Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 31685 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 31685 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 16/04/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nata a GENOVA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 25/09/2023 della CORTE APPELLO di MILANO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
udito l’AVV_NOTAIO del foro di MILANO, che si è riportato ai motivi del ricorso, insistendo per l’accoglimento dello stesso.
Ritenuto in fatto
Con sentenza del 25 settembre 2023, la Corte d’appello di Milano ha confermato il provvedimento di primo grado, che ha dichiarato NOME COGNOME responsabile dei seguenti delitti: falsità ideologica (art. 483 cod. pen., in relazione agli artt. 75, 76, 46 del d.P.R. 445/2000, e 61, primo comma, n.2, cod. pen.: capo a), truffa (art. 640, secondo comma, n.1, 61, n.9, cod. pen.: capo b), accesso abusivo a sistema informatico (artt. 48, 615 ter, primo e secondo comma, n.1, e terzo comma, cod. pen.), rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio (art. 326 cod. pen.: capi d ed e), condannandola alla pena ritenuta di giustizia.
Secondo la rubrica, l’imputata, in qualità di viceAVV_NOTAIO della Polizia di RAGIONE_SOCIALE, omettendo di rendere all’amministrazione informazioni sul proprio patrimonio immobiliare, dichiarava falsamente di essere proprietaria di un solo immobile, occupato da un inquilino moroso, e di non disporre di altro alloggio nella sede di Milano, laddove la stessa risultava essere, in realtà, proprietaria di sette immobili nella medesima città. In tal modo, induceva in errore i dipendenti della Questura incaricati di evadere le richieste di trasferimento alloggiativo per il personale della Polizia di RAGIONE_SOCIALE, conseguendo indebitamente il vantaggio della fruizione di alloggio di servizio presso la caserma Garibaldi di Milano a spese dello RAGIONE_SOCIALE (capi a e b).
Inoltre, secondo il capo c) della rubrica, l’imputata determinava il sostituto commissario NOME COGNOME a eseguire ricerche sulla banca dati “Sistema d’indagine” (S.D.I.), e ad accedere illegittimamente a dati elaborati dal C.E.D. del Ministero dell’interno, concernenti informazioni circa i precedenti e le posizioni amministrative di alcune persone straniere sul territorio dello RAGIONE_SOCIALE. Acquisite tali informazioni, destinate a rimanere segrete, l’imputata ne rivelava i contenuti a terzi (capi d ed e).
Nell’interesse dell’imputata è stato proposto ricorso per cassazione, affidato ai cinque motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo, si duole di violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione all’affermazione di responsabilità per i reati di falso e truffa, di cui ai capi a) e b) della rubrica, stante l’assenza degli elementi oggettivo e soggettivo dei delitti ascritti.
La Corte d’appello avrebbe erroneamente interpretato, e applicato al caso di specie, l’art. 483 cod. pen., laddove l’unica norma rilevante sarebbe stata quella prevista dall’art. 49 del d.P.R. 782 del 1985 (regolamento di servizio 41474, dell’Amministrazione della pubblica sicurezza), a norma ~quale “ogni dipendente della Polizia RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, sussistendone le disponibilità, può richiedere di fruire degli alloggi di servizio collettivo”. Tale disposizione -rimarca la difesa- non contempla
la proprietà di immobili quale elemento ostativo per ottenere un alloggio di servizio collettivo.
Osserva inoltre la difesa che la richiesta di informazioni formulata dal AVV_NOTAIO in data 27 agosto 2019 (cui seguì l’istanza dell’imputata, in data 16 settembre 2019) esprimeva la mera volontà di ampliare la portata del citato art. 49. Tale richiesta, peraltro, era accompagnata da un mero modulo prestampato, senza alcun tipo di istruzione circa la compilazione dello stesso e non era supportata da alcuna circolare; pertanto, non poteva neppure considerarsi fonte secondaria.
In ogni caso, sostiene la difesa che la richiesta del AVV_NOTAIO e, più in generale, le circolari contenenti interpretazioni ministeriali, non possano considerarsi vincolanti né per i destinatari né per i giudici, non costituendo fonti di diritto, tantomeno con effetto retroattivo. Da ciò deriverebbe la violazione di legge, avendo i giudici di merito ritenuto prevalente una mera circolare su una fonte primaria, qual è il citato art. 49 del d.P.R. 782 del 1985.
La violazione di legge coinvolgerebbe altresì l’elemento soggettivo dell’ascritto reato, posta l’assoluta buona fede dell’imputata nel rendere le informazioni richieste dal AVV_NOTAIO. Inoltre, la carenza dell’elemento soggettivo risalta vieppiù evidente, ove si consideri che il modulo prestampato inviato all’imputata era disseminato di imprecisioni e domande confuse. Per quanto riguarda la contestazione del reato di truffa, la difesa osserva che alcun ingiusto profitto è derivato all’imputata dalla sua dichiarazione né alcun danno patrimoniale a carico dell’amministrazione, posta la natura demaniale della caserma Garibaldi.
Si lamenta, inoltre, la mancata considerazione, in entrambi i gradi di merito, dell’eccezione difensiva relativa al mancato deposito della versione originale del modulo sequestrato, datato 16 settembre 2019, posto alla base della condanna per i reati di cui ai capi a) e b) dell’imputazione.
2.2 II secondo motivo ha a oggetto violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 42 e 483 cod. pen. La difesa ricorda che il modulo prestampato inviato dal AVV_NOTAIO era stato introdotto ben 18 mesi dopo una precedente assegnazione all’imputata di un altro alloggio collettivo presso il residence Ripamonti, estraneo a qualsivoglia contestazione penale, ciò che avrebbe creato nell’imputata un legittimo affidamento, ovvero una ragionevole convinzione di agire correttamente.
La condotta della COGNOME non avrebbe offeso alcun bene giuridico e sarebbe stata caratterizzata non certo da dolo, ma, a tutto voler concedere, da negligenza o leggerezza, indotte peraltro dalla confusione ingenerata negli uffici dalla nuova modulistica introdotta dal AVV_NOTAIO.
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2.3 Col terzo motivo, relativo al capo c), si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 615 ter cod. pen. Si contesta la sussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo del reato ascritto, nonché erronea interpretazione del principio di offensività e violazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova.
La Corte d’appello, pur avendo esplicitamente eliminato dalla contestazione l’art. 48 cod. pen., chiarendo come l’imputata non avesse indotto in errore il sostituto commissario NOME COGNOME, ha poi contraddittoriamente ravvisato la responsabilità della stessa per il reato di accesso abusivo a sistema informatico. La contraddittorietà della motivazione risalta inoltre ove si consideri il dispositivo dell’impugnata sentenza, in cui si è disposta la trasmissione degli atti alla Procura per valutare eventuali responsabilità del sostituto commissario NOME COGNOME. Del tutto erronea, inoltre, è la considerazione della Corte d’appello secondo cui l’imputata non avrebbe avuto accesso alle fonti aperte del sistema informativo.
2.4 Col quarto motivo, relativo al capo d), si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 326 cod. pen. Si contesta la sussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo del reato ascritto, nonché erronea interpretazione del principio di offensività e violazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova.
In primis, la difesa rileva un’anomalia investigativa di fondo, posto che mai i testimoni chiave –COGNOME, COGNOME e COGNOME– sono stati ascoltati, neppure in sede di sommarie informazioni. In secondo luogo, si contesta l’interpretazione fornita dalla Corte territoriale dei messaggi intercorsi tra l’imputata e COGNOME. In terzo luogo, si evidenzia la contraddittorietà della motivazione rispetto al dispositivo: come già accennato nell’esposizione del precedente motivo, anche in tal caso la pronuncia di condanna dell’imputata si accompagna al dubbio circa la responsabilità del teste COGNOME per il concorso nell’ascritto delitto, risultando, dal dispositivo dell’impugnata sentenza, il rinvio alla Procura degli atti anche in relazione a NOME COGNOME.
2.5 Col quinto e ultimo motivo, relativo al capo e), si duole di violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 326 cod. pen., per la mancata sussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo del reato ascritto, l’erronea interpretazione del principio di offensività e la violazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova. Anche in tal caso, si contesta l’interpretazione fornita dalla Corte territoriale dei messaggi intercorsi tra l’imputata e NOME COGNOME, al quale -osserva la difesa- mai l’imputata ha rivelato informazioni destinate a rimanere riservate concernenti una persona d’origine congolese.
La motivazione è illogica, per avere i giudici d’appello ritenuto -in contrasto con le risultanze probatorie- che la fonte d’informazione provenisse dall’ufficio immigrazione, col quale -ha affermato la Corte- l’imputata manteneva assidue frequentazioni. Al contrario di quanto affermato dalla Corte territoriale, mai l’imputata ha prestato servizio quell’ufficio. Risulta, anzi, da testimonianze agli atti, che i rapporti tra l’imputata e il personale dell’ufficio informazione fossero tutt’altro che idilliaci, come dimostrato da due denunce presentate nei confronti della COGNOME da due dipendenti di quell’ufficio.
All’udienza si è svolta trattazione orale del ricorso. Il Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME, ha chiesto pronunciarsi il rigetto del ricorso. La difesa dell’imputata, AVV_NOTAIO, ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
Considerato in diritto
I primi due motivi -esaminabili congiuntamente, data la loro stretta connessione logica- sono in parte infondati (v. par. 1.1) e, in parte, inammissibili (v. par. 1.2).
1.1 L’infondatezza dei primi due motivi deriva, essenzialmente, dal mancato confronto, critico ed effettivo, con la motivazione dell’impugnata sentenza, in cui è sufficientemente ricostruito il quadro normativo di riferimento posto a base dell’affermazione di responsabilità per i reati di cui ai capi a) e b) della rubrica. Come correttamente rilevato dalla Corte d’appello, la norma -di rango primariocui far riferimento per decidere circa la rilevanza penale della condotta contestata, è da individuare nell’art. 483, in relazione agli artt. 46,47, 75 e 76 del d.P.R. n. 445 del 2000.
Più in particolare, osserva il Collegio, è da considerare la lettera o) del citato art. 46, che in tema di dichiarazioni sostitutive di certificazioni, prevede che “sono comprovati con dichiarazioni, anche contestuali all’istanza, sottoscritte dall’interessato e prodotte in sostituzione delle normali certificazioni i seguenti stati, qualità personali e fatti: situazione reddituale o economica anche ai fini della concessione dei benefici di qualsiasi tipo previsti da leggi speciali”. Ove dunque si consideri il disposto dell’art. 76 del d.P.R. n. 445 del 2000 – rievocato dalla Corte distrettuale- (secondo cui «chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal presente testo unico è punito ai sensi del codice penale») e il disposto della citata lettera o) dell’art. 46 d.P.R. n. 445 del 2000, non si può che convenire con i giudici di merito circa l’affermazione di responsabilità penale dell’imputata, posto che quest’ultima, nel modulo prestampato del 16 settembre 2019, aveva falsamente dichiarato di essere proprietaria di un solo “immobile occupato da inquilino moroso”. A fronte dell’inequivoco quadro
normativo sopra tratteggiato e di tale dichiarazione dell’imputata (doppiamente mendace, avendo i giudici di merito dimostrato che 1) gli immobili di proprietà dell’imputata in Milano erano sette e 2) che l’immobile di INDIRIZZO era stato, in realtà, lasciato libero dall’inquilino circa un mese prima della falsa dichiarazione del 16 settembre 2016), a nulla rilevano le reiterate obiezioni difensive circa la natura giuridica della circolare del AVV_NOTAIO e la scarsa chiarezza che avrebbe caratterizzato il contenuto. Invero, diversamente da quanto ripetutamente affermato dalla ricorrente, i giudici del merito non hanno affermato la penale responsabilità dell’imputata sulla base di una mera circolare (quella diramata dal AVV_NOTAIO), bensì, correttamente e con motivazione esente dai dedotti vizi, sulle fonti del diritto di rango primario sopra citate. Infatti, ciò c rileva è il carattere primario della norma incriminatrice, mentre la normativa secondaria vale solo a individuare i presupposti di godimento del beneficio rappresentato dall’assegnazione dell’alloggio di servizio. Deve, anzi, aggiungersi che del tutto legittimamente la portata precettiva dell’ad. 49, quarto comma, del d.P.R. 28 ottobre 1985, n. 782, è stata integrata dalla circolare del AVV_NOTAIO che esprime il potere della p.a. di dettare norme attuative di precetti generali. L’art. 49, quarto comma, cit., infatti, dispone che «ogni dipendente della Polizia RAGIONE_SOCIALE, sussistendone le disponibilità, può richiedere di fruire degli alloggi di servizio collettivo». Il fatto che il titolare del potere di assegnazione degli alloggi circoscriva e predetermini i criteri di selezione degli aventi diritto rispetto a disponibilità insufficienti a soddisfare le esigenze dei richiedenti rappresenta null’altro che l’attuazione del principio di imparzialità e di buon andamento della p.a. e vale a caratterizzare, nell’ambito dell’ordinamento interno dell’amministrazione, anche la circolare come atto normativo che vincola i singoli appartenenti a tale ordinamento (a proposito della natura giuridica che le circolari possono assumere, in relazione alla loro specifica tipologia, v. Cons. RAGIONE_SOCIALE, I sezione, parere n. 567/2017). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Ma, si ripete, il carattere secondario della fonte è tema privo di rilievo ai fini che qui interessano, dal momento che essa definisce – legittimamente per quanto detto – il quadro normativo che presiede all’assegnazione degli alloggi, laddove l’incriminazione penale riposa sulla norma primaria sopra ricordata.
Egualmente infondate sono le censure vedenti sulla mancata sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di falsità ideologica, avendo la Corte distrettuale adeguatamente dimostrato la ricorrenza del dolo generico (cfr., ad es., Sez. 5, n. 12547 del 08/11/2018, dep. 2019, Sirianni, Rv. 276505 – 02) in presenza della falsa attestazione, contenuta nella dichiarazione del 16 settembre 2016. L’asserita buona fede dell’imputata è stata smentita dalla Corte d’appello, che ha dato conto, peraltro, della conversazione via chat tra la COGNOME e un collega, risalente a un
mese prima dell’incriminata dichiarazione, in cui chiaramente trapela la cattiva fede dell’imputata (v. p. 7 della motivazione dell’impugnata sentenza).
Anche le eccezioni concernenti il reato di truffa sono infondate, avendo la Corte territoriale chiarito, con motivazione esente dai dedotti vizi, per un verso, l’evidente deminutio patrimonii del soggetto passivo (cfr., ad es., Sez. 2, n. 17322 del 18/01/2019, Rv. 276420 – 01), vale a dire la pubblica amministrazione, ove solo si consideri il costo derivante dalle spese vive di un alloggio e l’usura degli arredi del bene utilizzato, cosi efficacemente disattendendo la tesi -invero indifendibile- secondo cui alcun danno patrimoniale sarebbe derivato all’amministrazione dalla condotta della COGNOME a carico dell’amministrazione, posta la natura demaniale della caserma Garibaldi. Invero, la natura demaniale di un bene identifica uno specifico regime dei beni, ma non incide né sull’esistenza di un diritto dominicale dell’ente pubblico né sul fatto che esso possa subire un pregiudizio nelle sue facoltà di godimento quando sia indotto ad assegnazioni per effetto di artifizi e raggiri volti ad alterare le regole previste per l’uso dei beni.
D’altro lato, in motivazione si è adeguatamente chiarito l’inverarsi, nel caso di specie, degli elementi tipici della fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 640 cod. pen.: la Corte d’appello ha infatti fatto riferimento 1) alla tipica forma di raggiro, consistita nella dichiarazione mandace resa dall’imputata nella citata dichiarazione, che integra l’elemento costitutivo del reato di truffa (cfr. Sez. 2, n. 46437 del 27/09/2023, Metis, Rv. 285519 – 01; Sez. 2, n. 22170 del 09/05/2007, COGNOME, Rv. 236760); 2) al profitto derivante dal godimento di un alloggio gratuito lucrando, nel contempo, dal proprio bene (reso disponibile, tramite il sito Airbnb, per locazioni brevi); 3) altresì evidenziando il nesso di causalità tra l’induzione in errore, il profitto ed il danno (Sez. 2, n. 2281 del 06/10/2015, dep. 2016, Della Monica, Rv. 265773 – 01). Infine, deve ritenersi infondata l’eccezione relativa alla mancata considerazione, in entrambi i gradi di merito, della censura difensiva relativa al mancato deposito della versione originale del modulo sequestrato, atteso il carattere generico e non sufficientemente specifico della stessa. In altri termini, posto che non esiste un obbligo di acquisizione originale (v. ad es. Sez. 3, n. 8557 del 01/12/2021, dep. 2022, Boldini, Rv. 282917 – 01, a proposito del principio di libertà dei mezzi di prova e del valore probatorio di una copia fotostatica anche se priva di certificazione ufficiale di conformità e se disconosciuta dall’imputato, in quanto idonea ad assicurare l’accertamento di un fatto), il motivo di ricorso avrebbe dovuto chiarire più precisamente le ragioni della decisività della critica sollevata.
1.2 Il secondo motivo (nella parte in cui la difesa ricorda che il modulo prestampato inviato dal AVV_NOTAIO era stato introdotto ben 18 mesi dopo una precedente assegnazione all’imputata di un altro alloggio collettivo presso il
residence Ripamonti, estraneo a qualsivoglia contestazione penale), è inammissibile in quanto reiterativo e, soprattutto, perché l’eccezione difensiva è del tutto inconferente rispetto all’incriminazione (di cui al capo a) e alla ragionevole obiezione della Corte d’appello (v. p. 6 dell’impugnata sentenza, fine pagina). Infatti, sia l’una che l’altra attengono alla dichiarazione sottoscritta dall’imputata in un momento storico (16 settembre 2019) successivo rispetto alla permanenza della stessa presso il residence Ripamonti. Tant’è che, da tale dichiarazione risulta a chiare lettere che la ricorrente chiedeva il trasferimento alloggiativo dalla struttura Ripamonti alla Caserma Garibaldi. I profili relativi alla contestazione circa la ricorrenza dell’elemento soggettivo dell’ascritto reato sono stati già affrontati supra, sub 1.1
2. Il terzo motivo è manifestamente infondato, in quanto generico, oltre che reiterativo di doglianze già superate dalla Corte d’appello con motivazione esente dalle lamentate illogicità e contraddittorietà (Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012, Pezzo, Rv. 253849). È stato correttamente valorizzato, in motivazione, il profilo della condotta dell’imputata, che tipicamente connota il reato in parola, vale a dire il comportamento di colui il quale acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita Sez. U, n. 41210 del 18/05/2017, COGNOME, Rv. 271061 – 01; già prima, Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, dep. 2012, COGNOME, Rv. 251269 – 01). La Corte distrettuale ha infatti ricordato che le richieste di informazioni rivolte dalla COGNOME al Sostituto commissario NOME COGNOME erano del tutto avulse da ragioni di servizio, essendo motivate unicamente dall’esigenza di assecondare richieste private di conoscenti della ricorrente. Né la logicità della motivazione -nel punto in cui la Corte chiarisce che l’imputata non aveva accesso alle informazioni da lei stessa illegittimamente richieste – è messa in discussione da un involuto riferimento “al nominativo del COGNOME“. Va, inoltre, senz’altro disattesa la censura relativa all’asserita contraddittorietà della motivazione (che connoterebbe, secondo la difesa, la parte motiva relativa ai capi 3, 4 e 5 della rubrica): la difesa evidenzia, infatti, l’incongruenza di una decisione che ha affermato la responsabilità dell’imputata per i tre reati ascritti e, nel contempo, ha disposto l’invio degli atti alla Procura della Repubblica, al fine di verificare eventuali responsabilità nel concorso in quei reati stessi di tre dipendenti della polizia di RAGIONE_SOCIALE, tra i quali NOME COGNOME (e l’asserito vizio di motivazione viene ribadito con riferimento anche agli altri due dipendenti, NOME COGNOME ed NOME COGNOME, nei motivi quarto e quinto, su cui infra, sub 3). Ciò denoterebbe un dubbio di fondo, sotteso all’impugnata sentenza, sulla colpevolezza della ricorrente. Tale censura è completamente fuori fuoco: il fatto che la Corte d’appello abbia confermato il giudizio di responsabilità dell’imputata per il reato ascritto e, nel Corte di Cassazione – copia non ufficiale
contempo, ritenuto NOME COGNOME concorrente nel reato (tanto da inviare gli atti nei confronti di quest’ultimo alla Procura della Repubblica, al fine di verificare eventuali responsabilità nel concorso nel reato in parola) non implica affatto, come erroneamente ritenuto dalla difesa, un dubbio di fondo, sotteso all’impugnata sentenza, sulla colpevolezza della ricorrente. Semplicemente, la Corte ha offerto una ponderata e ragionevole ricostruzione tesa a dimostrare -sulla base di un granitico compendio probatorio e una motivazione del tutto logica- come l’imputata, anche senza indurre in errore il COGNOME (il quale, anzi, secondo la Corte d’appello avrebbe consapevolmente accondisceso alle illegittime richieste di informazioni avanzate dall’odierna ricorrente: ne è riprova -afferma la Corte- la proposta del COGNOME di comunicare con l’imputata da utenze diverse da quelle usualmente utilizzate: v. p. 8 sentenza), lo abbia coinvolto in una condotta rilevante ai sensi dell’art. 615 ter cod. pen.
3. I motivi quarto e quinto, -esaminabili congiuntamente, data la loro stretta connessione logica- sono manifestamente infondati. Premesso che, secondo quanto indicato dal ricorrente stesso, i testi indicati sono stati sentiti nel corso del dibattimento di primo grado, e fermo restando quanto si è appena osservato (sub 2) a proposito dell’assenza di contraddittorietà o illogicità della motivazione dell’impugnata sentenza con riguardo all’ipotizzato concorso nel reato di cui all’art. 326 cod. pen. del COGNOME e del COGNOME (e conseguente invio degli atti nei confronti degli stessi alla Procura della Repubblica), va rimarcato il carattere generico e reiterativo dei motivi, che appaiono, inoltre, del tutto versati in fatto. Col motivo quarto, la difesa torna a contestare, infatti, l’interpretazione -invero, dotata di intrinseca ragionevolezza- fornita dalla Corte territoriale dei messaggi intercorsi tra la COGNOME e il carabiniere COGNOME: messaggi il cui inequivocabile significato è stato correttamente ricondotto dalla Corte a una condotta tesa a divulgare notizie destinate a rimanere riservate per scopi del tutto eccentrici rispetto alla funzione svolta (si veda, ad es., la citazione, a p. 9 dell’impugnata sentenza, del brano di conversazione intercettata in cui il COGNOME ringrazia l’imputata per l’informazione relativa alla affidabilità di un venditore di autovetture, rivelatosi poi un soggetto pregiudicato – presso il quale il COGNOME stesso intendeva acquistare un’auto).
Ove si consideri che, ai fini dell’integrazione del delitto di rivelazione di segreti d’ufficio ex art. 326, comma primo, cod. pen., ovverosia un reato di pericolo concreto, posto a tutela del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, è necessario che la rivelazione avvenga in violazione dei doveri connessi alla funzione, ovvero utilizzando in modo distorto i poteri o le prerogative derivanti dalla stessa (Sez. 6, n. 31171 del 20/06/2023, Canu, Rv. 285085 – 02), deve concludersi che la Corte territoriale ha operato buon governo
dei principi dettati da questa Corte in tema di reato di rivelazioni di segreti d’ufficio, posta la natura riservata dell’informazione, illecitamente carpita -relativa al venditore di autovetture COGNOME– e trasferita dalla COGNOME al COGNOME. Come chiaramente illustrato dai giudici dell’appello, il giudizio di responsabilità dell’imputata è stato formulato sulla base di un compendio probatorio adeguatamente analizzato; in particolare, si è evidenziato, per un verso, il contenuto e la sequenza temporale dei messaggi intercorsi tra l’imputata e il COGNOME e, per l’altro, l’inattendibilità delle dichiarazioni rese da quest’ultimo a supporto della versione fornita dall’imputato.
Identici rilievi valgono a disattendere la censura esposta nel quinto motivo di ricorso: anche in tal caso, infatti, la difesa ridiscute -con argomentazioni reiterative, generiche e non dotate di decisività- l’articolata ricostruzione dei giudici di merito, che hanno sottolineato la natura riservata delle informazioni relative a precedenti penali, non risultanti dal casellario giudiziale rilasciato a privati- rese dalla ricorrente al collega COGNOME. Le critiche difensive relative agli asseriti rapporti burrascosi tra imputata e ufficio immigrazione non soltanto non possono ritenersi sufficientemente argomentate, risultando le stesse del tutto vaghe e, comunque, insufficienti a contrastare la motivazione, in cui si è fatto precipuo riferimento ai messaggi intercorsi tra COGNOME e COGNOME (oltre che alla consuetudine dell’imputata di intercedere presso quel medesimo ufficio a vantaggio di stranieri in attesa di permessi di soggiorno). Nel complesso, gli ultimi due motivi di ricorso sono dunque inammissibili, limitandosi a riprodurre le censure dedotte in appello, anche se con l’aggiunta di frasi incidentali di censura alla sentenza impugnata meramente assertive ed apodittiche, e difettando di una critica argomentata avverso il provvedimento ‘attaccatò e l’indicazione delle ragioni della loro decisività rispetto al percorso logico seguito dal giudice di merito. (ex multis, Sez. 6, n. 8700 del 21/01/2013, Leonardo, Rv. 254584 – 01) Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Per i motivi fin qui esposti, il ricorso deve essere rigettato. Alla pronuncia di rigetto consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 16/04/2024 Il Consigliere estensore COGNOME
Il residente