Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 10355 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 10355 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 21/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 06/06/2023 della CORTE APPELLO di FIRENZE
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
Motivi della decisione
COGNOME NOME, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso avverso la sentenza in epigrafe deducendo violazione di legge in relazione all’affermata responsabilità contestando la motivazione della sentenza impugnata in punto di elemento oggettivo, relativamente alla nozione di “reddito imponibile” , con riferimento alla necessità che debba trattarsi di redditi effettivamente percepiti e all’elemento soggettivo del reato sostenendo che nel caso in esame ci si trovi di fronte ad un fatto colposo, in quanto tale non punibile.
Chiede, pertanto, annullarsi la sentenza impugnata.
Ritiene il Collegio che i motivi proposti siano inammissibili in quanto il ricorrente, non senza evocare in larga misura censure in fatto non proponibili in questa sede, si è nella sostanza limitato a riprodurre le stesse questioni già devolute in appello, e da quei giudici puntualmente esaminate e disattese con motivazione del tutto coerente e adeguata, senza in alcun modo sottoporle ad autonoma e argomentata confutazione. Ed è ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Suprema Corte come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici.
In ogni caso, i motivi in questione sono manifestamente infondati, in quanto tesi ad ottenere una rilettura degli elementi di prova che non è consentita in questa sede, e pertanto il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.
Il ricorso, in concreto, non si confronta adeguatamente con la motivazione della sentenza impugnata, che appare logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto, e pertanto immune da vizi di legittimità.
La Corte territoriale aveva già chiaramente confutato, nel provvedimento impugnato, tutte le tesi oggi riproposte, evidenziando in punto di elemento oggettivo del reato che la prospettazione difensiva che fonda il primo motivo è smentita innanzi tutto dalla condotta tenuta dal medesimo COGNOME che, immediatamente dopo il licenziamento, aveva presentato domanda per l’indennità di disoccupazione, essendo quindi assolutamente consapevole del rapporto di lavoro instaurato con la COGNOME e della sussistenza di un contratto sulla base del quale erano state emesse le buste paga.
Inoltre, viene posto in rilievo che l’insussistenza delle condizioni per l’ammissione era materialmente risalente all’anno di imposta 2015, pertanto la prospettazione difensiva, che comunque sostiene che l’imputato non avesse consapevolezza del mutamento delle condizioni di reddito perché, pur avendo prestato
attività presso il bar della RAGIONE_SOCIALE e pur essendo stato assunto con regolare contratto ed avendo documentatamente percepito la retribuzione, ne era inconsapevole, è smentita anche dalla circostanza che le condizioni per l’ammissione erano insussistenti anche in riferimento alle annualità precedenti.
La sentenza impugnata, pertanto, opera un buon governo ella costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità secondo cui il reato in questione è figura speciale del delitto di falso ideologico commesso da privato in atto pubblico (art. 483 cod. pen.) e, come quello, ha natura di reato di pura condotta, sicché il relativo perfezionamento prescinde dal conseguimento di un eventuale ingiusto profitto che, anzi, qui costituisce un’aggravante.
Consegue che il dolo del delitto in questione, essendo anch’esso costituito dalla volontà cosciente e non coartata di compiere il fatto e nella consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero, non può essere escluso nel caso di specie in cui è stato anche motivatamente escluso un errore sull’identificazione dei redditi da inserire nella dichiarazione.
Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di tremila euro alla cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 21 febbraio 2024
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