Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 396 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 396 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 17/11/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto nell’interesse di
COGNOME NOME nato a MILANO il 23/11/1962
avverso la sentenza del 02/03/2023 della CORTE APPELLO di MILANO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
sentite le richieste del PG NOME COGNOME che ha c:oncluso chiedendo l’annullamento con rinvio dell’impugnata sentenza per un nuovo giudizio sulla sussistenza dei presupposti di applicazione dell’articolo 131 -bis cod. pen. e la declaratoria di inammissibilità nel resto;
sentite le conclusioni dell’avv. NOME COGNOME per il ricorrente, che si è riportato ai motivi di ricorso, chiedendone l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della pronuncia emessa in data 12 luglio 2021 dal Tribunale di Milano, ha dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei confronti di NOME COGNOME in ordine ai reati di truffa e falso a lui ascritti ai capi a) e b), con conseguente rideterminazione della pena, confermando nel resto.
Ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del proprio difensore, formulando sette motivi di impugnazione, che qui si riassumono nei termini di cui all’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Errata applicazione della legge penale e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ribadita affermazione di responsabilità in ordine ai reati di truffa.
La Corte di appello, nonostante specifici profili di gravame, non avrebbe motivato, neppure per relationem, in merito all’effettivo svolgimento, sia pure in altra data, delle attività documentate nei verbali, nonché alla sussistenza di un ingiusto profitto per tutti i singoli episodi e all’idoneità decettiva delle condo (conformi a prassi ben consolidate), così pervenendo a una decisione di condanna, in presenza di plurimi elementi a discarico, in asserita violazione del criterio del ragionevole dubbio.
2.2. Errata applicazione della legge penale e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ribadita affermazione di responsabilità in ordine ai reati di falso ideologico.
La Corte di appello ha escluso l’inoffensività delle condotte in esame, a detta della difesa inidonee a ledere l’interesse protetto, con motivazione solo apparente che confonde l’ingiusto profitto della truffa con l’offensività del falso, secondo un’interpretazione tanto restrittiva da rendere non configurabile il falso innocuo in qualsiasi contesto astrattamente esso possa verificarsi. Mancherebbe d’altronde il dolo di legge, avendo l’imputato agito nella consapevolezza di non arrecare danno all’ente.
2.3. Mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del dolo nei delitti di truffa.
La sentenza impugnata non avrebbe chiarito, sovrapponendo indebitamente le fattispecie contestate ex art. 640 ed ex artt. 476-479 cod. pen., sulla base di quali elementi sarebbe stato desunto l’elemento soggettivo, a fronte di motivi di appello che sottolineavano l’implausibilità dell’ipotesi accusatoria (fondata sulla finalità di ottenere rimborsi in poche centinaia di euro nell’arco di cinque anni). D’altronde, l’ampiezza dell’arco temporale, tale da diluire la reclditività dell’azione, dovrebbe far ritenere minima l’intensità del dolo, al contrario di quanto fatto dai giudici di appello.
2.4. Violazione di legge in relazione agli artt. 131-bis cod. pen. e illogicit della motivazione, in merito al mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto.
Il rigetto della richiesta avanzata dalla difesa sul punto sarebbe infatti sorretto da argomentazioni non corrette, quali la reiterazione degli episodi (nonostante l’intero presunto danno consistesse in poche centinaia di euro e la riconosciuta
continuazione non fosse di per sé ostativa) e il rilievo pubblicistico dell’attivi svolta (dato che i casi di tassativa esclusione per legge non ricomprendono le fattispecie per cui si procede), omettendo altresì di dare rilievo alla spontanea ottemperanza alle statuizioni civili.
2.5. Violazione di legge e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione quanto al mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen., sulla base di considerazioni che non incidono sulla natura patrimoniale del danno preso in considerazione dalla disposizione circostanziale.
2.6. Violazione di legge e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione relativamente alla determinazione del trattamento sanzionatorio e agli eccessivi aumenti di pena a titolo di continuazione, apoditticamente illustrate sottolineando la commissione ai danni di un ente pubblico (ciò che è già fisiologicamente ricompreso nelle due norme incriminatrici).
2.7. Violazione di legge discendente dalla contestazione a specchio con cui, per ogni episodio, si imputa la stessa condotta di artifici e racigiri mediante falsa attestazione della propria presenza sia a titolo di truffa, sia a titolo di falso. Quest sovrapposizione, reiterata dall’aggravante teleologica, dovrebbe considerarsi non corretta, perché in tal modo si confonde il fine della condotta con la sua materialità e si trascura la possibile natura di reato complesso della truffa. Il non avere riconosciuto il concorso apparente di norme condurrebbe dunque a una violazione del ne bis in idem.
2.8. Il ricorrente ha presentato memoria che sottolinea l’integrale assolvimento delle statuizioni civili, con piena riparazione delle conseguenze del presunto reato, allegando attestazione della parte civile INAIL di avvenuto spontaneo pagamento da parte dell’imputato delle ulteriori spese di rappresentanza e assistenza, in ottemperanza a quanto statuito dalla Corte di appello di Milano (in aggiunta all’intecvale pagamento, anch’esso già spontaneamente effettuato dall’imputato, delle somme liquidate a titolo di statuizioni civili dalla sentenza di primo grado), come riconosciuto dalla stessa Corte d’Appello di Milano con la sentenza impugnata.
La parte civile INAIL ha depositato memoria, con cui rileva l’inammissibilità del ricorso, allegando conclusioni e nota spese.
All’odierna udienza pubblica, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile, perché proposto con motivi manifestamente infondati, generici e non consentiti.
Le censure in tema di induzione in errore e di ingiusto profitto non risultano previamente a suo tempo dedotte come motivi di appello, come può agevolmente evincersi dall’atto di gravame (il cui motivo 1.1. ha per oggetto, esaminando nel dettaglio ogni singola imputazione, la prova dei fatti, l’assenza di artifici e raggi e la volontà di frodare il datore di lavoro). Il motivo è dunque, in parte qua, inammissibile ai sensi dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen., dovendosi evitare che possa essere rilevato un difetto di motivazione della sentenza di secondo grado con riguardo ad un punto del ricorso non investito dal controllo della Corte di appello, nella pienezza valutativa della giurisdizione di merito, perché non segnalato con i motivi di gravame (cfr. Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, COGNOME, Rv. 270316).
2. I giudici di appello, condividendo la ricostruzione in fatto e in diritto operat dal Tribunale, procedono poi a un esame dei singoli episodi, rilevando la solidità degli elementi a carico (pp. 19-23), dopo avere richiamato i motivi con cui il Tribunale aveva escluso la possibilità che gli interventi fossero stati svolti in alt data (come prospettato, per alcuni casi «comunque assai limitati rispetto alle giornate di lavoro» di cui trattasi – pp. 11-12)
Non appare neppure conferente, al fine di escludere la consumazione del reato, il generico richiamo a prassi asseritamente in uso, prive di efficacia scriminante.
Anche tali doglianze sono dunque non consentite, mirando a una ricostruzione alternativa dei fatti, e comunque manifestamente infondate.
La sentenza impugnata esclude la innocuità dei falsi ideologici, dal momento che l’immutatio veri ha avuto evidenti effetti giuridici: la mendace attestazione di sopralluogo e le valutazioni sui macchinari effettuate sulla base di informazioni soltanto cartolari hanno frustrato le finalità di controllo, mediante verifica in concreto, del rispetto della normativa sulla sicurezza dei luoghi di lavoro (oltre a costituire gli artifici utilizzati nei delitti di truffa).
La conclusione è coerente con la consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo la quale il falso ideologico può reputarsi “innocuo” solo nei casi in cui l’infedele attestazione sia del tutto irrilevante ai fini del significato dell’atto, sul punto di valenza probatoria, e non esplichi effetti sulla sua funzione documentale (Sez. 5, n. 5896 del 29/10/2020, dep. 2021, Brisciano, Rv. 280453; Sez. 5, n. 28599 del 07/04/2017, COGNOME, RV. 270245).
Quanto alla dedotta carenza dell’elemento soggettivo, poiché l’imputato non avrebbe mai voluto cagionare un pregiudizio all’ente pubblico, occorre osservare come, ai fini della configurabilità del reato di falsità ideologica in atto pubblico, sufficiente il dolo generico, da ritenersi sussistente in presenza della falsa attestazione di un accertamento in realtà mai compiuto (Sez. 5, n. 12547 del
08/11/2018, dep. 2019, COGNOME Rv. 276505-02). Risulta dunque congrua la motivazione che richiama la volontaria falsificazione dei verbali.
Il secondo motivo risulta quindi reiterativo e manifestamente infondato.
L’elemento soggettivo della truffa è costituito dal dolo generico, diretto o indiretto, la cui prova può desumersi dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive dell’azione criminosa, attraverso le quali, con processo logico-deduttivo, è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto, in modo evidenziarne la cosciente volontà e rappresentazione degli elementi oggettivi del reato (cfr. Sez. 5, n. 30726 del 09/09/2020, COGNOME, Rv. 279908, che ha ritenuto corretta la decisione impugnata che aveva affermato la responsabilità dell’imputato per il reato di truffa aggravata in danno di ente pubblico, per aver chiesto e ottenuto, mediante la presentazione di false rendiconl:azioni, corrispettivi per attività di consulenza legale, in realtà mai eseguita o eseguita in termini temporali diversi da quelli rendicontati. Conforme Sez. 2, n. 24645 del 21/03/2012, Presicce, Rv. 252824).
Per la perfezione del delitto, non è dunque necessario postulare, come fa il ricorrente, una specifica «finalità di ottenimento di profitto quale motore conseguenza delle condotte contestate», essendo sufficiente la coscienza e volontà degli elementi costitutivi del reato (quali l’inganno, il profitto, il danno), emerge chiaramente dalla ricostruzione del fatto (pp. 14-23) e che è ribadita stigmatizzando poi – con motivazione tutt’altro che illogica – l’intensità del dolo desumibile dalla reiterazione degli episodi (p. 30).
Il motivo è pertanto reiterativo e manifestamente infondato.
Quanto all’esclusione della particolare tenuità del fatto, la Corte milanese chiarisce congruamente come, all’esito dello scrutinio complessivo delle reiterate violazioni, sia impossibile ipotizzare una loro 1:rascurabile offensività, non solo per il non irrilevante importo complessivo delle indennità di missione, a cui devono sommarsi anche le retribuzioni percepite per attività lavorativa mai espletata (perché il dipendente non era in missione ma a casa propria), ma anche per «il rilievo pubblicistico della condotta» (non astrattamente considerato, ma concretamente descritto come «l’interesse della collettività a che le verifiche in tema di sicurezza sul lavoro siano svolte con scrupolo e professionalità»).
Il ricorrente si duole della contraddittoria valorizzazione del reato continuato e della mancata considerazione dello spontaneo e sollecito pagamento di quanto disposto in sentenza (quale condizione a c:ui era subordinata la sospensione condizionale della pena), senza attendere il termine di tre mesi dall’irrevocabilità del provvedimento.
5.1. La causa di non punibilità opera solo in presenza di un duplice presupposto («quando l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale»).
Secondo il massimo consesso di legittimità, non è automaticamente ravvisabile alcuna identità fra il reato continuato e la “abitualità” richiamata dall norma in esame, né il reato continuato può farsi rientrare sic et simpliciter nell’ambito della locuzione normativa «reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate» e, più in particolare, del sintagma «condotte plurime». Tuttavia, in presenza di una pluralità di reati unificati nel vincolo dell continuazione (in particolare, nella forma cosiddetta “diacronica”), il giudice può escludere l’applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen., qualora, in concreto, riteng sussistere le condizioni ostative suddette, alla luce di una serie di indicatori, qual la natura e la gravità degli illeciti in continuazione, la tipologia dei beni giuri protetti, l’entità delle disposizioni di legge violate, le finalità e le modalità esecut delle condotte, le loro motivazioni e le conseguenze che ne sono derivate, il periodo di tempo e il contesto in cui le diverse violazioni si collocano, l’intensit del dolo e la rilevanza attribuibile ai comportamenti successivi ai fatti (Sez. U, n. 18891 del 27/01/2022, COGNOME, Rv. 283064).
L’insegnamento delle Sezioni Unite è stato correttamente recepito dai giudici di appello, i quali sottolineano la rilevanza, in tema di gravità dei fatti e di intens del dolo, della sommatoria degli effetti negativi, nei termini sopra accennati, di condotte ripetute in un ampio arco di tempo.
5.2. Non è poi revocabile in dubbio che, dopo la modifica (incontestabilmente retroattiva, data la natura sostanziale dell’istituto) del primo comma dell’art. 131bis cod. pen. ad opera dell’art. 1, comma 1, lett. c), n. 1, digs. 10 ottobre 2022, n. 150, le modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo, ai fini del riconoscimento dell’esimente, devono essere valutati, secondo i criteri di cui all’art. 133, primo comma, cod. proc. pen., tenendo «anche in considerazione condotta susseguente al reato».
Ciò, tuttavia, non incide né sulla correttezza in punto di diritto delle conclusioni della Corte milanese, né sulla globale adeguatezza giustificativa dell’apparato motivazionale.
L’atto di gravame, nel motivo 2.1, sollecitava, sia pure in via subordinata, il riconoscimento della causa di non punibilità, sulla sola base della particolare tenuità del danno patrimoniale e del corretto inserimento sociale dell’imputato, incensurato e non più giovanissimo. Con tali profili di censura, la Corte di appello si è confrontata, congruamente ottemperando all’onere motivazionale, nella pienezza della giurisdizione di merito, mediante il solo riferimento ai dati di segno negativo ritenuti decisivi, non essendo necessaria una espressa disamina di tutti
gli elementi di valutazione astrattamente previsti (Sez. 7, n. 10481 del 19/01/2022, Deplano, Rv. 283044; Sez. 3, n. 34151 del 18/06/2018, Foglietta, Rv. 273678). Il giudizio sulla tenuità richiede infatti una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266591).
La mancanza di un’effettiva lesività per cui l’atto tipic:o, pur in astratt conforme al modello criminoso normativamente previsto, non costituisce reato punibile, deve dunque emergere all’esito di un momento valutativo di sintesi. La sussistenza dell’esimente è con ogni evidenza preclusa quando emerga anche un solo elemento rimarchevole in senso negativo, indipendentemente dall’eventuale allegazione di ulteriori circostanze, preesistenti o sopravvenute, astrattamente rilevanti, ma non idonee in concreto ad elidere o a ridurre in maniera significativa i profili di segno contrario.
5.3. Nel ricorso, con integrazione in limine mediante «Memoria ex art. 611, comma I c.p.p. con nota di produzione documentale», si sottopongono all’attenzione del Collegio sopravvenute condotte risarcitorie o riparatorie. Peraltro, la contrapposta memoria dell’ente previdenziale, che pure accenna alla censura in tema di particolare tenuità del fatto, non prende posizione sui dedotti versamenti e conferma il proprio interesse a resistere in giudizio al ricorso dell’imputato.
La specifica circostanza è introdotta per la prima volta nel giudizio di legittimità, ma risulta deducibile ai sensi dell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen., in quanto non proponibile al momento della presentazione dell’atto di gravame o nel corso del giudizio di appello. Qualora riconoscesse la fondatezza della doglianza, il Collegio potrebbe dunque ritenere l’applicabilità dell’esimente, annullando senza rinvio la sentenza impugnata a norma dell’art. 620, comma 1, lett. I), cod. proc. pen. (Sez. 4, n. 9466 del 15/02/2023, Castrignano, Rv. 284133. Cfr. anche Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, cit.), sempre che i presupposti per la sua operatività siano immediatamente rilevabili dagli atti e non siano necessari ulteriori accertamenti fattuali (Sez. 6, n. 36518 del 27/10/2020, Rodio, Rv. 280118-02; Sez. 6, n. 7606 del 16/12/2016, dep. 2017, Curia, Rv. 269164).
In ogni caso, tali fatti nuovi possono essere valorizzati solo nell’ambito del giudizio complessivo sopra descritto (cfr. Sez. 3, n. 18029 del 04/04/2023, Hu Qinglian, Rv. 284497). Una volta così doverosamente contestualizzati, essi risultano comunque inidonei a connotare l’intera vicenda in termini di particolare tenuità dell’offesa. La ponderazione dell’intera vicenda ad opera dei giudici di merito ha, infatti, giustamente posto l’accento non solo e non tanto sul vulnus strettamente finanziario cagionato all’Inail, quanto alla gravità dei plurimi episodi
nei quali la fraudolenta condotta del ricorrente ha vanificato la funzione pubblica di controllo a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.
Questo indubitabile elemento di gravità, estraneo a una dimensione strettamente patrimoniale, non risulta scalfito dai fatti sopravvenuti allegati dal ricorrente.
Ne discende la manifesta infondatezza anche del quarto motivo.
La concessione della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità, presuppone necessariamente che il pregiudizio cagionato sia lievissimo, ossia di valore economico pressoché irrisorio, avendo riguardo non solo al valore in sé della cosa sottratta, ma anche agli ulteriori effetti pregiudizievoli che la persona offesa abbia subìto in conseguenza del reato, senza che rilevi, invece, la capacità del soggetto passivo di sopportare il danno economico derivante dal reato (Sez. 2, n. 5049 del 22/12/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 280615. Cfr. anche Sez. 6, n. 30177 del 04/06/2013, COGNOME, Rv. 256643, relativa ad una truffa commessa in danno di Poste Italiane Spa, attraverso l’utilizzo abusivo dei cartellini di ingresso e la conseguente alterazione dei dati sulle presenze in ufficio, in cui l’attenuante è stata esclusa, richiamando la grave lesione del rapporto fiduciario determinata dalla condotta delittuosa).
Correttamente, pertanto, la Corte territoriale, richiamando le considerazione espresse in tema di mancata applicazione dell’art. 131-bis cod. pen., ha ritenuto che non potesse stimarsi «contenuto» il danno patrimoniale cagionato all’azienda pubblica.
Risulta manifestamente infondato, quindi, anche il quinto motivo.
È opportuno sottolineare come la pena base individuata in primo grado e confermata in appello per il più grave delitto di falso cui al capo d), si è precisamente appiattita sul minimo edittale, ulteriormente ridotto di un terzo per le circostanze attenuanti generiche. A titolo di aumento ex art. 81, secondo comma, cod. pen. è stato poi computato un mese per ognuno dei reati in continuazione.
La congruità della sanzione – concretamente inflitta in ogni caso in termini di tutt’altro che eccessiva asprezza – appare illustrata in maniera logica e aderente al dato processuale.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito. Nel caso in cui venga irrogata una pena molto al di sotto della media edittale, l’obbligo motivazionale si attenua: è sufficiente che si richiami il criterio di adeguatezza della pena o che si dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., anche solo co espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere; resta,
invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, COGNOME, Rv. 276288; Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, COGNOME, Rv. 27124:3; Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, COGNOME, Rv. 265283).
Le censure del ricorrente risultano di conseguenza non consentite, presupponendo una diversa valutazione del fatto, e manifestamente infondate.
Al contrario della ricostruzione sistematica ipotizzata dal ricorrente, non è configurabile l’assorbimento tra il delitto di cui agli artt. 476-479 cod. pen. e quell di cui all’art. 640 cod. pen., nel caso in cui la falsificazione costituisca artificio commettere la truffa. Non ricorre infatti l’ipotesi del reato complesso, per la cui configurabilità non è sufficiente che le particolari modalità di realizzazione del fatto tipico determinino un’occasionale convergenza di più norme e, quindi, un concorso di reati, ma è necessario che sia la legge a prevedere un reato come elemento costitutivo o circostanza aggravante di altro reato (cfr. Sez. 2, n. 1851 del 30/09/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284287; Sez. 5, n. 2935 del 05/11/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 274589-02; Sez. 5, n. 45965 del 10/10/2013, COGNOME, Rv. 257946).
Anche l’ultimo motivo, in conclusione, è manifestamente infondato.
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali e, a titolo di sanzione pecuniaria, di una somma in favore della Cassa delle ammende, da liquidarsi equitativamente, valutati i profili di colpa emergenti dall’impugnazione (Corte cost., 13 giugno 2000, n. 186), nella misura indicata in dispositivo.
Il ricorrente non deve, però, essere condannato al pagamento delle spese processuali sostenute dalla parte civile, che non ha offerto elementi di dibattito idonei a offrire una valida piattaforma argomentativa di contrasto alle avverse ragioni (cfr. Sez. 4, n. 36535 del 15/09/2021, A., Rv. 281923; Sez. 3, n. 27987 del 24/03/2021, G., Rv. 281713; Sez. 2, n. 12784 del 23/01/2020, COGNOME, Rv. 278834).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
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Così deciso il 17 novembre 2023
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