False Dichiarazioni a Pubblico Ufficiale: Quando la Domanda è Implicita
L’Ordinanza n. 11666/2024 della Corte di Cassazione affronta un caso emblematico di false dichiarazioni a pubblico ufficiale, chiarendo quando si possa ritenere integrato il reato previsto dall’art. 496 del codice penale. La pronuncia è di particolare interesse perché si sofferma sull’elemento della “interrogazione” da parte dell’autorità, specificando che essa non deve essere necessariamente esplicita, ma può desumersi dal contesto e dalle azioni degli agenti.
Il Caso: Occultamento e Finzione per Evitare l’Identificazione
I fatti alla base della vicenda vedono un soggetto condannato in primo e secondo grado per il reato di false dichiarazioni. Durante un controllo, l’individuo era stato trovato nascosto all’interno dell’abitazione di una persona agli arresti domiciliari. In seguito, per sottrarsi all’identificazione, aveva condotto gli agenti presso la propria residenza, simulando di non riuscire a trovare i propri documenti d’identità.
Questo comportamento ostruzionistico e mendace è stato interpretato dai giudici di merito come una condotta penalmente rilevante, volta a ingannare i pubblici ufficiali sulla propria identità o qualità personali.
Il Motivo del Ricorso e le False Dichiarazioni a Pubblico Ufficiale
La difesa dell’imputato ha presentato ricorso in Cassazione lamentando una violazione di legge. Il punto centrale dell’argomentazione difensiva era l’insussistenza dell’elemento specializzante del reato, ovvero l’essere stato “interrogato” sulla propria identità. Secondo il ricorrente, in assenza di una domanda diretta e formale da parte degli agenti, la sua condotta non poteva configurare il delitto contestato.
In sostanza, la tesi era che, non essendoci stata una richiesta esplicita di fornire le generalità, le sue azioni non potevano essere considerate delle false dichiarazioni a pubblico ufficiale in risposta a un’interrogazione.
Le Motivazioni della Corte di Cassazione
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso manifestamente infondato, e quindi inammissibile. Il ragionamento dei giudici di legittimità si è concentrato sulla logicità della motivazione della Corte d’Appello. Quest’ultima aveva correttamente evidenziato come le circostanze concrete del controllo rendessero palese l’intento identificativo degli agenti.
La Corte ha stabilito che la condotta dell’imputato non era stata spontanea, ma una chiara reazione a un’iniziativa degli operanti. Il fatto di trovarsi insieme a un detenuto, di essersi nascosto e di aver poi inscenato la ricerca del documento, sono tutti elementi che, letti nel loro insieme, portano alla “ragionevole conclusione” che l’uomo stesse rispondendo a una richiesta, seppur implicita, di identificazione. L’interrogazione, quindi, non necessita di formule sacramentali, ma può emergere dai fatti, quando l’attività del pubblico ufficiale è palesemente finalizzata a ottenere informazioni sull’identità di una persona.
Le Conclusioni: L’Interpretazione Estensiva del Reato
Questa ordinanza ribadisce un principio importante: per la configurazione del reato di cui all’art. 496 c.p., l’elemento della richiesta da parte del pubblico ufficiale non va interpretato in senso restrittivo e formalistico. Il contesto operativo e le finalità dell’intervento di polizia sono sufficienti a configurare una richiesta di fornire le proprie generalità. Di conseguenza, qualsiasi dichiarazione (o condotta, come in questo caso) mendace o reticente, tenuta in tale contesto, integra pienamente il reato di false dichiarazioni a pubblico ufficiale. La decisione, quindi, condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende, confermando la solidità dell’impianto accusatorio dei gradi di merito.
Per configurare il reato di false dichiarazioni ex art. 496 c.p. è necessaria una domanda esplicita da parte del pubblico ufficiale?
No, secondo l’ordinanza, non è necessaria una domanda esplicita. La richiesta di fornire le proprie generalità può essere implicita e desumersi dalle circostanze e dall’iniziativa degli operanti volta a identificare un soggetto.
Quale comportamento è stato considerato sufficiente per integrare il reato nel caso di specie?
La condotta dell’imputato, che prima si è nascosto e poi ha condotto gli agenti al proprio domicilio fingendo di non trovare il documento di identità, è stata ritenuta una risposta non spontanea a un’iniziativa di identificazione della polizia, integrando così il reato.
Qual è stato l’esito del ricorso e perché?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché la motivazione della Corte d’Appello è stata ritenuta non manifestamente illogica. La Corte di Cassazione ha ritenuto ragionevole la conclusione che la condotta dell’imputato fosse una reazione a una richiesta di identificazione.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 11666 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 11666 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 28/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME a BRINDISI il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 30/01/2023 della CORTE APPELLO di LECCE
dato avviso alle parti; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
NUMERO_DOCUMENTO
Rilevato che l’imputato NOME COGNOME ricorre avverso la sentenza con cui la C appello di Lecce ha confermato la sentenza del Tribunale di Brindisi di condanna per il cui all’art. 496 cod.pen.;
Rilevato che il motivo unico del ricorso – con cui il ricorrente denunzia viola legge e vizio di motivazione in relazione all’insussistenza dell’elemento speci dell’interrogazione di cui all’art. 496 cod. pen. – è manifestamente infondato motivazione della Corte di Appello non è manifestamente illogica; in partico ragionamento non è congetturale laddove la Corte di Appello ha evidenziato che le circos del controllo – l’imputato è stato trovato nascosto nella casa di un detenuto ag domiciliari e poi ha condotto gli agenti al proprio domicilio, fingendo di non documento di identità occorrente per l’identificazione – inducono alla ragionevole concl che la sua condotta non fosse spontanea, ma rispondesse ad un’iniziativa degli operant identificare il soggetto che si trovava insieme al detenuto pur senza alcuna autorizza punto.
Rilevato, pertanto, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conda ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favor Cassa delle ammende.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 28 febbraio 2024.