False generalità a pubblico ufficiale: L’obbligo di verità prevale sul diritto al silenzio
L’ordinanza n. 47142 del 2024 della Corte di Cassazione offre un importante chiarimento su un tema delicato: il confine tra il diritto al silenzio dell’indagato e l’obbligo di fornire correttamente le proprie generalità. Quando un soggetto fornisce false generalità a pubblico ufficiale, commette reato anche se si sta avvalendo della facoltà di non rispondere? La Suprema Corte ha ribadito un principio consolidato: l’identità personale non rientra nell’ambito del diritto a mentire.
Il Caso in Esame
Un individuo, condannato in primo e secondo grado per il reato di cui all’art. 496 del codice penale, ha presentato ricorso in Cassazione. La sua colpa era stata quella di aver fornito dati anagrafici non veritieri alla polizia giudiziaria durante delle dichiarazioni spontanee. L’imputato sosteneva di aver agito nell’esercizio di un proprio diritto (la scriminante dell’art. 51 c.p.), collegato alla sua posizione di indagato, che gli conferirebbe il diritto di tacere e persino di mentire per difendersi. Inoltre, contestava la consumazione del reato, ritenendo che si dovesse configurare al massimo un tentativo.
La Decisione della Cassazione e le false generalità a pubblico ufficiale
La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando integralmente la condanna. Gli Ermellini hanno smontato le argomentazioni difensive con motivazioni nette e basate su precedenti giurisprudenziali consolidati.
L’Obbligo di Dire la Verità sulla Propria Identità
Il primo e fondamentale punto chiarito dalla Corte è che il diritto al silenzio e la facoltà di mentire, concessi all’indagato per tutelare il suo diritto di difesa, non si estendono mai all’obbligo di fornire le proprie esatte generalità. L’identificazione di una persona è un presupposto essenziale per il corretto funzionamento della giustizia. Pertanto, chiunque, anche un indagato, ha il dovere di dichiarare il vero quando gli vengono chiesti nome, cognome, data e luogo di nascita. Fornire false generalità a pubblico ufficiale integra, senza eccezioni, il reato previsto dall’art. 496 c.p.
Quando si Consuma il Reato?
La seconda censura, relativa alla configurabilità del solo delitto tentato, è stata parimenti respinta. La Corte ha specificato che il reato di false dichiarazioni sull’identità è un reato di pura condotta. Ciò significa che si perfeziona e si consuma nel momento esatto in cui la falsa dichiarazione viene resa al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio. Non è necessario che da tale dichiarazione derivi un effettivo inganno o un danno concreto; la semplice enunciazione del falso è sufficiente a ledere il bene giuridico tutelato, ovvero la fede pubblica e il corretto funzionamento dell’amministrazione.
Le Motivazioni della Decisione
La Corte ha qualificato i primi due motivi di ricorso come manifestamente infondati, poiché in contrasto con principi giuridici consolidati e supportati da una giurisprudenza costante. Il diritto dell’indagato a non auto-incriminarsi riguarda i fatti oggetto dell’indagine, non la sua identità personale, che è un dato oggettivo e necessario per l’identificazione formale. Per quanto riguarda il terzo motivo, la Corte lo ha ritenuto inammissibile per la sua genericità. L’imputato, infatti, non aveva mosso critiche specifiche e argomentate alla sentenza della Corte d’Appello, limitandosi a una contestazione vaga che non permetteva un reale confronto giuridico. L’inammissibilità del ricorso ha comportato la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma di 3.000 euro in favore della Cassa delle ammende.
Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Sentenza
Questa ordinanza rafforza un principio fondamentale del nostro ordinamento: non esistono ‘zone franche’ in cui è consentito mentire sulla propria identità alle autorità. La decisione sottolinea che il diritto di difesa, pur essendo sacro, non può mai tradursi in un pretesto per ostacolare l’attività di identificazione da parte degli organi dello Stato. Per cittadini e operatori del diritto, il messaggio è chiaro: l’obbligo di fornire le proprie generalità in modo veritiero è assoluto e la sua violazione costituisce un reato pienamente consumato con la sola dichiarazione mendace.
Una persona indagata può mentire alla polizia sulla propria identità?
No. Secondo la Corte di Cassazione, anche se l’indagato ha il diritto di rimanere in silenzio e di non auto-incriminarsi sui fatti, ha sempre l’obbligo di fornire le proprie generalità in modo veritiero. Mentire sull’identità è reato.
Quando si perfeziona il reato di false dichiarazioni sull’identità?
Il reato si considera consumato nel momento esatto in cui le false generalità vengono comunicate al pubblico ufficiale. Non è necessario che la bugia produca un danno o tragga in inganno qualcuno; la semplice dichiarazione mendace è sufficiente per integrare il reato.
Cosa succede se un ricorso in Cassazione è formulato in modo troppo generico?
Un ricorso viene dichiarato inammissibile se le critiche alla sentenza precedente sono vaghe e non si confrontano specificamente con le motivazioni del giudice. Ciò comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e di una sanzione pecuniaria.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 47142 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 47142 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 27/11/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a SARNO il 21/02/1985
avverso la sentenza del 05/02/2024 della CORTE APPELLO di SALERNO
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
– che con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Salerno ha confermato la sentenza dal Tribunale di Salerno del 10 gennaio 2023, pronunciata all’esito di rito abbreviato, che aveva affermato la responsabilità penale di NOME COGNOME in ordine al reato di cui all’art. 496 cod. pen. condannandolo alla pena di giustizia;
– che il primo motivo di ricorso dell’imputato, che lamenta la carenza e illogicità della motivazione in ordine al non riconoscimento della scriminante di cui all’art. 51 cod. pen., è manifestamente infondato posto che integra il reato di cui all’art.496 la condotta dell’indagato che, in sede di dichiarazioni spontanee rese alla polizia giudiziaria, fornisca false generalità, non potendo trovare applicazione la scriminante dell’esercizio di una facoltà legittima perché, pur essendo l’indagato titolare del diritto al silenzio e della facoltà di mentire, egli ha comunque l’obbligo di fornire le proprie generalità secondo verità (Sez. 5, n. 4264 del 06/12/2021 dep. 07/02/2020, Rv. 282740);
– che il secondo motivo di ricorso dell’imputato, in cui si contesta l’illogicità della motivazione per aver negato il riconoscimento dell’ipotesi del delitto tentato, risulta manifestamente infondato dal momento che è sufficiente la dichiarazione di false generalità al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio per la consumazione del reato (Sez. 5, n. 23353 del 01/04/2022, COGNOME, Rv. 283432);
che il terzo motivo di ricorso dell’imputato è inammissibile per la sua genericità, in quanto attiene a profili di censura in relazione ai quali la Corte di appello ha fornito adeguata motivazione utilizzando corretti argomenti giuridici con i quali il ricorrente mostra di non confrontarsi;
che all’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento in favore della Cassa delle ammende di una somma che si reputa equo fissare in euro 3.000,00;
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 27/11/2024.