Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 26756 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 26756 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 18/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME nato il 05/03/1984
avverso la sentenza del 17/05/2024 della CORTE APPELLO di BOLOGNA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Presidente COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore COGNOME che ha concluso chiedendo udito il difensore
IN FATTO E IN DIRITTO
Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza con cui il tribunale di Piacenza, in data 13.2.2020, aveva condannato NOME alla pena ritenuta di giustizia, in relazione ai reati ex artt. 81, cpv., 328, c.p. (capo A); 110 e 494, c.p. (capo B); 479, c.p. (capo D), oltre al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore della costituita parte civile, RAGIONE_SOCIALE di Piacenza, riqualificato il fatto di cui al capo A) ai sensi dell’art. 340, c.p., rideterminava in senso più favorevole all’imputato l’entità del trattamento sanzionatorio, confermando, nel resto, la sentenza di primo grado
Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l’annullamento, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, lamentando: 1) violazione di legge, in punto di erronea applicazione dell’art. 479, c.p.; 2) violazione di legge in relazione agli artt. 597, 521 e 522, c.p., in punto di difetto di correlazione tra imputazione e sentenza: 3) vizio di motivazione con riferimento all’affermazione di responsabilità per il reato ci cui al capo B) dell’imputazione; 4) mancanza di motivazione in ordine alla determinazione dell’entità del trattamento sanzionatorio.
Con requisitoria scritta del 2.4.2025, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione, dott.ssa NOME COGNOME chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile.
Con conclusioni scritte dell’1.4.2025, l’avv. NOME COGNOME difensore e procuratore speciale della costituita parte civile RAGIONE_SOCIALE Piacenza, conclude per la conferma della sentenza di primo grado, con condanna dell’imputato al pagamento delle spese di costituzione di parte civile, nella misura che la Suprema Corte riterrà equa e di giustizia.
3. In via preliminare va rilevato che, ai sensi di quanto previsto dagli artt. 157, 160 e 161, c.p., il termine massimo di prescrizione dei reati per cui si procede risulta perento alla data del 18.2.2025, dopo la pronuncia della sentenza di secondo grado.
Si è verificata, pertanto, una causa di estinzione dei reati in addebito, che compete al Collegio rilevare, non potendosi considerare inammissibile il ricorso presentato dall’imputato, essendo incentrato su questioni di diritto non manifestamente infondate, né apparendo gli articolati motivi di impugnazione generici o esclusivamente versati in fatto.
Come è noto, infatti, il principio della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità, sancito dall’art. 129, co. 2, c.p.p., opera anche con riferimento alle cause estintive del reato, quale è la prescrizione, rilevabili nel giudizio di cassazione (cfr., ex plurimis, Sez. 3, 01/12/2010, n. 1550, Rv. 249428; Sez. U, 27/02/2002, n. 17179, Rv. 221403; Sez. 2, n. 6338 del 18/12/2014, Rv. 262761). Logico corollario di tale affermazione sulla piena operatività dell’art. 129, c.p.p., è che anche nel giudizio di legittimità sussiste l’obbligo di dichiarare una più favorevole causa di proscioglimento ex art. 129, co. 2, c.p.p., pur ove risulti l’esistenza della causa estintiva della prescrizione, obbligo che, tuttavia, in considerazione dei caratteri tipici del giudizio innanzi la Corte di Cassazione, sussiste nei limiti del controllo del provvedimento impugnato, in relazione alla natura dei vizi denunciati (cfr. Sez. 1, 18/04/2012, n. 35627, Rv. 253458). Il sindacato di legittimità che, pertanto, si richiede alla corte in questo caso deve essere circoscritto all’accertamento della ricorrenza delle condizioni per addivenire a una pronuncia di proscioglimento nel merito con una delle formule prescritte dall’art. 129, co. 2, c.p.p.: la conclusione può essere favorevole al giudicabile solo se la prova dell’insussistenza del fatto o dell’estraneità a esso dell’imputato risulti evidente sulla base degli stessi elementi e delle medesime valutazioni posti a fondamento della sentenza impugnata, senza possibilità di nuove indagini e ulteriori accertamenti che sarebbero incompatibili con il principio secondo cui l’operatività della causa estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è intervenuta, non può essere ritardata. Pertanto, qualora il contenuto complessivo della sentenza non prospetti, nei limiti e con i caratteri richiesti dall’art. 129 c.p.p., l’esistenza di una
causa di non punibilità più favorevole all’imputato, deve prevalere l’esigenza della definizione immediata del processo (cfr. Sez. 4, 05/11/2009, n. 43958, F.). In presenza di una causa di estinzione del reato, infatti, la formula di proscioglimento nel merito (art. 129, comma 2, c.p.p.) può essere adottata solo quando dagli atti risulti “evidente” la prova dell’innocenza dell’imputato, sicché la valutazione che in proposito deve essere compiuta appartiene più al concetto di “constatazione” che di “apprezzamento” (cfr. Sez. 2, 11/03/2009, n. 24495, G.), circostanza che non può ritenersi sussistente nel caso in esame, in ragione della complessità della vicenda portata all’attenzione del Collegio e delle articolate doglienze prospettate dall’imputato.
La sentenza impugnata va, pertanto, annullata senza rinvio, per essere i reati per cui si procede estinti per prescrizione.
L’intervenuta condanna generica dell’imputato al risarcimento dei danni derivanti dal reato, in favore della costituita parte civile RAGIONE_SOCIALE di Piacenza, impone di prendere comunque compiutamente in considerazione gli articolati motivi di ricorso, ai sensi dell’art. 578, co. 1, c.p.p., ad eccezione del motivo riguardante la determinazione dell’entità del trattamento sanzionatorio, che non concerne gli interessi civili (cfr., ex plurimis, Sez. U, n. 36208 del 28/03/2024, Rv. 286880; Sez. 6, n. 5222 del 10/12/2024, Rv. 287646).
4.1 Ciò posto, infondato appare il primo motivo di impugnazione.
Il ricorrente, premesso che l’imputato è stato condannato ai sensi dell’art. 479, c.p., per avere, in qualità di medico di guardia presso il servizio di continuità assistenziale della A.U.S.L. di Piacenza, assunto con contratto a termine di natura privatistica, compilato falsamente la scheda informativa relativa alla paziente NOME COGNOME facendo apparire di aver svolto una visita domiciliare nei confronti di quest’ultima, in realtà, secondo l’assunto accusatorio, mai effettuata, lamenta: 1) la mancata applicazione dell’art. 479, c.p., in combinato disposto con l’art. 491, c.p., trattandosi di documento informatico, sicché, per integrare il delitto di falso, il documento avrebbe dovuto soddisfare il doppio requisito previsto da tale norma, cioè l’essere un
documento informativo pubblico, avente efficacia probatoria; 2) l’omessa risposta, da parte della corte territoriale, in ordine alla doglianza volta a contestare la pretesa falsità del documento, che tale non può considerarsi, posto che nella scheda informativa l’imputato non ha affatto affermato di avere visitato a domicilio la paziente, limitandosi, piuttosto, a barrare l’opzione del tipo di intervento domiciliare, avendo egli redatto la scheda unicamente sulla base del contatto telefonico con la paziente, condotta forse censurabile sul piano della deontologia professionale, ma non tale da importare la falsità del documento; 3) l’omessa considerazione, da parte del giudice di appello, del rilievo difensivo sull’orario dell’intervento, indicato dall’imputato nella scheda informatica come effettuato alle ore 21.30, anziché alle ore 00.1.00, allorché comparve in sede e compilò la scheda, ben potendo dipendere la diversità della data dal programma informatico, che, nel momento in cui si apre la scheda, segna automaticamente l’ora di compilazione.
Gli argomenti del ricorrente appaiono fallaci.
Preliminarmente si osserva che il ricorrente non contesta la qualità di pubblico ufficiale dell’imputato, sicuramente sussistente alla luce del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, alla luce del quale anche il medico privato professionista “convenzionato” con la RAGIONE_SOCIALE, addetto alla guardia medica, riveste la qualifica di pubblico ufficiale e non quella di incaricato di pubblico servizio (cfr. Sez. 6, n. 29788 del 11/05/2017, Rv. 2706039), al pari dei medici convenzionati che prestano la loro attività nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale (cfr., ex plurimis, Sez. U, n. 7958 del 27/03/1992, Rv. 191174; Sez. 6, n. 35836 del 22/02/2007, Rv. 238439).
In questo solco interpretativo si inserisce un recente e condivisibile arresto, in cui è stato affermato il principio alla luce del quale deve ritenersi che il medico, addetto al servizio di guardia turistica nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale, anche se selezionato ad hoc per tale servizio in via temporanea, rivesta la qualifica di pubblico ufficiale, poiché svolge l’attività per mezzo di poteri pubblicistici di certificazione, che si estrinsecano nella diagnosi e nella correlativa prescrizione di
prestazioni a carico del Servizio stesso (cfr. Sez. 6, n. 12156 del 24/01/2024, Rv. 286186).
Ciò posto, si osserva che da tempo la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il concetto di atto pubblico, agli effetti della tutela penale, è più ampio di quello desumibile dall’art. 2699 cod. civ., rientrando in detta nozione, non soltanto i documenti redatti da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato, ma anche quelli formati dal pubblico ufficiale o dal pubblico impiegato, nell’esercizio delle loro funzioni, per uno scopo diverso da quello di conferire ad essi pubblica fede, purché aventi l’attitudine ad assumere rilevanza giuridica e/o valore probatorio interno alla pubblica amministrazione (cfr. Sez. 5, n. 3542 del 17/12/2018, Rv. 27541502), cosicché, sono atti pubblici anche gli atti interni (cfr. Sez. 5 n. 15901 del 15/02/2021, Rv. 281041) e gli atti preparatori di una fattispecie documentale complessa, come gli atti di impulso di procedure amministrative, a prescindere che il loro contenuto venga integralmente trasfuso nell’atto finale del pubblico ufficiale o ne venga a costituire solo il presupposto implicito necessario (cfr. Sez. 5 n. 37880 del 08/09/2021 Rv. 282028).
Più precisamente, costituiscono atti pubblici sia gli atti, appunto, interni, destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, sia quelli che si collocano nel contesto di un complesso “iter” – conforme o meno allo schema tipico ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali successivi (cfr. Sez. 5 n. 38455 del 10/05/2019, Rv. 277092; Sez. 5, n. 49417 del 06/10/2003, Rv. 227659; Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Rv. 249858); Sez. 5, n. 4322 del 06/11/2012, Rv. 254388); Sez. 5, n. 10398 del 14/02/2025, Rv. 287780).
L’elemento che caratterizza l’atto pubblico, in tema di falso documentale, infatti, deve essere ravvisato essenzialmente nell’appartenenza del fatto attestato al pubblico ufficiale o caduto sotto la sua immediata percezione, per cui, dovendosi ritenere atto pubblico ogni scritto di natura documentale redatto dal pubblico ufficiale per uno scopo inerente alle sue funzioni, rientrano nella tutela prevista dalla
norma non solo gli atti destinati a spiegare efficacia nei confronti dei terzi, ma anche gli atti meramente interni, formati dal pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, al fine di documentare fatti inerenti all’attività da lui svolta ed alla regolarità delle operazioni amministrative cui è addetto (cfr. Sez. 5, n. 14718 del 18/11/1999, Rv. 215192; Sez. 6, n. 5403 del 15/11/1994, Rv. 201812; Sez. 5, n. 6872 del 17/03/1999, Rv. 213600; Sez. 5, n. 14902 del 29/01/2009, Rv. 243607; Sez. 5, n. 45441 del 07/10/2019, Rv. 276992).
Orbene la corte territoriale ha reso una motivazione del tutto conforme ai menzionati principi di diritto, in quanto, premesso che l’imputato, nella richiamata qualità, “svolgeva attività per mezzo di poteri pubblicistici certificativi, che si estrinsecavano nella diagnosi e nella correlativa prescrizione di prestazioni sanitarie a carico del Servizio Sanitario Nazionale”, il giudice di appello ha correttamente evidenziato come il caso in esame si sia verificato “nell’ambito di un’attività di natura pubblicistica, poiché esplicativa e posta a tutela di interessi collettivi, in quanto volta a certificare lo stato di salute del paziente e il tipo di intervento effettuato in suo favore”, riportati nella scheda redatta dal prevenuto (cfr. pp. 16-17 dell’impugnata sentenza).
Sotto questo profilo appare del tutto fuori fuoco il rilievo articolato con riferimento alla mancata considerazione del disposto dell’art. 491 bis, c.p., che recita testualmente “Se alcuna delle falsità previste dal presente capo riguarda un documento informatico pubblico avente efficacia probatoria, si applicano le disposizioni del capo stesso concernenti gli atti pubblici”.
Come è stato acutamente osservato in dottrina, con tale norma, il legislatore non ha introdotto ex novo un nuovo delitto di falso, ma ha semplicemente esteso, per fugare ogni dubbio al riguardo, l’applicazione delle disposizioni sulle falsità in atti ai casi in cui l’oggetto materiale della condotta sia costituito da un documento informatico pubblico, escludendo l’applicabilità ai documenti informatici pubblici di tutte le fattispecie di falso documentale, che si collocano al di fuori del Capo III
del Titolo II del Libro II del codice penale, Capo in cui rientra l’art. 479, c.p.
In tal modo si è raggiunto il duplice obiettivo di non mutare la struttura della fattispecie in funzione della sola diversità dell’oggetto materiale, sottoponendo a identico regime sanzionatorio fatti criminosi, che non si differenziano sul piano dell’oggettività giuridica e del bene tutelato dalla norma penale.
Ne consegue l’infondatezza dell’eccezione difensiva, anche alla luce della previsione di cui all’art. 491 bis, c.p., essendosi già indicate le ragioni per cui la scheda informativa redatta dal COGNOME deve considerarsi un atto pubblico (informatico) posto in essere da un pubblico ufficiale, nell’esercizio dei suoi poteri pubblicistici di certificazione, connessi all’attività medica esercitata, comprovante lo stato di salute del paziente e il tipo di intervento effettuato in suo favore”.
Anche il tema della falsità dell’atto risulta correttamente affrontato dalla corte territoriale, che ha individuato, con motivazione affatto carente, né illogica o manifestamente infondata, la falsità del documento nella circostanza che in esso veniva attestata come effettuata la visita presso il domicilio della paziente COGNOME con l’indicazione dell’orario di uscita e di rientro presso la sede ambulatoriale, in realtà pacificamente mai verificatasi (cfr. p. 17 dell’impugnata sentenza), sicché i rilievi difensivi sul punto appaiono infondati, collocandosi ai confini dell’inammissibilità, perché volti a sollecitare un’inammissibile rivalutazione in questa sede delle risultanze processuali.
4.2. Infondato deve ritenersi anche il secondo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente denuncia la violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza, con riferimento all’intervenuta diversa qualificazione operata dalla corte territoriale del fatto di cui al capo A) dell’imputazione, originariamente contestato come omissione continuata di atti d’ufficio, ai sensi dell’art. 328, c.p., per essere poi dalla corte di appello ricondotto al paradigma normativo di cui all’art. 340, c.p.
A tale conclusione la corte territoriale giungeva, facendo applicazione del principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità in relazione a una
fattispecie concreta analoga a quella in esame, secondo cui integra l’elemento oggettivo del reato previsto dall’art. 340, c.p., la condotta del medico preposto al servizio di guardia medica che si renda irrintracciabile durante l’orario di lavoro – non assicurando la propria presenza in ambulatorio nell’orario stabilito, e non rendendosi disponibile ad interloquire tramite l’utenza telefonica mobile comunicata per l’espletamento del servizio – da cui consegua, a causa della sua assenza, l’invio dei pazienti, da parte degli infermieri, al locale pronto soccorso (cfr. Sez. 2, n. 52007 del 24/11/2016, Rv. 268434).
La tesi difensiva non può essere accolta.
Da tempo, invero, la giurisprudenza della Suprema Corte, anche nella sua espressione più autorevole, ha delineato il perimetro di operatività della violazione del principio di cui all’art. 521, c.p.p., in termini sufficientemente chiari.
Si è, così, affermato che l’attribuzione all’esito del giudizio di appello, pur in assenza di una richiesta del pubblico ministero, al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione non determina la violazione dell’art. 521, c.p.p., neanche per effetto di una lettura della disposizione alla luce dell’art. 111, secondo comma, Cost., e dell’art. 6 della Convenzione EDU come interpretato dalla Corte europea, qualora la nuova definizione del reato fosse nota o comunque prevedibile per l’imputato e non determini in concreto una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono (cfr. Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Rv. 264438).
Di particolare interesse è quanto affermato in altri condivisibili arresti, secondo cui in tema di correlazione tra accusa e sentenza, il rispetto della regola del contraddittorio – che deve essere assicurato all’imputato, anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto, conformemente all’art. 111, comma secondo, Cost., integrato dall’art. 6 Convenzione europea, come interpretato dalla Corte EDU – impone esclusivamente che detta diversa qualificazione giuridica non avvenga “a sorpresa” e cioè nei confronti dell’imputato che, per la prima volta e,
quindi, senza mai avere la possibilità di interloquire sul punto, si trovi di fronte ad un fatto storico radicalmente trasformato in sentenza nei suoi elementi essenziali rispetto all’originaria imputazione, di cui rappresenti uno sviluppo inaspettato. Ne consegue che non sussiste la violazione dell’art. 521 cod. proc., rilevato pen. qualora la diversa qualificazione giuridica del fatto appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile e l’imputato ed il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire in ordine al contenuto dell’imputazione, anche attraverso l’ordinario rimedio dell’impugnazione (cfr. Sez. 5, n. 7984 del 24/09/2012, Rv. 254649, Sez. 5, n. 1697 del 25/09/2013, Rv. 258941). Presupposto indefettibile della violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza nel caso di riqualificazione dell’originaria imputazione, dunque, è che il fatto storico ritenuto dal giudice risulti oggettivamente diverso da quello contestato, per la trasformazione radicale della fattispecie concreta nei suoi elementi essenziali, tale da ingenerare incertezza sull’oggetto dell’imputazione e pregiudicare il diritto di difesa (cfr. Sez. 5, n. 37461 del 22/09/2021, Rv. 281930; Sez. 3, n. 5463 del 05/12/2013, Rv. 258975).
Applicando tali principi alle fattispecie in esame, non appare revocabile in dubbio che difetti proprio la trasformazione radicale della fattispecie concreta, che nei suoi elementi essenziali è rimasta identica, posto che il fatto storico di cui al capo A) è rimasto identico nei suoi elementi essenziali: il verificarsi di un’interruzione del servizio di continuità assistenziale, cui era addetto il ricorrente, “a causa dell’assenza dell’imputato, resosi irrintracciabile durante l’orario di lavoro”, in due occasioni, “in un caso per l’intero turno e nell’altro per oltre quattro ore dall’inizio” (cfr. p. 13 della sentenza oggetto di ricorso).
Né la diversa qualificazione giuridica di cui si discute costituisce un epilogo decisorio giuridicamente imprevedibile, tale da ledere il concreto esercizio del diritto di difesa tecnica dell’imputato, posto che, come evidenziato dalla corte territoriale, era stato lo stesso imputato, circostanza non contestata dal ricorrente, a prospettare la possibilità che
i fatti di cui si discute venissero riqualificati ai sensi dell’art. 340, c.p., come richiesto, invece specificamente, in sede di conclusioni innanzi alla corte di appello dal procuratore generale della Repubblica.
Ragione per la quale, pur non avendo l’imputato chiesto che il giudice di appello procedesse alla diversa qualificazione giuridica, ma solo prospettato che “si sarebbe potuto contestare la fattispecie di cui all’art. 340, sempre che il medico addetto al servizio di guardia avesse concretamente interrotto con la sua condotta omissiva l’espletamento di un pubblico servizio” (cfr. pp. 8-9 del ricorso), appare evidente come, anche alla luce delle conclusioni del pubblico ministero, l’epilogo decisorio sul punto non era giuridicamente imprevedibile, ma, anzi, concretamente prevedibile, se non previsto, dall’imputato.
4.3. Infondato, infine, risulta anche il terzo motivo di ricorso, per la decisiva ragione che, con riferimento all’affermazione di responsabilità del prevenuto per il reato ex art. 494, c.p., di cui al capo B), la motivazione della sentenza impugnata non è affatto assente o manifestamente illogica, come preteso dal ricorrente.
Invero, una volta accertato, alla luce delle testimonianze dei testi escussi, COGNOME, COGNOME, COGNOME e COGNOME, che la sera del 16.6.2017 il coimputato NOME COGNOME NOME COGNOME sprovvisto di laurea in medicina, si era presentato in servizio presso la Guardia Medica di INDIRIZZO in Piacenza, entrando nei locali dell’ambulatorio, dopo avere chiesto e ottenuto dall’addetta alla portineria le chiavi per aprire la porta di accesso, e, secondo quanto riferito dal teste COGNOME, qualificandosi come il dott. COGNOME in servizio presso la suddetta Guardia Medica, permanendovi, infine, per il tempo in cui avrebbe dovuto essere di turno il ricorrente, appare dotato di intrinseca coerenza logica il percorso argomentativo seguito dalla corte territoriale, che, anche in ragione dei contatti telefonici intercorsi tra i due imputati nell’arco di quelle ore, come emersi dai tabulati, ha ritenuto il ricorrente responsabile del reato in questione a titolo di concorrente morale nella condotta materiale posta in essere dal Ngakam, da lui istigato o determinato a commettere il reato di cui all’art. 494, c.p., in modo che
potesse coprire la sua assenza dal posto di lavoro per oltre quattro ore (cfr. pp. 2 e ss.; 14-16 della sentenza oggetto di ricorso).
Non appare revocabile in dubbio, invero, che il Ngakam abbia agito spacciandosi per il medico di guardia che in quel momento doveva essere in servizio, vale a dire per il COGNOME,
A tale conclusione la corte territoriale giunge all’esito un percorso logico ineccepibile, evidenziando non solo quanto riferito dal teste COGNOME, ma anche il contegno complessivo serbato dal Ngakam, che si era presentato munito di una valigetta, per avvalorare l’immagine di medico; aveva chiesto più volte, prima al COGNOME e poi alla COGNOME, le chiavi per poter accedere ai locali della Guardia Medica; si era intrattenuto in tali locali per una parte del periodo in cui avrebbe dovuto essere di turno il ricorrente; come riferito dal COGNOME, si era allontanato alle ore 23.00 dall’ambulatorio, adducendo come ragione la necessità di effettuare una visita domiciliare (ovviamente mentendo, non essendo egli un medico), per poi farvi ritorno alle ore 03.00 e, infine, aveva interloquito con la teste COGNOME alle ore 21.00, quando egli era l’unico “medico” presente nell’ambulatorio, a proposito della richiesta di intervento in favore della paziente COGNOME.
Le circostanze evidenziate dal ricorrente, secondo cui contrasterebbero con l’assunto accusatorio dell’esistenza di un preventivo accordo tra i due imputati, la mancata consegna delle chiavi dell’ambulatorio da parte del COGNOME al suo complice, la consegna da parte del COGNOME al portinaio COGNOME alle ore 03.00 dei suoi veri documenti di identità, l’essersi qualificato come COGNOME solo con il Minore, non hanno la capacità di disarticolare il percorso argomentativo seguito dalla corte territoriale.
Al riguardo va osservato che il reato di cui all’art. 494, c.p., si consuma qualora l’altrui persona sia stata ingannata, non occorrendo il perseguimento del vantaggio perseguito, presentandosi come un reato eventualmente permanente, in quanto l’errore altrui può, non deve, ik perdurare nel tempo con l’ininterrotta continuazione del mezzo fraudolento (cfr. Sez. III, 12.3.1999, Tenerelli).
Nel caso in esame, dunque, il reato in questione si è perfezionato nel momento in cui sono stati tratti in errore i testi COGNOME, COGNOME, COGNOME
e COGNOME indotti dalle dichiarazioni e dalla condotta del Ngakam a scambiarlo per il Djoukwe, condotta che, dal punto di vista logico, non
trova altra spiegazione se non nei sensi indicati dalla corte territoriale.
Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso va, pertanto, rigettato agli effetti civili, ma l’imputato non va condannato al pagamento delle
spese processuali, non essendo egli completamente soccombente nel presente giudizio.
Nulla è dovuto alla parte civile, a titolo di refusione delle spese sostenute nel presente grado di giudizio, non avendo quest’ultima esplicato
un’attività diretta a contrastare l’avversa pretesa a tutela dei propri interessi di natura civile risarcitoria, fornendo un utile contributo alla
decisione del proposto ricorso (cfr. Sez. 4, n. 10022 del 06/02/2025, Rv.
287766; Sez. 2, n. 24619 del 02/07/2020, Rv. 279551; Sez. 2, n. 12784 del 23/01/2020, Rv. 278834; Sez. 5, n. 30743 del 26/03/2019, Rv. 277152).
P.Q.M.
Annulla senza rinvio agli effetti penali la sentenza impugnata per essere i reati estinti per prescrizione. Rigetta il ricorso agli effetti civili. Nulla per le spese di parte civile.
Così deciso in Roma il 18.4.2025