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False dichiarazioni: quando si applica l’art. 495 c.p.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 8715/2025, ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato condannato per false dichiarazioni a pubblico ufficiale (art. 495 c.p.). Il caso riguardava un soggetto che, privo di documenti, aveva fornito generalità false. La Corte ha ribadito che tale condotta integra il reato più grave previsto dall’art. 495 c.p., e non quello residuale dell’art. 496 c.p., poiché la dichiarazione assume carattere di attestazione formale. È stato inoltre confermato il corretto operato del giudice di merito nella valutazione della recidiva.

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Pubblicato il 13 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

False dichiarazioni: la Cassazione distingue tra art. 495 e 496 c.p.

Fornire false dichiarazioni a pubblico ufficiale sulla propria identità, specialmente in assenza di documenti, costituisce un reato serio. Con una recente ordinanza, la Corte di Cassazione ha tracciato una linea netta tra le diverse fattispecie penali, confermando un orientamento rigoroso. Analizziamo la decisione per comprendere le differenze tra i reati e i criteri per valutare la recidiva.

I Fatti di Causa

Il caso trae origine dal ricorso presentato da un individuo contro la sentenza della Corte di Appello di Napoli, che aveva confermato la sua condanna per il reato di false attestazioni a un pubblico ufficiale, previsto dall’articolo 495 del codice penale. L’imputato, trovato sprovvisto di documenti di identificazione, aveva fornito generalità non veritiere.

Nel suo ricorso in Cassazione, la difesa sollevava due questioni principali:
1. L’errata qualificazione giuridica del fatto, che a suo avviso doveva rientrare nella fattispecie meno grave dell’articolo 496 c.p. (false dichiarazioni sull’identità o su qualità personali proprie o altrui).
2. L’illegittima applicazione dell’aggravante della recidiva, contestandone la sussistenza.

La Differenza tra le False Dichiarazioni agli occhi della Corte

Il primo motivo di ricorso è stato giudicato manifestamente infondato dalla Suprema Corte. Gli Ermellini hanno richiamato un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità (in particolare, la sentenza n. 47077/2019), secondo cui la condotta di chi, privo di documenti, fornisce false dichiarazioni sulla propria identità a un pubblico ufficiale integra il reato più grave di cui all’art. 495 c.p.

La ragione di questa distinzione risiede nel valore che tali dichiarazioni assumono in quel contesto. In assenza di altri mezzi di identificazione, la parola dell’individuo diventa una vera e propria “attestazione”, preordinata a garantire al pubblico ufficiale le proprie qualità personali. Non si tratta, quindi, di una mera dichiarazione mendace, ma di un atto che sostituisce formalmente un documento, inducendo in errore l’ufficiale sulla fede pubblica.
Il reato di cui all’art. 496 c.p. assume, di conseguenza, un carattere residuale, applicabile a situazioni diverse e meno gravi.

La Valutazione della Recidiva

Anche il secondo motivo, relativo alla contestazione della recidiva, è stato ritenuto infondato e non consentito in sede di legittimità. La Corte ha sottolineato che la valutazione sulla sussistenza di questa aggravante è un compito del giudice di merito. Tale valutazione non può basarsi unicamente sulla gravità dei fatti passati o sulla loro distanza temporale.

Il giudice deve, invece, esaminare in concreto il rapporto tra il reato per cui si procede e le condanne precedenti. L’obiettivo è verificare se e in che misura la pregressa condotta criminale sia indicativa di una “perdurante inclinazione al delitto” che abbia agito come fattore criminogeno per la commissione del nuovo reato. Nel caso di specie, il giudice di merito aveva correttamente applicato questi principi, rendendo la censura inammissibile in Cassazione.

le motivazioni

La Corte di Cassazione ha motivato la propria decisione di inammissibilità basandosi su due pilastri giuridici chiari e consolidati.

In primo luogo, riguardo alla qualificazione del reato, i giudici hanno spiegato che le false dichiarazioni a pubblico ufficiale rese da un soggetto privo di documenti non sono una semplice bugia. Esse assumono una valenza giuridica superiore, quella di un’attestazione formale. Questo perché, in quel preciso momento, la parola è l’unico strumento a disposizione del pubblico ufficiale per accertare l’identità della persona. La dichiarazione è quindi “preordinata a garantire” le qualità personali, integrando pienamente la fattispecie dell’art. 495 c.p., che tutela la fede pubblica in modo più stringente rispetto all’art. 496 c.p.

In secondo luogo, per quanto concerne la recidiva, la Corte ha ribadito che il suo sindacato è limitato alla verifica della corretta applicazione della legge e non può entrare nel merito della valutazione fattuale compiuta dal giudice dei gradi precedenti. Il giudice d’appello aveva compiuto un’analisi corretta, esaminando il legame specifico tra i reati e la propensione a delinquere dell’imputato, senza limitarsi a un mero calcolo temporale o di gravità. Questo approccio è conforme ai principi della giurisprudenza di legittimità, che richiede una valutazione sostanziale e non meramente formale della pericolosità sociale del reo.

le conclusioni

L’ordinanza in esame si conclude con la dichiarazione di inammissibilità del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende. Dal punto di vista pratico, questa decisione rafforza due importanti principi:

1. Chi fornisce false generalità a un pubblico ufficiale, non potendo essere identificato altrimenti, commette il reato più grave previsto dall’art. 495 c.p. La mancanza di documenti conferisce alla dichiarazione un peso giuridico maggiore.
2. La valutazione della recidiva è un’analisi complessa e discrezionale del giudice di merito. Per contestarla in Cassazione, non è sufficiente dissentire dalla valutazione, ma è necessario dimostrare un vizio di legge o una motivazione manifestamente illogica, ipotesi non riscontrata nel caso di specie.

Qual è la differenza tra il reato di cui all’art. 495 c.p. e quello di cui all’art. 496 c.p. secondo la Cassazione?
La differenza fondamentale risiede nel valore della dichiarazione. Se una persona priva di documenti fornisce false generalità, la sua dichiarazione assume il carattere di un’attestazione formale volta a garantire le proprie qualità personali al pubblico ufficiale, integrando così il reato più grave dell’art. 495 c.p. L’art. 496 c.p. ha invece un’applicazione residuale.

Perché il motivo di ricorso sulla sussistenza della recidiva è stato respinto?
È stato respinto perché la valutazione sulla recidiva è di competenza del giudice di merito. La Cassazione può intervenire solo se vi è un errore di diritto o una motivazione illogica, ma non può riesaminare i fatti. In questo caso, il giudice di merito aveva correttamente valutato il legame tra il reato attuale e le condanne precedenti per stabilire una perdurante inclinazione a delinquere.

Cosa comporta la dichiarazione di inammissibilità del ricorso?
La dichiarazione di inammissibilità comporta che il ricorso non viene esaminato nel merito. La sentenza impugnata diventa definitiva e l’imputato viene condannato al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle ammende, che nel caso specifico ammonta a tremila euro.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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