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False dichiarazioni: quando mentire alla polizia è reato

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato condannato per false dichiarazioni a pubblico ufficiale. La sentenza chiarisce che il reato sussiste anche se si forniscono identità diverse in più occasioni, a prescindere dall’accertamento di quella vera. Inoltre, ha stabilito che l’obbligo di avvertire del diritto al silenzio non si applica alla richiesta di fornire le proprie generalità durante un controllo di polizia.

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Pubblicato il 11 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

False dichiarazioni alla Polizia: la Cassazione conferma la condanna

Fornire false dichiarazioni sulla propria identità a un pubblico ufficiale durante un controllo costituisce reato ai sensi dell’art. 495 del codice penale. Con una recente sentenza, la Corte di Cassazione ha ribadito questo principio, respingendo il ricorso di un imputato e fornendo importanti chiarimenti sulla differenza tra ‘generalità’ e ‘qualità personali’ e sulla non necessità degli avvertimenti di cui all’art. 64 c.p.p. in questi contesti.

I Fatti di Causa

Il caso riguarda un individuo condannato in primo grado e in appello per il reato di false attestazioni a pubblico ufficiale. In diverse occasioni, durante controlli di polizia, l’uomo aveva fornito generalità diverse e mendaci. La condanna, pur con la concessione delle circostanze attenuanti generiche, era stata sospesa condizionalmente.

I Motivi del Ricorso in Cassazione

L’imputato, tramite il suo difensore, ha presentato ricorso alla Corte di Cassazione basandolo su tre motivi principali:
1. Violazione di legge: Si sosteneva che le dichiarazioni fossero inutilizzabili perché rese senza i preventivi avvertimenti sul diritto al silenzio, come previsto da una pronuncia della Corte Costituzionale (n. 111/2023).
2. Genericità del capo d’imputazione: L’accusa era ritenuta troppo vaga riguardo ai luoghi specifici dei reati (indicati solo come ‘Linosa e Lampedusa’) e alle esatte generalità false fornite.
3. Insussistenza del reato: La difesa argomentava che, non essendo stata accertata la vera identità dell’imputato, non era possibile stabilire quali delle dichiarazioni fossero false. Inoltre, si adduceva una possibile mancata comprensione della lingua italiana.

Le motivazioni sulle false dichiarazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendo tutti i motivi manifestamente infondati. Analizziamo le ragioni della decisione.

Primo Motivo: Generalità vs. Qualità Personali

La Corte ha smontato il primo motivo di ricorso operando una distinzione cruciale. La sentenza della Corte Costituzionale citata dal ricorrente impone di dare gli avvertimenti prima di chiedere informazioni sulle ‘qualità personali’ (es. stato civile, professione). Tuttavia, la richiesta delle generalità (nome, cognome, data e luogo di nascita) non rientra in questa categoria. Mentire sulla propria identità fondamentale è un comportamento diverso e non protetto dal diritto al silenzio in quel contesto. Di conseguenza, non era necessario alcun avvertimento.

Secondo Motivo: Specificità dell’Accusa

Il secondo motivo è stato giudicato privo di specificità. La Corte ha osservato che il capo d’imputazione conteneva riferimenti chiari alle date di commissione dei reati e che i luoghi, sebbene generali, erano stati oggetto di dibattito processuale. Il ricorrente, inoltre, non ha saputo dimostrare quale concreto pregiudizio avesse subito il suo diritto di difesa a causa di questa presunta genericità.

Terzo Motivo: La Consumazione del Reato

Infine, la Cassazione ha ribadito un suo orientamento consolidato: il reato di false dichiarazioni si perfeziona con la semplice condotta di chi rende molteplici attestazioni diverse tra loro sulla propria identità a un pubblico ufficiale. Non è necessario, ai fini della condanna, che venga accertata la vera identità del soggetto. Il reato punisce l’atto di mentire e di ostacolare l’identificazione, indipendentemente dal fatto che una delle versioni fornite possa, per caso, essere quella vera. Anche la censura sulla mancata comprensione della lingua è stata respinta, poiché non supportata da alcun elemento emerso dai verbali di identificazione.

Le conclusioni

La sentenza consolida un importante principio di diritto: mentire sulla propria identità durante un controllo di polizia è un reato che si consuma con la dichiarazione stessa, senza che sia necessario un successivo accertamento della verità. La decisione chiarisce inoltre che il diritto al silenzio e i relativi avvertimenti non si estendono alla richiesta di fornire le proprie generalità anagrafiche, un atto dovuto da parte del cittadino per consentire la propria identificazione. Questa pronuncia serve da monito sull’obbligo di fornire informazioni veritiere alle forze dell’ordine e ne delinea con precisione i confini giuridici.

È necessario ricevere l’avvertimento sul diritto al silenzio prima che la polizia chieda le generalità?
No. La Corte di Cassazione ha chiarito che l’obbligo di avvertimento, sancito dalla Corte Costituzionale, si applica alle domande sulle ‘qualità personali’, ma non alla semplice richiesta di fornire le proprie generalità (nome, cognome, data e luogo di nascita).

Per commettere il reato di false dichiarazioni è necessario che le autorità scoprano la vera identità della persona?
No. Secondo la giurisprudenza consolidata della Cassazione, il reato si configura con la condotta di chi fornisce molteplici dichiarazioni diverse tra loro sulla propria identità. Non è rilevante che la vera identità non venga accertata o che una delle versioni fornite possa essere quella corretta.

L’accusa può essere considerata nulla se indica i luoghi del reato in modo generico?
No, non necessariamente. Se l’imputazione contiene riferimenti specifici alle date e i luoghi, anche se indicati in modo ampio (es. un’isola), sono stati oggetto di contraddittorio processuale, l’accusa non è considerata generica, a meno che l’imputato non dimostri che ciò ha concretamente danneggiato il suo diritto di difesa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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