Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 15901 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 15901 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 11/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOME nato a Taranto il 7 ottobre 1967;
avverso la sentenza dell’8 luglio 2024 della Corte d’appello di Lecce;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso; letta la memoria depositata il 5 marzo 2025 dall’avv. NOME COGNOME nell’interesse del ricorrente, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Oggetto dell’impugnazione è la sentenza con la quale la Corte d’appello di Lecce, confermando la condanna pronunciata in primo grado, ha ritenuto NOME COGNOME responsabile del reato di cui agli artt. 476, commi 1 e 2, 482 cod. pen., perché avrebbe formato un atto pubblico falso, in particolare, un’ordinanza apparentemente emessa dal Tribunale di Roma e avente per oggetto
l’assegnazione, in favore di NOME e NOME COGNOME, della somma di euro 19.250, precedentemente pignorata.
Ricorre per cassazione l’imputato articolando sei motivi d’impugnazione.
2.1. Il primo e il quarto, formulati in termini di violazione di legge e inosservanza di norma processuale, attengono, specificamente, alla riconduci bilità dell’eventuale falso all’imputato, al quale sarebbe stato attribuito sulla sola ritenuta inesistenza di altra persona interessata a formarlo. Ciò, tuttavia, senza considerare che: a) l’atto è stato spedito da un’edicola pubblica; b) l’imputato non ha mai avanzato alcuna pretesa economica (né prima, né dopo la spedizione); c) la falsità è talmente grossolana da essere chiaramente riconoscibile da chiunque e, quindi, incompatibile con le specifiche conoscenze tecniche connesse allo svolgimento, da parte dell’imputato, della professione di avvocato.
2.2. Il secondo deduce l’irritualità dell’assunzione (in primo grado) della seconda deposizione del teste NOME COGNOME avvenuta, nuovamente, dopo l’esame della sorella, NOMECOGNOME senza che sussistessero i presupposti per un’eventuale applicazione dell’art. 507 del codice di procedura penale.
2.3. Il terzo deduce, da un canto, l’insussistenza del reato di falso contestato al ricorrente (essendosi sostanziata, la condotta, nella formazione di una copia di un atto inesistente, in assenza di un’attestazione di conformità e di un suo concreto utilizzo, tanto più alla luce della mancanza di un effettivo accertamento della falsità del documento stesso) e, dall’altro, comunque, l’incongruità della pena irrogata, non essendovi traccia della necessaria riduzione di un terzo imposta dall’art. 482 del codice penale.
2.5. Il quinto deduce, sotto il profilo dell’inosservanza di norma processuale, che, nonostante la relativa richiesta istruttoria e la conseguente ammissione, non si sarebbe proceduto all’esame dell’imputato.
2.6. Il sesto, in ultimo, deduce violazione del principio in dubio pro reo, l’incomprensibilità della sentenza di primo grado e l’illogicità della motivazione relativa alle attenuanti generiche e alla sospensione condizionale della pena.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo e il quarto motivo sono indeducibili in quanto postulano una rivalutazione in fatto degli elementi probatori.
La Corte territoriale ha ritenuto che l’atto falso fosse stato formato dall’imputato alla luce di una pluralità di elementi logici e fattuali: – il lun rapporto professionale intercorso tra le sorelle COGNOME e l’avv. COGNOME fin dal 2002 (in relazione ad una controversia intentata nei confronti dell’ASL per le cure asseritamente inadeguate, approntate nei confronti della loro mamma); – i
documenti inoltrati alle due sorelle dallo stesso avvocato negli anni 2012 e 2016, attinenti sempre alla medesima causa; – le dichiarazioni rese dalle due sorelle COGNOME che, pur con alcune contraddittorietà legate al lungo lasso temporale intercorso tra i fatti in oggetto e l’escussione, hanno con certezza indicato nel Munitello l’autore degli atti e dell’invio.
A fronte di dò, il ricorrente offre alla valutazione di questa Corte una pluralità di dati fattuali asseritamente idonei a fondare l’assunto difensivo (il luogo di spedizione dell’atto; la mancanza di pretese economiche; la grossolanità del falso), in ipotesi pretermessi o erroneamente valutati dai giudici di merito. Ciò, però, significa censurare la valutazione della prova, non la motivazione che di essa ne danno i giudici di merito; significa chiedere a questa Corte una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, articolata sulla base dei diversi parametri di ricostruzione e valutazione, dimenticando i limiti propri del sindacato riservato a questa Corte, che non è chiamata a verificare l’intrinseca adeguatezza delle argomentazioni offerte dal giudice di merito, scegliendo tra diverse possibili ricostruzioni, ma al solo riscontro dell’esistenza, della non manifesta illogicità e della coerenza dell’apparato argomentativo, valutato nel suo complesso, sui vari punti della decisione impugnata.
Il secondo e manifestamente infondato.
Il ricorrente lamenta l’irritualità dell’assunzione della testimonianza resa da NOME COGNOME assunta una seconda volta, nel corso della medesima udienza, al fine di ottenere chiarimenti rispetto alla precedente deposizione, dopo l’esame della sorella.
A prescindere dalla dirimente considerazione per cui l’esame testimoniale era stato pacificamente ammesso e che nulla vieta al giudice di esaminare nuovamente il testimone, ove lo ritenga necessario, valgano due osservazioni.
In primo luogo, la testimonianza assunta senza il rispetto delle regole previste dall’art. 506 cod. proc. pen., non è nulla (non essendo tale violazione riconducibile alle previsioni di cui all’art. 178 cod. proc. pen.), né inutilizzabile (trattandosi prova assunta con modalità diverse da quelle prescritte e non in violazione di divieti posti dalla legge), ma è affetta da mera irregolarità, circostanza che impone solo un aggravamento degli oneri motivazionali del giudice che intenda fondare la propria decisione su di essa (Sez. 2, n. 48957 del 11/09/2019, COGNOME, Rv. 277685; Sez. 5, n. 38271 del 17/07/2008, Cutone, Rv. 242025). E tanto il Tribunale, quanto la stessa Corte d’appello hanno ampiamente motivato in ordine all’attendibilità delle dichiarazioni rese dal teste e ai riscontri emersi nel corso dell’istruttoria.
In secondo luogo, anche laddove volesse intendersi quale nuovo esame assunto ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen. in un momento diverso rispetto a quello indicato dalla norma (“terminata l’acquisizione delle prove”), anche ciò costituisce mera irregolarità e non è sanzionata né in termini di nullità, né in termini di inutilizzabilità (Sez. 3, n. 45931 del 09/10/2014, COGNOME, Rv. 260871; Sez. 5, n. 26163 del 11/05/2010, COGNOME, Rv. 247896S; Sez. 2, n. 734 del 22/11/1994, dep. 1995, COGNOME, Rv. 200337).
Quanto, in ultimo, alla consultazione di documenti da parte della teste, questa, ancorché fosse avvenuta in assenza dell’autorizzazione del giudice, non dà luogo né ad inutilizzabilità della prova (in quanto non assunta in violazione di divieti di legge, ma con modalità diverse da quelle prescritte), né a nullità (vigendo in materia il principio di tassatività e non essendo riconducibile ad alcuna delle previsioni di cui all’art. 178 cod. proc. pen. l’inosservanza delle norme che disciplinano l’esame testimoniale) (Sez. 3, n. 5234 del 03/03/2022, dep. 2023, S. Rv. 284277).
3. Il terzo motivo è, complessivamente, infondato.
La difesa deduce, in primo luogo, che il documento oggetto di contestazione sarebbe una mera fotocopia priva di attestazione di autenticità e tanto escluderebbe la possibilità di qualificare la relativa formazione un falso penalmente rilevante.
La censura è infondata.
Va premesso che il falso materiale si sostanzia nella creazione dell’esistenza documentale di un atto (tipo di condotta corrispondente all’espressione normativa contenuta nell’art. 476 cod. pen. forma in tutto o in parte un atto falso) ovvero nella modifica di un atto genuino preesistente (secondo l’altra espressione, altera un atto vero); prescinde dall’esistenza di profili di difformità dal vero (poiché la rispondenza ad un dato naturalistico che dovrebbe essere riprodotto nell’atto non è un requisito compreso nella descrizione normativa e non assume anzi alcuna rilevanza); prescinde dall’utilizzo dell’atto stesso; può incidere su ogni tipo di atto, non soltanto su quelli precostituiti a fini probatori e istituzionalmente indirizzati a provare la verità dei fatti in essi attestati (Sez. U, 35814 del 28/03/2019, Marcis, Rv. 276285).
Ciò considerato, la contraffazione, che si realizza mediante la formazione di un atto in realtà inesistente, ben può avvalersi dello strumento materialmente rappresentato dall’utilizzo di una falsa copia, documentando una volontà solo apparente perché in realtà non espressa. In questi casi, il titolo del reato discende dalla natura del documento che vi è falsamente rappresentato (se trattasi di atto pubblico, dunque, ex artt. 476-482 cod. pen.; se di certificato amministrativo ex
artt. 477-482 cod. pen.) e la rilevanza penale della condotta di formazione dipende dalle caratteristiche della copia e, quindi, dalla circostanza per cui il documento si presenti o venga esibito con caratteristiche tali da voler sembrare un originale, ed averne l’apparenza, o sia comunque idonea e sufficiente a documentare nei confronti dei terzi l’esistenza di un originale conforme (Sez. 5, n. 7385 del 14/12/2007, dep. 2008, Favia, Rv. 239112). Ed è indifferente non solo l’eventuale esistenza di una (falsa) attestazione di conformità (in quanto altrimenti la condotta rientrerebbe nell’alveo dell’art. 478 cod. pen.), l’invalidità o l’inesistenza giuridic dell’atto, ma anche la circostanza di fatto legata alla materiale esistenza o meno dell’originale rispetto al quale dovrebbe operarsi il raffronto comparativo con la copia, perché l’intervento falsificatorio effettuato con la modalità della contraffazione assume come riferimento non tanto la copia in sé, quanto il falso contenuto dichiarativo o di attestazione apparentemente mostrato dalla natura della copia formata ed esibita dall’agente, laddove l’atto originale non esiste affatto ovvero, se realmente esistente, rimane inalterato e comunque estraneo alla vicenda.
Né, in ultimo, si pone un problema di indebita estensione degli effetti della previsione di cui all’art. 2719 cod. civ., in tema di efficacia delle fotocopie di att poiché ciò che rileva, per come si è detto, non è l’efficacia della copia, bensì l’inesistenza dell’originale del quale la copia è, nell’intenzione dell’agente, destinata a provare artificiosamente l’esistenza (Sez. U Marcis, cit.).
Ebbene, la Corte territoriale ha dato atto di tale circostanza evidenziando come, a prescindere dal semplice esame visivo dell’atto (che presentava le apparenti sembianze di un atto vero e autentico), la sua falsità era emersa solo a seguito di accurate indagini condotte dal nuovo difensore delle due donne che, ricevuto l’incarico di accertare le ragioni del ritardo nella liquidazione del danno, verificava la totale inesistenza dell’atto giudiziario trasmesso in copia alle due sorelle. E che l’atto sia effettivamente falso non solo emerge dagli accertamenti dei quali dà conto la Corte, ma, in realtà, è implicitamente riconosciuto anche dalla stessa difesa, nella parte in cui invoca la grossolanità della falsificazione.
Indeducibile, invece, la censura afferente al trattamento sanzionatorio: il COGNOME è stato condannato alla pena di anni due di reclusione, che, per come già evidenziato dalla Corte territoriale, rappresenta il minimo edittale previsto per il reato di cui all’art. 482 cod. pen., che, in sé, dà conto dell’invocata riduzione di un terzo della pena prevista in quest’ultima disposizione.
4. Manifestamente infondato è il quinto.
Per come emerge dal doveroso esame degli atti processuali (ai quali questa Corte può accedere in ragione della natura del vizio denunciato) e per come
chiaramente ricostruito anche nella sentenza impugnata, all’ultima udienza dibattimentale, revocata l’ammissione di alcuni testi in precedenza ammessi e ribadita la già dichiarata assenza del Munitello, l’istruttoria veniva dichiarata chiusa. In tale occasione non solo la difesa non provava il legittimo impedimento dell’imputato, ma non chiedeva neanche un differimento dell’udienza per l’espletamento del suo esame. Ebbene, a prescindere dalla circostanza per cui il silenzio serbato dalla difesa, a fronte della revoca (parziale) dell’ordinanza istruttoria, deve intendersi in termini di rinuncia tacita all’assunzione dei mezzi di prova richiesti, dirimente, in ogni caso, è la considerazione per cui la mancata assunzione dell’esame dell’imputato che ne abbia fatto richiesta determina una nullità di ordine generale a regime intermedio che la difesa, avendovi assistito, ha l’onere di eccepire immediatamente ai sensi dell’art. 182, comma 2, cod. proc. pen., pena la decadenza prevista dall’art. 182, comma 3, cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 6152 del 18/11/2020, dep. 2021, S. Rv. 281339).
3. Indeducibile è anche il sesto motivo di ricorso.
Il ragionevole dubbio invocato dalla difesa, secondo la costante interpretazione offerta da questa Corte, va identificato in una ricostruzione della vicenda che, alla luce delle risultanze processuali, assunte nella loro oggettiva consistenza, sia non un’astratta possibilità (come, all’evidenza, emerge dalla stessa prospettazione difensiva) ma un’eventualità concretamente plausibile e suscettibile di essere argomentata con ragioni verificabili (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430). E la difesa si limita ad invocarne l’esistenza, senza alcuna differente ricostruzione rispetto alla prospettazione accusatoria.
Quanto alle censure relative alle circostanze attenuanti generiche e alla sospensione condizionale, è sufficiente rilevare come la Corte territoriale ha dato conto delle ragioni per le quali ha ritenuto di non riconoscere né le une, né l’altra: le circostanze attenuanti generiche (la cui esclusione risulta adeguatamente motivata, a fronte di specifica richiesta dell’imputato, anche attraverso la sola indicazione delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza la stretta necessità della contestazione o dell’invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda) alla luce dell’assenza di elementi positivi valutabili e della personalità dell’imputato, negativamente lumeggiata dal suo precedente penale, per altro reato correlato alla sua attività di avvocato; la sospensione condizionale della pena, avendo il COGNOME già goduto del predetto beneficio per una condanna definitiva alla pena di mesi due di reclusione, che, ove sommata t , alla pena riportata, determinava il superamento del limite massimo previsto
dall’art. 163 cod. pen. (e il dato oggettivo del superamento del limite normativo rende irrilevante ogni censura difensiva).
5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso l’11 marzo 2025