gradi di giudizio”) principio poi, con giurisprudenza costante e monolitica di questa Corte riaffermato (cfr. Sez. 5, n. 28514 del 23/04/2013, COGNOME, Rv. 255577; Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017, Bolognese, Rv. 269745).
Per le ragioni sopra indicate, i ricorsi di COGNOME NOME e di COGNOME NOME devono essere rigettati, con la condanna dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 26/02/2024