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False dichiarazioni identità: quando è reato consumato

Un soggetto ricorre in Cassazione contro una condanna per false dichiarazioni identità (art. 495 c.p.) e violazione di misure di prevenzione. La Corte Suprema ha dichiarato il ricorso inammissibile, chiarendo che il reato di false dichiarazioni si considera consumato nel momento in cui vengono fornite le informazioni mendaci a un pubblico ufficiale, anche se quest’ultimo non viene tratto in inganno. La Corte ha inoltre respinto la doglianza sulle attenuanti generiche, confermando che il loro bilanciamento con le aggravanti è una valutazione discrezionale del giudice di merito.

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Pubblicato il 20 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

False dichiarazioni identità: Quando il Reato si Perfeziona? La Visione della Cassazione

Fornire false dichiarazioni identità a un pubblico ufficiale è un reato grave, ma quando si può considerare effettivamente consumato? Basta la semplice dichiarazione mendace o è necessario che l’ufficiale venga effettivamente ingannato? La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, ha fornito chiarimenti cruciali su questo punto, dichiarando inammissibile il ricorso di un imputato e consolidando un importante principio di diritto.

I Fatti del Caso

Il caso trae origine da un ricorso presentato avverso una sentenza della Corte di Appello di Catania, che aveva confermato la condanna di un individuo per due reati: la violazione delle prescrizioni imposte da una misura di prevenzione (art. 75, D.Lgs. 159/2011) e, soprattutto, il delitto di false dichiarazioni sulla propria identità a un pubblico ufficiale (art. 495 del Codice Penale).

L’imputato, nel tentativo di ottenere una riforma della sentenza di condanna, si è rivolto alla Suprema Corte di Cassazione, sollevando tre distinti motivi di ricorso.

I Motivi del Ricorso in Cassazione

La difesa dell’imputato ha basato la propria strategia su tre argomentazioni principali, ciascuna mirata a smontare un pilastro della sentenza di condanna.

L’elemento psicologico del reato

In primo luogo, il ricorrente contestava la valutazione sull’elemento psicologico del reato di violazione delle misure di prevenzione. Secondo la difesa, la Corte di Appello non avrebbe motivato adeguatamente la sussistenza della consapevolezza (dolo) della violazione, limitandosi a ripetere le argomentazioni del giudice di primo grado.

La contestazione sulle false dichiarazioni identità e il reato tentato

Il secondo motivo, di particolare interesse, riguardava il reato di false dichiarazioni identità. La difesa sosteneva che il reato non si fosse consumato, ma che si dovesse al massimo configurare un tentativo. Questo perché, a loro dire, non era stato provato che il pubblico ufficiale fosse stato effettivamente indotto in errore dalle false generalità fornite. In pratica, se il “trucco” non riesce, il reato non sarebbe completo.

La richiesta delle attenuanti generiche

Infine, il terzo motivo lamentava la mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche, che avrebbero potuto comportare una riduzione della pena inflitta.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha esaminato i motivi del ricorso e li ha dichiarati tutti inammissibili, fornendo motivazioni precise e di grande rilevanza giuridica.

Il reato di false dichiarazioni identità è sempre consumato

Sul punto centrale, la Corte ha ribadito un principio consolidato: il reato di cui all’art. 495 del Codice Penale si perfeziona con la sola condotta di chi, essendo privo di documenti, fornisce a un pubblico ufficiale dichiarazioni false sulla propria identità o qualità personali. Non è necessario che il pubblico ufficiale sia effettivamente indotto in errore.

La ragione è che la norma tutela la fede pubblica, ovvero la fiducia che la collettività ripone nelle attestazioni e dichiarazioni. La dichiarazione mendace, in assenza di altri mezzi di identificazione, assume di per sé un carattere di attestazione preordinata a garantire le proprie qualità personali. Pertanto, la semplice menzogna è sufficiente a integrare il reato consumato, rendendo irrilevante l’ipotesi del tentativo.

La Corte ha inoltre qualificato i primi due motivi di ricorso come “aspecifici”, in quanto si limitavano a riproporre le stesse argomentazioni già presentate e respinte in appello, senza un confronto critico con le puntuali motivazioni della Corte territoriale. Questo è un errore procedurale comune che porta spesso all’inammissibilità del ricorso in Cassazione.

Per quanto riguarda le attenuanti generiche, i Giudici Supremi hanno rilevato che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, i giudici di merito le avevano applicate, ma le avevano ritenute equivalenti alle aggravanti contestate. Questa operazione, nota come “giudizio di comparazione”, è una valutazione discrezionale del giudice e non è sindacabile in sede di legittimità, a meno che non sia palesemente illogica o arbitraria, cosa che in questo caso non è stata riscontrata.

Le Conclusioni

L’ordinanza della Corte di Cassazione si rivela di grande importanza pratica. Essa chiarisce in modo inequivocabile che chiunque fornisca false dichiarazioni identità a un pubblico ufficiale commette un reato consumato, e non semplicemente tentato, nel momento stesso in cui pronuncia la menzogna. La legge protegge l’affidabilità delle dichiarazioni rese alle autorità, e la sola azione di mentire sulla propria identità mina questa fiducia, integrando la fattispecie penale. La decisione, inoltre, funge da monito sull’importanza di formulare ricorsi specifici e critici verso le sentenze impugnate, evitando la mera riproposizione di argomenti già vagliati.

Quando si considera consumato il reato di false dichiarazioni sull’identità personale?
Il reato si considera consumato nel momento in cui un soggetto, privo di documenti di identificazione, fornisce a un pubblico ufficiale false dichiarazioni sulla propria identità. Non è necessario che il pubblico ufficiale venga effettivamente ingannato; la semplice dichiarazione mendace integra la fattispecie di reato.

È possibile presentare in Cassazione gli stessi motivi di ricorso già respinti in Appello?
No, non è sufficiente. Un ricorso per Cassazione è considerato inammissibile se si limita a una pedissequa reiterazione delle doglianze già dedotte in appello e puntualmente disattese dalla Corte di merito. È necessario un confronto critico e argomentato con la sentenza che si impugna.

Il giudice è sempre obbligato a ridurre la pena se applica le attenuanti generiche?
No. Il giudice può applicare le attenuanti generiche ma ritenerle, tramite un giudizio di comparazione, equivalenti alle circostanze aggravanti contestate. In questo caso, le circostanze si bilanciano e la pena non viene diminuita. Questa valutazione è discrezionale e censurabile solo se manifestamente illogica o arbitraria.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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