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False generalità a pubblico ufficiale: quando è reato?

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 47142/2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato condannato per aver fornito false generalità a pubblico ufficiale. La Corte ha ribadito che il diritto al silenzio dell’indagato non si estende all’obbligo di dichiarare la propria vera identità, e che il reato si consuma con la semplice dichiarazione mendace.

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Pubblicato il 12 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

False generalità a pubblico ufficiale: L’obbligo di verità prevale sul diritto al silenzio

L’ordinanza n. 47142 del 2024 della Corte di Cassazione offre un importante chiarimento su un tema delicato: il confine tra il diritto al silenzio dell’indagato e l’obbligo di fornire correttamente le proprie generalità. Quando un soggetto fornisce false generalità a pubblico ufficiale, commette reato anche se si sta avvalendo della facoltà di non rispondere? La Suprema Corte ha ribadito un principio consolidato: l’identità personale non rientra nell’ambito del diritto a mentire.

Il Caso in Esame

Un individuo, condannato in primo e secondo grado per il reato di cui all’art. 496 del codice penale, ha presentato ricorso in Cassazione. La sua colpa era stata quella di aver fornito dati anagrafici non veritieri alla polizia giudiziaria durante delle dichiarazioni spontanee. L’imputato sosteneva di aver agito nell’esercizio di un proprio diritto (la scriminante dell’art. 51 c.p.), collegato alla sua posizione di indagato, che gli conferirebbe il diritto di tacere e persino di mentire per difendersi. Inoltre, contestava la consumazione del reato, ritenendo che si dovesse configurare al massimo un tentativo.

La Decisione della Cassazione e le false generalità a pubblico ufficiale

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando integralmente la condanna. Gli Ermellini hanno smontato le argomentazioni difensive con motivazioni nette e basate su precedenti giurisprudenziali consolidati.

L’Obbligo di Dire la Verità sulla Propria Identità

Il primo e fondamentale punto chiarito dalla Corte è che il diritto al silenzio e la facoltà di mentire, concessi all’indagato per tutelare il suo diritto di difesa, non si estendono mai all’obbligo di fornire le proprie esatte generalità. L’identificazione di una persona è un presupposto essenziale per il corretto funzionamento della giustizia. Pertanto, chiunque, anche un indagato, ha il dovere di dichiarare il vero quando gli vengono chiesti nome, cognome, data e luogo di nascita. Fornire false generalità a pubblico ufficiale integra, senza eccezioni, il reato previsto dall’art. 496 c.p.

Quando si Consuma il Reato?

La seconda censura, relativa alla configurabilità del solo delitto tentato, è stata parimenti respinta. La Corte ha specificato che il reato di false dichiarazioni sull’identità è un reato di pura condotta. Ciò significa che si perfeziona e si consuma nel momento esatto in cui la falsa dichiarazione viene resa al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio. Non è necessario che da tale dichiarazione derivi un effettivo inganno o un danno concreto; la semplice enunciazione del falso è sufficiente a ledere il bene giuridico tutelato, ovvero la fede pubblica e il corretto funzionamento dell’amministrazione.

Le Motivazioni della Decisione

La Corte ha qualificato i primi due motivi di ricorso come manifestamente infondati, poiché in contrasto con principi giuridici consolidati e supportati da una giurisprudenza costante. Il diritto dell’indagato a non auto-incriminarsi riguarda i fatti oggetto dell’indagine, non la sua identità personale, che è un dato oggettivo e necessario per l’identificazione formale. Per quanto riguarda il terzo motivo, la Corte lo ha ritenuto inammissibile per la sua genericità. L’imputato, infatti, non aveva mosso critiche specifiche e argomentate alla sentenza della Corte d’Appello, limitandosi a una contestazione vaga che non permetteva un reale confronto giuridico. L’inammissibilità del ricorso ha comportato la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma di 3.000 euro in favore della Cassa delle ammende.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Sentenza

Questa ordinanza rafforza un principio fondamentale del nostro ordinamento: non esistono ‘zone franche’ in cui è consentito mentire sulla propria identità alle autorità. La decisione sottolinea che il diritto di difesa, pur essendo sacro, non può mai tradursi in un pretesto per ostacolare l’attività di identificazione da parte degli organi dello Stato. Per cittadini e operatori del diritto, il messaggio è chiaro: l’obbligo di fornire le proprie generalità in modo veritiero è assoluto e la sua violazione costituisce un reato pienamente consumato con la sola dichiarazione mendace.

Una persona indagata può mentire alla polizia sulla propria identità?
No. Secondo la Corte di Cassazione, anche se l’indagato ha il diritto di rimanere in silenzio e di non auto-incriminarsi sui fatti, ha sempre l’obbligo di fornire le proprie generalità in modo veritiero. Mentire sull’identità è reato.

Quando si perfeziona il reato di false dichiarazioni sull’identità?
Il reato si considera consumato nel momento esatto in cui le false generalità vengono comunicate al pubblico ufficiale. Non è necessario che la bugia produca un danno o tragga in inganno qualcuno; la semplice dichiarazione mendace è sufficiente per integrare il reato.

Cosa succede se un ricorso in Cassazione è formulato in modo troppo generico?
Un ricorso viene dichiarato inammissibile se le critiche alla sentenza precedente sono vaghe e non si confrontano specificamente con le motivazioni del giudice. Ciò comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e di una sanzione pecuniaria.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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