Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 13615 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 13615 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 12/02/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME nato a Guardia Sanframondi il 15/03/1952;
Di NOMECOGNOME nato a Pescara il 02/04/1948;
avverso la sentenza del 16/06/2023 della Corte di appello di L’Aquila;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata;
udito l’Avvocati NOME COGNOME per la parte civile Università INDIRIZZO di Chieti, il quale si è espresso per il rigetto dei ricorsi;
uditi gli Avvocati NOME COGNOME anche per NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME e NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME che hanno insistito per l’accoglimento dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza di primo grado, il Tribunale di Chieti aveva condannato NOME COGNOME allora Rettore dell’Università di Chieti, per abuso d’ufficio (art. 323 cod. pen.), per aver, in violazione degli artt. 15 e 19 d.lgs. 8 aprile 2016, n. 39, emanato un decreto a mezzo del quale, omettendo di avvisare previamente il Prof. NOME COGNOME dell’incompatibilità tra la carica di membro del Consiglio di amministrazione e la carica di Direttore, revocava la prima, impedendo al Prof. COGNOME di esercitare il diritto di scelta tra l’una e l’altra, in tal modo cagionandogli un ingiusto danno patrimoniale rappresentato dalla perdita del relativo trattamento economico (capo di imputazione a).
Riqualificato il fatto, originariamente contestato quale falso materiale in atto pubblico (art. 476 cod. pen.), aveva inoltre condannato NOME COGNOME e NOME COGNOME, allora Direttore Generale dell’Ateneo di Chieti, per il delitto di falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici (art. 479 cod. pen.) (capo di imputazione c).
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di L’Aquila dichiarava non doversi procedere nei confronti degli imputati perché entrambi i reati erano estinti per prescrizione, confermando le statuizioni civili.
Avverso la sentenza di appello hanno presentato ricorso per cassazione NOME COGNOME e NOME COGNOME per il tramite degli Avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME articolando i seguenti tre motivi.
3.1. Errata applicazione della legge penale e vizio di motivazione, in rapporto all’abuso d’ufficio.
Il delitto di cui all’art. 323 cod. pen. non è configurabile, difettandone requisiti costitutivi.
Manca la «violazione di legge». Il d.lgs. n. 39 del 2013 cit., intitolato “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in pubblico controllo”, all’art. 19, la cui violazione è contestata nel capo a) di imputazione, prevede che «lo svolgimento degli incarichi di cui al presente decreto in una delle situazioni di incompatibilità comporta la decadenza dall’incarico e la risoluzione del relativo contratto, di lavoro subordinato o autonomo, decorso il termine perentorio di quindici giorni dalla contestazione all’interessato, da parte del responsabile di cui all’articolo 15, dell’insorgere della causa di incompatibilità».
La disposizione non disciplina dunque la revoca, bensì i diversi casi di decadenza dall’incarico e di risoluzione del contratto di lavoro, demandando peraltro il compito di formulare una previa contestazione al soggetto interessato al non al Rettore, ma alla distinta figura del Responsabile del piano anticorruzione (combinato disposto artt. 19 e 15 d.lgs. n. 39 del 2013 cit.).
A ciò si aggiunga che i Giudici di merito hanno pretermesso:
come il prof. COGNOME avesse continuato a cumulare, in maniera non consentita, due incarichi tra loro incompatibili, e cioè quello di consigliere di amministrazione dell’Ateneo e quello di Direttore del Museo del medesimo Ateneo, il primo assunto in precedenza rispetto al primo, come anche emerso dalle dichiarazioni del medesimo prof. COGNOME in dibattimento;
che l’incompatibilità, in base alla normativa vigente (art. 17 d.lgs. n. 39 del 2013 cit.), comporta la nullità radicale degli atti di conferimento degli incarichi;
che, d’altronde, la mancata revoca avrebbe potuto incardinare una responsabilità economica in capo a chi aveva conferito incarichi affetti dalla suddetta nullità (art. 18, comma 1, d.lgs. n. 39 del 2013 cit.).
Dunque, il Rettore COGNOME agì non in violazione di legge, ma in piena conformità con il dettato delle citate disposizioni e, peraltro, previo parere positivo del Collegio dei revisori dei conti dell’Ateneo.
Della fattispecie di abuso d’ufficio manca, inoltre, la «doppia ingiustizia». Premesso che, secondo la prospettazione accusatoria, sarebbe stato arrecato al prof. COGNOME un danno ingiusto anche di natura patrimoniale, essendo stata chiesta la restituzione delle somme percepite quali indennità di componente del consiglio di amministrazione attraverso trattenute sullo stipendio, la Corte d’appello ha desunto il requisito in oggetto dal fatto che il Tribunale amministrativo regionale avesse immediatamente annullato il provvedimento di revoca quale membro del consiglio di amministrazione del prof. COGNOME
In tal modo, ha però confuso i profili di rilievo amministrativo e penalistico, questi ultimi ben distinti perché improntati ai principi di tassatività e tipicità.
Ha dimenticato, inoltre, e per converso, come l’ingiustizia nell’abuso d’ufficio debba ricavarsi aliunde, vale a dire in base a criteri ulteriori rispetto alla qualificazione della condotta, essendo segno di antigiuridicità speciale (a sua volta, elemento della tipicità).
In tale prospettiva, torna a rilevare il fatto che il Rettore avesse adottato la soluzione a seguito delle indicazioni del Collegio dei revisori dei conti dell’Ateneo, sicché un’eventuale inerzia avrebbe comportato profili di possibile rilievo contabile verso l’Ateneo.
La soluzione fu, in sintesi, dettata dalla necessità di evitare una situazione di illegalità, perseguendo un concreto interesse pubblico alla corretta gestione delle
risorse universitarie (e la giurisprudenza di legittimità ritiene che la compresenza della finalità pubblica con quella privata valga ad escludere il dolo di abuso d’ufficio. Sez. 3, n. 33043 del 08/03/2016, COGNOME, Rv. 267454; Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280).
Né può trascurarsi che – come evidenziato nel già richiamato parere del Collegio dei revisori dei conti dell’Università – anche il ruolo di Direttore del Museo universitario implica una piena autonomia gestionale nell’attività di propria competenza e che, soprattutto, comporta un’indennità di carica accademica incompatibile, ex art. 63 Statuto di Ateneo, con quella di consigliere di amministrazione.
L’illegittima erogazione di due indennità avrebbe potuto, dunque, generare un ulteriore profilo di danno erariale.
Tale conclusione si impone a maggior ragione per il fatto che il coimputato COGNOME è stato assolto da questo capo di imputazione per insussistenza del fatto, tale assoluzione determinando un conflitto di giudicati, potenzialmente rilevante financo ai sensi dell’art. 630 cod. proc. pen., come già rilevato in appello mediante deduzioni cui la Corte ha omesso di rispondere, incorrendo, pertanto, anche nella violazione dell’art. 546 cod. proc. pen.
In via subordinata, all’esito assolutorio si dovrebbe giungere in virtù della vigente formulazione della fattispecie di abuso d’ufficio, limitata alla violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuano margini di discrezionalità.
In proposito, la sentenza impugnata si limita ad evidenziare che la supposta violazione di legge rientrerebbe ancora nel dettato legislativo, in considerazione dell’asserita natura vincolata dell’agire del Rettore, che avrebbe dovuto operare la contestazione in modo da permettere all’interessato di scegliere tra un incarico e l’altro.
Tuttavia, come già evidenziato, la contestazione in oggetto, peraltro relativa all’ipotesi di decadenza e non di revoca del decreto rettorale, spettava, semmai, al Responsabile del piano anticorruzione, e non al Rettore (art. 15 d. Igs. 39 del 2013 cit).
Soprattutto, in senso contrario a quanto affermato dal Giudice di secondo grado e come evidenziato nella consulenza tecnica del Prof. COGNOME, nella legge residuavano in capo all’organo ampi margini di discrezionalità nella rappresentazione dei presupposti della condotta da tenere.
In via ulteriormente subordinata, la sentenza andrebbe annullata sotto il profilo dell’elemento soggettivo, essendosi la Corte d’appello limitata ad asserire che l’imputato non poteva invocare la buona fede nascente da eventuali pareri errati a lui pervenuti all’interno della struttura universitaria.
Già di per sé, tale argomentazione risponde ad un inammissibile automatismo presuntivo, perché trascura la caratterizzazione intenzionale del dolo di cui all’art. 323 cod. pen.
I Giudici di secondo grado aggiungono, poi, che gli emolumenti percepiti dal Prof. COGNOME quale membro del Consiglio di amministrazione dell’Ateneo, ove quest’ultimo avesse optato per l’incarico di componente del Consiglio di amministrazione, piuttosto che di Direttore del Museo, sarebbero rimasti legittimamente percepiti. Ma, in tal modo, dimenticano che, essendo anche la carica di Direttore del museo retribuita, quale che fosse l’opzione prescelta, COGNOME sarebbe stato comunque tenuto ad una restituzione.
Trascurano, infine, di considerare che, alla luce della richiamata normativa in tema di radicale nullità degli atti di conferimento di incarichi adottati in violazione delle disposizioni in materia di incompatibilità e di responsabilità dei componenti degli organi che abbiano conferito tali incarichi nulli, il comportamento del Rettore mirava a garantire la regolare composizione del Consiglio di amministrazione e, quindi, al ripristino della legalità. E che ciò ha riflessi sull’elemento soggettivo, l descrizione legislativa, presupponendo che l’evento tipico sia lo scopo precipuo e l’elemento polarizzante della volontà.
3.2. Difetto di correlazione tra imputazione e sentenza, in relazione al delitto di falso (capo c).
Esiste un’ontologica insanabile differenza tra falsità materiale falsità ideologica, la distinzione tra le quali si fonda su quella tra atto e documento.
La macroscopica diversità strutturale del fatto ritenuto in sentenza rispetto a quello oggetto della contestazione implica una radicale trasformazione degli elementi essenziali del fatto oggetto di contestazione e disallinea quindi la correlazione tra imputazione e sentenza ai sensi dell’art. 522 cod. proc. pen.
3.3. Errata applicazione dell’art. 479 cod. pen. e vizio di motivazione.
La Corte d’appello ha confermato l’esito di condanna, ritenendo integrata la falsità ideologica, poiché i due imputati avrebbero certificato la coincidenza di quella che sarebbe stata la versione approvata dal Consiglio di amministrazione con la convenzione-quadro. La difesa aveva tuttavia obiettato che con la missiva di accompagnamento non si era attestata affatto la conformità allo schema oggetto di delibera consiliare (missiva, peraltro, non riconducibile a COGNOME).
I dati documentali acquisiti nel corso dell’istruttoria dibattimentale rendono evidente che né nella lettera accompagnatoria, né nello schema di convenzione allegato vi era la benché minima certificazione di conformità.
D’altronde, lo stesso capo di imputazione parla di “schema” di convenzione: atto che, per espressa definizione, è sottoposto a modificazioni, rivisitazioni e cioè
a un iter di formazione progressiva e insuscettibile, pertanto, di rivestire qualsivoglia portata certificativa, come risulta già dalla lettura del documento.
La Corte d’appello ha replicato che non avrebbe senso che tali modifiche fossero state operate dal Provveditorato, non essendovi traccia di interlocuzione tra lo stesso e l’Università.
Anche tali affermazioni si pongono però in contrasto con le risultanze dibattimentali (escussione del Provveditore pro tempore alle opere pubbliche e del capo della Segreteria) dalle quali è emerso che, come sempre nel corso della fase di elaborazione di interventi su schemi progressivi (e che questa sia una situazione normale era stato spiegato nella consulenza tecnica del Prof. COGNOME), anche nel caso di specie fu apportata una serie di modifiche.
Quanto al tema della ratifica, la sentenza impugnata si limita ad affermare che, comunque, non sarebbe stato possibile utilizzare tale istituto, potendo esso concernere soltanto vizi di natura formale, in quanto tali sanabili.
Pure sotto questo profilo, la sentenza contrasta però con le risultanze dell’istruttoria dibattimentale.
Infatti, due testi, membri, all’epoca dei fatti, del Consiglio di amministrazione, avevano evidenziato che l’iter successivo alla delibera è ordinariamente fatto di invio di bozze, ecc., su cui normalmente il Consiglio di amministrazione non esercita alcun controllo.
Il consulente prof. COGNOME aveva poi confermato che, nei casi di modifiche sopravvenute, si può ricorrere all’istituto della ratifica, in presenza dei requisiti d cui all’art. 21-nonies I. n. 241 del 1990. A maggior ragione, la ratifica era utilizzabile nel caso di specie, poiché alla convenzione non era stata mai data esecuzione.
Ciò è quanto accadde, appunto, mediante il terzo inoltro via PEC, peraltro conforme a quello originario del 06/02/2015, che conteneva e trasmetteva al Provveditorato alle opere pubbliche lo schema di convenzione nella stesura perfettamente conforme alle indicazioni maturate in seno al Consiglio di amministrazione dell’Ateneo e a seguito del quale lo stesso Consiglio di amministrazione aveva provveduto alla deliberazione in data 24/11/2015 della quale ha dato conto in istruttoria una teste.
In via subordinata, in appello si era dedotta la riconducibilità della vicenda, a tutto voler concedere, alla fattispecie di abuso d’ufficio, ma i giudici di secondo grado hanno omesso di motivare sul punto.
In via di ulteriore subordine, la sentenza impugnata era stata censurata quanto al coefficiente soggettivo.
La Corte d’appello ha replicato desumendone la sussistenza sulla base di un preteso riferimento a una missiva del 01/10/2015, a fronte di un fatto che risaliva
ad epoca precedente (18/02/2015), trascurando, quindi, come il dolo debba necessariamente accompagnare la condotta tipica e non possa sopravvenire.
Peraltro, anche sul punto, la sentenza contrasta con le univoche risultanze probatorie, essendo emerso che il Rettore non sapeva della discrasia tra la convenzione e lo schema approvato dal Consiglio di amministrazione dell’Università, il che denota la sua assoluta buona fede e che versava, tutt’al più, in colpa.
Ha presentato ricorso, per il tramite dell’Avvocato NOME COGNOME anche NOME COGNOME articolando i seguenti motivi.
4.1. Violazione dell’art. 521 cod. proc. pen.; omessa motivazione e travisamento.
A fronte dell’originaria imputazione di falso materiale, il primo giudice era incorso nella violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., ritenendo il fatto inquadrabile al di sotto della fattispecie di falso ideologico.
Tuttavia, in tal modo, non si lasciava immutato il fatto contestato, dandosene una differente definizione, ma si finiva col coniare un’ipotesi affatto diversa, ascrivendo al ricorrente di essere venuto meno agli obblighi inerenti ad una posizione di garanzia mai ipotizzata e fondata sul preteso obbligo, in capo al Direttore generale e al Rettore, di attestare il reale andamento dei fatti, di certificare la corrispondenza tra quanto avvenuto e quanto percepito.
La Corte d’appello aderisce pedissequamente a questa tesi, nonostante l’istruttoria dibattimentale fosse stata indirizzata a chiarire se le modifiche apportate alla convenzione dopo la sua approvazione da parte del Consiglio di amministrazione (il 27/01/2015) erano attribuibili a COGNOME ovvero se questi – che non aveva nella situazione concreta alcun ruolo decisionale, consultivo o partecipativo – aveva fatto da mero nuncius nella trasmissione della convenzione al Provveditorato.
In altre parole, poiché l’imputazione faceva questione della falsificazione materiale della Convenzione, il ricorrente si era difeso – e doveva difendersi dall’accusa di essere l’autore del falso materiale, mentre oggi risulta che la difesa avrebbe dovuto vertere sull’insussistenza della sua posizione di garanzia, tema nuovo e mai in precedenza emerso.
4.2. Difetto assoluto di motivazione sul punto dell’attribuzione al ricorrente del falso materiale come risultante dagli atti e segnatamente dalle testimonianze di COGNOMEil Provveditore alle opere pubbliche) e COGNOMEsuo collaboratore).
Dalle testimonianze dei componenti del Consiglio di amministrazione, pure ostili a COGNOME, tanto da sollecitare un’azione disciplinare nei suoi confronti,
non è emerso alcun elemento che riconducesse al ricorrente la paternità della ipotizzata falsificazione.
Dalle testimonianze del Provveditore e del suo Segretario emerse, al contrario, che era stato il Provveditorato ad apportare le suddette modificazioni al testo della convenzione, ricevuta il 6 febbraio 2015 e rispedita, così modificata, all’Università.
4.3. Mancanza del requisito della competenza funzionale.
Il ruolo di Direttore generale dell’Ateneo non conferisce una posizione di garanzia. Né la sentenza spiega per quale ragione il ricorrente fosse tenuto a garantire la genuinità dell’atto o se fosse investito di un potere certificativo, non potendo attribuirsi rilievo al richiamo compiuto ad altro, diverso e successivo intervento nel settore dell’edilizia universitaria.
La parte civile Università di Chieti, per il tramite dell’Avv. NOME COGNOME ha presentato una memoria in cui preliminarmente si denuncia il difetto, nei ricorsi, di quella “doppia specificità” che deve fare pendant ad una “doppia conforme”, e si lamenta la declinazione delle deduzioni difensive prevalentemente in fatto.
Quanto specificamente al ricorso di COGNOME e al delitto di falsità ideologica, inoltre, non sussiste alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, il fatto contestato essendo rimasto identico nella sua materialità e non essendo stato violato il diritto di difesa.
D’altronde, la falsità ideologica si realizza quando, pur in presenza dei presupposti di legittimazione all’esercizio dei poteri di certificazione, il pubblico ufficiale ne abusa, violando l’obbligo di attestare fatti conformi al vero. Inoltre, reato si perfeziona nel momento in cui l’atto falso fuoriesce dall’ambito di disponibilità dell’agente e si manifesta nel mondo esteriore, per conseguire gli effetti di cui sarebbe capace. Di conseguenza, COGNOME e COGNOME consumarono il falso ideologico attraverso la sottoscrizione della Convenzione falsa, perché mediante tale sottoscrizione certificarono, di concerto, la coincidenza tra la versione approvata dal Consiglio di amministrazione e quella definitiva, a prescindere dalla sua successiva trasmissione.
Anche, poi, a ritenere che il documento approvato dal Consiglio di amministrazione fosse uno “schema di convenzione” soggetto a modificazioni, rivisitazioni, e comunque a formazione progressiva, l’accordo-quadro, in base all’art. 27 lettera m, n. 4, dello Statuto dell’Università di Chieti, avrebbe dovuto costituire oggetto di ulteriore disamina da parte del Consiglio medesimo (ciò che non accadde).
Quanto, ancora, all’istituto della ratifica, Corte di Appello e Tribunale non errano nell’affermare che la convalida costituisce un provvedimento di secondo
grado con cui la pubblica amministrazione riconosce che un vizio inficia un proprio provvedimento e lo rimuove, ma non modifica il provvedimento stesso, deducendone come i provvedimenti suscettibili di convalida siano esclusivamente quelli affetti da vizi formali.
Inoltre, diversamente da quanto affermato nel terzo motivo di ricorso, sia la Corte di Appello, sia il Tribunale motivano l’impossibilità di riqualificare il fatto abuso di ufficio, ex art. 323 cod. pen., dal momento che l’affermazione secondo cui è impossibile «utilizzare l’istituto della ratifica in quanto l’atto non risulta affe da mero vizio formale, poiché il vizio di riferisce alla non veridicità del contenuto della Convenzione del 18/02/2015 rispetto a quella deliberata dal Consiglio» ha come presupposto logico l’illegittimità dell’atto e non certo una mera “irregolarità per l’esercizio di una competenza”, così come sostenuto dalla difesa di COGNOME.
Nemmeno appaiono pertinenti le deduzioni difensive sul dolo successivo, essendo evidente che la missiva del 5 ottobre 2015, nell’economia delle sentenze, si limita a confermare la sussistenza del dolo al momento del fatto, desunto da altro.
Con riguardo all’art. 323 cod. pen., il ricorso, ove argomenta la violazione di legge – nello specifico del d.lgs. n. 39 del 2013 cit. -, deduce violazioni di legge non rappresentate in appello ed è quindi inammissibile.
D’altra parte, la condotta contestata al Rettore è stata certamente realizzata in violazione degli artt. 1, 15, 19 del d.lgs. n. 39 del 2013 cit., avendo il Rettore, ai sensi dell’art. 15, l’obbligo di contestare al soggetto interessato l’insorgenza di inconferibilità o incompatibilità degli incarichi dallo stesso svolti, al fine consentire il diritto alla scelta che deve essere esperito nel termine di 15 giorni dalla contestazione (art. 19). Né può dubitarsi che le disposizioni violate siano norme primarie (atti aventi forza di legge) e che dalle condotte prescritte esulino margini di discrezionalità.
Risulta pure integrato, e debitamente motivato, il requisito della doppia ingiustizia, essendosi precisato che COGNOME fu obbligato a restituire le indennità relative alla carica di componente del Consiglio di amministrazione, e considerato comunque che, come rilevato dalla sentenza di primo grado, la nozione di danno ingiusto non può intendersi limitata a situazioni soggettive di carattere patrimoniale e nemmeno a diritti soggettivi perfetti.
Quanto all’elemento soggettivo, la prova del dolo intenzionale si desume anche dalla macroscopica illegittimità dell’atto.
Si aggiunge che, ai fini del dolo di abuso, è sufficiente la rappresentazione e volizione dell’evento come conseguenza diretta e immediata della condotta dell’agente, e che, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’elemento soggettivo non viene meno per effetto
della compresenza di una finalità pubblicistica, occorrendo piuttosto che il perseguimento del pubblico interesse costituisca il fine primario dell’agente.
Da ultimo, si esclude l’asserito conflitto di giudicati a causa della sentenza assolutoria in riferimento al capo a) dell’imputazione per COGNOME, perché «il fatto non sussiste», la scelta della formula essendo dipesa da errore materiale, come si evince dal contrasto del dispositivo di quella sentenza con l’ampia motivazione che, in tal caso, anche secondo la giurisprudenza di legittimità, deve prevalere, considerazione alla quale si aggiunge che il contrasto di giudicati sussiste esclusivamente quando vi sia un’oggettiva incompatibilità tra i fatti storici su cui si fondano le diverse sentenze e non nel caso di mero contrasto di principio tra due sentenze.
Infine, quanto ai dedotti vizi di motivazione, si ricorda che, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata, in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva, con la conseguenza che, anche sotto questo profilo, i ricorsi sono inammissibili.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Quanto al ricorso di NOME COGNOME al tempo dei fatti Rettore dell’Università degli studi G. INDIRIZZO‘Annunzio di Chieti, va premesso che il delitto di abuso d’ufficio si era prescritto dopo la sentenza di primo grado e che, ciò nondimeno, la Corte d’appello ha ritenuto provata la responsabilità dell’imputato, condannandolo alle statuizioni civili, sicché il ricorso è stato proposto soltanto a tali fini.
1.2. Va pure precisato che la trattazione del procedimento, prevista in forma orale per il giorno 6 febbraio 2024, è stata rinviata – e poi fissata in data odierna – in attesa della decisione poi resa dalle Sezioni unite sullo standard probatorio richiesto ai fini della decisione sulle statuizioni civili in caso di intervenu prescrizione del reato (Sez. U, n. 36208 del 28/03/2024, Calpitano, Rv. 286880, secondo cui, «nel giudizio di appello avverso la sentenza di condanna dell’imputato anche al risarcimento dei danni, il giudice, intervenuta nelle more l’estinzione del reato per prescrizione, non può limitarsi a prendere atto della causa estintiva, adottando le conseguenti statuizioni civili fondate sui criteri enunciati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 182 del 2021, ma è comunque tenuto, stante la presenza della parte civile, a valutare, anche a fronte di prove insufficienti o contraddittorie, la sussistenza dei presupposti per l’assoluzione nel merito»).
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1.2. Tanto chiarito, dopo la presentazione del ricorso ed il citato rinvio, e nelle more della presente udienza, il delitto di cui all’art. 323 cod. pen. è stato abrogato (art. 1 legge 9 agosto 2024 n. 154). E l’estinzione del reato a seguito di aboliti° criminis implica la revoca dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili (fermo restando il diritto della parte civile di agire ex novo nella sede naturale, per il risarcimento del danno e l’eventuale irrogazione della sanzione pecuniaria civile), com’è logico che sia e comunque chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 46688 del 29/09/2016, COGNOME, Rv. 267884; Sez. 2, n. 26091 del 10/06/2016, Tesi, Rv. 267004).
Incidentalmente, ciò priva di rilievo la trattazione del ricorso, venendo meno l’interesse all’impugnazione che, per risalente quanto costante insegnamento di questa Corte, deve essere “concreto”, nel senso che deve tendere in concreto all’eliminazione della lesione di un diritto o di un interesse giuridico dell’impugnante, nell’ordinamento processuale non essendo prevista la possibilità di proporre un impugnazione che si risolva in una mera pretesa teorica, mirando all’esattezza giuridica della decisione, non sufficiente di per sé a integrare il vantaggio pratico in cui si compendia l’interesse normativamente stabilito che sottende l’impugnazione di ogni provvedimento giurisdizionale (v. già Sez. 1, n. 3204 del 06/07/1993, COGNOME, Rv. 194852).
1.3. Per le indicate ragioni, questa Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata con riferimento al delitto di abuso d’ufficio, perché la condotta non è più prevista dalla legge come reato, revocando le statuizioni civili.
La sentenza va annullata anche in relazione all’imputazione di falso ideologico in atto pubblico (art. 479 cod. pen.), sebbene per ragioni diverse da quelle eccepite dal ricorrente.
2.1. Sul punto può essere utile riassumere preliminarmente il fatto.
Sottoposto al Consiglio di amministrazione dell’Università di Chieti uno schema di Convenzione-quadro con il Provveditorato alle opere pubbliche per il Lazio, Abruzzo e Sardegna, il Consiglio di amministrazione si pronunciò espressamente nel senso che i servizi relativi alle funzioni di progettazione, direzione, lavoro e collaudo di opere edilizie fossero riservati agli uffici tecnici dell’Ateneo.
Era quindi inviata, con lettera di accompagnamento del Direttore generale, la versione della convenzione per come approvata dal Consiglio di amministrazione, con firma del Rettore, al Provveditore, in data 6 febbraio 2015.
Il 18 febbraio 2015, seguiva, tuttavia, un altro invio: questa volta di un testo corrispondente allo schema originario della convenzione (che attribuiva i lavori di progettazione al Provveditorato), sempre accompagnata da una lettera del
Direttore generale, nella quale si chiedeva la firma del Provveditore (benché il testo risultasse sottoscritto con firma autografa, oltre che del Rettore, del Provveditore medesimo).
2.2. Ebbene, a fronte di una contestazione originaria concernente l’ipotesi di falso materiale in atto pubblico (art. 476 cod. pen.), i Giudici di primo grado hanno escluso, sulla scorta delle testimonianze del Provveditore e del Capo della sua Segretaria, che il documento avesse subito modifiche materiali ad opera di rappresentanti dal Provveditorato.
Hanno ritenuto provata, per contro, la responsabilità degli imputati, anche sotto il profilo del dolo (desumendolo da una missiva recante data successiva all’invio della convenzione, dalla quale si evinceva la consapevolezza, in capo al Rettore e al Direttore generale, che la convenzione-quadro inviata a suo tempo al Provveditore aveva un contenuto difforme dalla volontà espressa dal Consiglio di amministrazione dell’Università).
Hanno negato, tuttavia, che il fatto configurasse un falso materiale, non ravvisando una contraffazione o un’alterazione del documento pubblico.
In particolare, hanno quasi testualmente affermato che, nel caso di specie, non fu alterato il documento contenente il testo della Convenzione-quadro, così come deliberata dal Consiglio di amministrazione, ovvero il verbale dell’adunanza sopra indicata, ma si concretò una violazione, da parte dei pubblici ufficiali, dei loro poteri documentali nel momento in cui, con la missiva del 18 febbraio 2015, attestarono falsamente un contenuto ideologicamente diverso da detta convenzione, abusando in tal modo della loro funzione di garanzia e venendo meno all’obbligo giuridico di attestare in modo esatto quanto avvenuto e regolarmente percepito.
In altre parole, hanno escluso esistesse un documento-convenzione leso nella sua genuinità (ravvisando il solo verbale della seduta del Consiglio di amministrazione) ed hanno riferito il falso (ideologico) alla lettera di trasmissione, del cui contenuto è predicata la difformità dal vero.
2.3. Ciò premesso, disattendendo le deduzioni difensive, la Corte d’appello difende la qualificazione del fatto in termini di falsità ideologica.
Riferisce però il mendacio non più, come in primo grado, alla missiva di accompagnamento che – osserva – rappresentava solo il mezzo di trasmissione di un atto ideologicamente falso e che (come, in effetti, si evince anche dalla memoria di parte civile) non attestava alcunché.
Lo riferisce, piuttosto, alla Convenzione in sé, per il fatto che recava una clausola (relativa all’affidamento al Provveditorato dei lavori anche relativi alla fase di progettazione, collaudo e direzione lavori delle opere edilizie) la quale avrebbe
dovuto essere diversa, per espressa deliberazione del Consiglio di amministrazione dell’Università.
In particolare, reputa che gli imputati, attraverso la “sottoscrizione della convenzione”, avessero realizzato una condotta di falsità ideologica, avendo certificato la coincidenza tra quella che sarebbe stata la versione approvata dal consiglio di amministrazione e la convenzione definitiva.
2.4. Se così è, si prescinda dal fatto che i Giudici di secondo grado escludono la possibilità di ipotizzare, nel caso di specie, una ratifica non già soltanto in considerazione della natura tutt’altro che formale del vizio (argomento, in effetti, controvertibile, che peraltro richiederebbe precisazioni sull’uso, in senso tecnico o meno, che si faccia del lemma “ratifica”): la Corte d’appello aggiunge comunque – in termini quasi testuali – che il Consiglio di amministrazione, una volta accertato il contrasto tra il contenuto della convenzione deliberato e quello sottoscritto da Rettore e Provveditore, tanto poco convalidò la modifica apportata che, al contrario, discusse dell’opportunità o meno di avviare un procedimento disciplinare nei confronti del Direttore Generale. Né, si aggiunga, risulta dedotto dalla difesa un successivo passaggio del “nuovo” testo al Consiglio di amministrazione, come avrebbe dovuto accadere.
E si tralascino, sull’altro versante, le deduzioni difensive sulla mancata correlazione tra imputazione e sentenza nonché quelle, di invero dubbia fondatezza, sulla natura ancora in progress della convenzione che, pertanto, la difesa del ricorrente qualifica in termini di mero schema (anche alla luce della giurisprudenza di seguito riportata, sarebbe infatti tutt’altro che illogico assumere che l’iter dell’atto interno si concluda con l’approvazione del Consiglio di amministrazione, come dimostrato dalla circostanza – poc’anzi sottolineata – che ogni modifica ulteriore del testo impone un nuovo passaggio al Consiglio di amministrazione, chiamato ad approvarla).
Sopra tutto e a monte, quel che questo Collegio non condivide è la possibilità stessa di qualificare la Convenzione quale atto pubblico.
2.5. Sul punto, al fine di determinare i confini della fattispecie, si ricordi come, ai sensi dell’art. 479 cod. pen., il pubblico ufficiale, che, ricevendo o formando un atto nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, soggiaccia alle pene stabilite nell’articolo 476.
Ebbene, è vero che l’art. 479 c.p. si perfeziona nel momento in cui l’atto falso fuoriesce dall’ambito di disponibilità dell’agente e si manifesta nel mondo esteriore, per conseguire gli effetti di cui sarebbe capace (come esplicitato da
anche risalente giurisprudenza. Vd. Sez. 5, n. 834 del 22/10/1992, Codano, Rv. 193483, citata dalla parte civile).
E’ altresì vero, su un piano logicamente antecedente, che la nozione di atto pubblico nel diritto penale è stata ricostruita dalla giurisprudenza di questa Corte in termini più lati di quella civilistica (art. 2699 cod. civ.), riconducendovi anche gli atti formati dal pubblico ufficiale o dal pubblico impiegato, nell’esercizio delle loro funzioni, per uno scopo diverso da quello di conferire ad essi pubblica fede, purché aventi l’attitudine ad assumere rilevanza giuridica e/o valore probatorio interno alla pubblica amministrazione (Sez. 5, n. 3542 del 17/12/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275415, in un caso in cui la Corte riconobbe la natura di atto pubblico sia della relazione di servizio destinata ad attestare quanto avvenuto in presenza del pubblico ufficiale, sia dell’annotazione effettuata da un agente di polizia penitenziaria sul registro modello 117, funzionale a documentare i movimenti dei detenuti all’interno del carcere), nonché gli atti nemmeno redatti da pubblici ufficiali, che però abbiano l’attitudine ad assumere rilevanza giuridica o valore probatorio interno alla pubblica amministrazione, a prescindere dal fatto che il loro contenuto sia integralmente trasfuso nell’atto finale del pubblico ufficiale o ne costituisca solo il presupposto implicito necessario (così Sez. 5, n. 17089 del 17/02/2022, COGNOME, Rv. 283007, relativo ad un certificato di collaudo statico di opere edilizie; Sez. 5, n. 15901 del 15/02/2021, COGNOME, Rv. 281041, in tema di autocertificazione del privato in vista della selezione per l’assegnazione di autorizzazioni all’esercizio di servizio di noleggio con conducente; Sez. 5, n. 37880 del 08/09/2021, COGNOME, Rv. 282028, quanto a sottoscrizioni apocrife sulla scheda e sull’atto di delega di una richiesta di registrazione di un contratto di locazione). Come anche si desume a contrario dalla casistica appena riportata, è però dubbio che il perimetro testuale dell’atto pubblico sia tale da includere una “convenzione”. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
2.6. La convenzione è, infatti, una sorta di contratto, un patto, un accordo tra parti pubbliche o tra una parte pubblica e una privata, che serve a disciplinare aspetti di interesse comune, e non un documento volto ad attestare anche solo premesse fattuali di un atto.
Essa veicola ed esprime la volontà delle parti (con terminologia mutuata da altra branca della conoscenza, potrebbe dirsi che, con la convenzione, “si fanno cose”), e quindi si sottrae alla concezione corrispondentista, che rappresenta invece il fondamento del concetto di verità penalistico in materia di tutela di falso ideologico (verità come corrispondenza del segno alla realtà che esso è deputato a rappresentare).
Ne deriva che una convenzione non può essere “vera” o “falsa” in senso ideologico, ma che può essere, al limite, eventualmente viziata (sempre che se ne riesca a dimostrare la non coincidenza con la volontà della parte che l’ha sottoscritta).
Conseguentemente, l’aver una convenzione disatteso la volontà dell’organo istituzionalmente chiamato a definirne i contenuti non può dar luogo ad una falsità ideologica, non potendo darsi, sul piano logico, divergenza tra quanto in essa rappresentato ed una realtà che la convenzione medesima contribuisce a formare.
2.7. Concludendo sul punto, parrebbe che il disvalore della vicenda in oggetto si fosse concretizzato nella infedeltà del Rettore, a sua volta sostanziatasi nel non essersi egli attenuto, come avrebbe dovuto fare, a quanto deliberato dal Consiglio di amministrazione, che è l’organo di governo dell’Università, disattendendone le indicazioni e prevaricandone la volontà.
Tale condotta avrebbe potuto delineare, al più, e cioè verificata la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del reato – violazione di legge, danno e relativo dol -, un abuso d’ufficio, ipotesi peraltro nemmeno più prospettabile, a seguito della già evocata intervenuta abrogazione dell’art. 323 cod. pen.
2.8. La conseguenza è che – risultando assorbite le deduzioni svolte nel ricorso dell’imputato NOME COGNOME – anche in relazione al capo d’imputazione c), va disposto l’annullamento della sentenza impugnata senza rinvio, con conseguente revoca, per entrambi i ricorrenti, delle statuizioni civili.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata con riferimento al reato di cui all’art. 323 cod. pen. perché la condotta non è più prevista come reato; annulla altresì la medesima sentenza in relazione al residuo reato perché il fatto non sussiste. Revoca le statuizioni civili.
Così deciso il 12/02/2025