Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 5247 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 5247 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: PILLA EGLE
Data Udienza: 08/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME COGNOME nato il 01/01/1997 avverso la sentenza del 16/04/2024 della CORTE APPELLO di PALERMO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria scritta del Sostituto Procuratore generale della Corte di cassazione, NOME COGNOME che ha concluso per la inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 16 aprile 2024 la Corte di appello di Palermo ha confermato la pronuncia del 12 gennaio 2023 del Tribunale di Agrigento in composizione monocratica nei confronti di NOME COGNOME con la quale l’imputato era stato condannato per il reato di cui all’ art. 495 cod. pen., previa concessione delle circostanze generiche, alla pena di giustizia sospensivamente condizionata.
L’accusa attiene alle false dichiarazioni rese dal ricorrente in più occasioni nel corso di controlli di polizia durante i quali, alla richiesta delle sue generalità, l riferiva falsamente.
Avverso tale decisione ha proposto ricorso l’imputato, attraverso il difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
2.1.Con il primo motivo proposto è stata dedotta violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla esclusione della punibilità ex art. 495 comma primo cod.
pen. in relazione alle dichiarazioni mendaci rese in assenza degli avvertimenti di cui all’art. 64 comma terzo cod. proc. pen.
Non vi è stato un controllo – lamenta la difesa – circa il ricevimento degli avvertimenti ai sensi dell’art. 64 comma terzo cod. proc. pen. per i controlli del 14 febbraio, 13 maggio e 8 settembre 2017 come invece richiesto dalla pronunzia della Corte costituzionale n.111/23.
In mancanza degli avvertimenti, le dichiarazioni rese risultano inutilizzabili nei suoi confronti e la condotta non punibile ai sensi dell’art. 495 cod. pen.
2.2. Con il secondo motivo proposto è stata dedotta violazione di legge in relazione all’art. 429 comma primo lett. C) cod. proc. pen. per genericità del capo di imputazione.
I luoghi dei commessi reati sono indicati in Linosa e Lampedusa, senza una specificazione in relazione a ciascun episodio delittuoso. È errata anche la indicazione delle generalità asseritamente false che non corrispondono alle risultanze documentali.
2.3. Con il terzo motivo proposto è stata dedotta violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla sussistenza dell’art. 495 cod. pen.
La sentenza indica eventi successivi al 20 settembre 2019 in occasione dei quali il ricorrente avrebbe reso false dichiarazioni, laddove l’ultimo evento documentato risulta proprio quello del 20 settembre 2019.
Inoltre, in mancanza di un accertamento in ordine alle effettive generalità dell’imputato, non può dirsi consumato il reato contestato come affermato anche dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 4 n. 41744/2014), non potendosi stabilire quali delle generalità fornite fossero effettivamente false.
Ulteriore elemento ignorato è quello relativo alla mancata comprensione della lingua italiana.
CONSIDEFtATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo è manifestamente infondato.
La Corte costituzionale con sentenza del 6 aprile 2023 n.111 ha dichiarato:
-l’illegittimità costituzionale dell’art. 64 comma terzo cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen.;
-l’illegittimità costituzionale dell’art. 495 comma primo cod. pen. nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell’art. 21 norme att. cod. proc. pen. senza che siano stati loro previamente formulati
gli avvertimenti di cui all’art. 64 comma terzo cod. proc. pen., abbiano reso false dichiarazioni.
La Consulta ha ritenuto l’assetto normativo e giurisprudenziale “non conforme alle esigenze di tutela del diritto al silenzio come riconosciuto dall’art. 24 Cost. che esige invece che la persona sottoposta alle indagini o imputata sia debitamente avvertita, segnatamente del proprio diritto di non rispondere anche alle domande relative alle proprie condizioni personali diverse da quelle relative alle proprie generalità e dalla possibilità che le sue eventuali dichiarazioni siano utilizzate nei suoi confronti[. .1”.
Nel caso di specie l’imputato ha sì declinato false generalità senza avvertimenti, ma l’imputazione non riguarda le dichiarazioni sulle proprie qualità personali rese ai sensi dell’art. 21 disp. att. cod. proc. pen. dinanzi all’autorità giudiziaria.
2. Il secondo motivo è privo di specificità.
Dalla lettura del capo di imputazione e della condotta ivi descritta può escludersi genericità o indeterminatezza atteso che i diversi fatti sono stati contestati mediante riferimenti specifici alle date di commissione ed i diversi luoghi di commissione sono stati oggetto di contraddittorio processuale; né il ricorrente ha chiarito nel motivo di ricorso quale sia stato l’effettivo pregiudizio derivato nell’esercizio del suo diritto di difesa.
Il terzo motivo è manifestamente infondato, non confrontandosi con il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui integra il reato di falsa attestazione o dichiarazione ad un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri (art. 495 cod. pen.) la condotta di colui che rende molteplici dichiarazioni, tutte fra loro diverse, in merito alle proprie generalità; né rileva, a tal fine, il fatto che non sia stato possibile accertare le vere generalità del soggetto e che questi, in una sola delle molteplici occasioni, possa, eventualmente, avere detto il vero (cfr. ex multis Sez. 5, n. 23556 del 15/07/2020, COGNOME,Rv. 279362).
Manifestamente infondata la censura nella parte in cui genericamente lamenta, quanto all’elemento soggettivo, la mancata prova che l’imputato conoscesse la lingua italiana, atteso che dai verbali di identificazione in atti e rappresentanti la prova documentale delle condotte ascritte, non emerge alcun elemento rivelatore della mancata comprensione della lingua.
Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Consegue altresì, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere del versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, determinata, in
considerazione delle ragioni di inammissibilità del ricorso stesso, nella misura di euro tremila.
PQM
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma in data 8 gennaio 2025
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