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False dichiarazioni: Cassazione conferma condanna

Un individuo, fermato dalla polizia, fornisce un nome falso. Condannato per il reato di false dichiarazioni ex art. 496 c.p., ricorre in Cassazione lamentando vizi procedurali e di motivazione. La Suprema Corte rigetta il ricorso, confermando che fornire deliberatamente generalità non veritiere a un pubblico ufficiale che le richiede integra il reato. La sentenza chiarisce anche gli oneri di comunicazione in caso di detenzione dell’imputato per altra causa e i presupposti per la richiesta di pene sostitutive.

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Pubblicato il 11 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

False Dichiarazioni a Pubblico Ufficiale: Analisi della Sentenza della Cassazione

Fornire generalità non veritiere a un agente di polizia durante un controllo è un comportamento che integra il reato di false dichiarazioni sull’identità o su qualità personali, previsto dall’art. 496 del codice penale. Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna di un imputato, cogliendo l’occasione per ribadire importanti principi sia sul piano del diritto sostanziale che processuale. Il caso analizzato offre spunti cruciali sulla configurabilità del reato, sugli oneri processuali dell’imputato detenuto e sulle condizioni per accedere alle pene sostitutive.

I Fatti di Causa

Durante un controllo di polizia in un’area di sosta autostradale, un uomo, interrogato dagli agenti della polizia stradale circa le proprie generalità, affermava di chiamarsi con un nome di fantasia. Sprovvisto di documenti, la sua reale identità veniva accertata solo in un secondo momento. Per questo comportamento, veniva condannato in primo grado e in appello per il reato di false dichiarazioni a un pubblico ufficiale. La difesa decideva quindi di ricorrere per Cassazione, affidando le proprie censure a quattro distinti motivi.

I Motivi del Ricorso in Cassazione

L’imputato, tramite il suo difensore, ha contestato la sentenza d’appello sotto diversi profili:

1. Violazione di legge e vizio di motivazione (Art. 496 c.p.): Si sosteneva la mancanza dell’elemento soggettivo del reato, poiché l’imputato si sarebbe rivolto spontaneamente agli agenti, i quali erano intenti a controllare un altro passeggero. La difesa riteneva che non vi fosse la consapevolezza di rispondere a una richiesta formale di un pubblico ufficiale.
2. Nullità della sentenza di primo grado (Art. 178 c.p.p.): Si eccepiva la nullità derivante dal fatto che l’imputato, detenuto per altra causa, era stato dichiarato assente senza aver mai rinunciato a partecipare al processo. Secondo la tesi difensiva, non gravava su di lui alcun onere di comunicare al giudice il proprio stato di restrizione.
3. Dosimetria della pena e recidiva: La difesa lamentava la mancata prevalenza delle attenuanti generiche sulla recidiva contestata, criticando la Corte d’appello per non aver valorizzato la spontanea ammissione degli addebiti e il comportamento collaborativo.
4. Omissione dell’avviso per le pene sostitutive (Art. 545 bis c.p.p.): Infine, si contestava alla Corte territoriale di non aver avvertito l’imputato della facoltà di richiedere l’applicazione di pene sostitutive alla detenzione.

Le motivazioni della Corte di Cassazione sulle false dichiarazioni

La Suprema Corte ha dichiarato tutti i motivi di ricorso infondati, fornendo chiarimenti su ciascuno dei punti sollevati. Per quanto riguarda le false dichiarazioni, i giudici hanno ribadito che il reato si configura pienamente quando un soggetto, interrogato da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, fornisce generalità false. La Corte ha precisato che per l’integrazione del dolo generico è sufficiente la ‘coscienza e volontà della condotta delittuosa’, pienamente presente nel caso di specie, in cui l’imputato ha deliberatamente mentito in seguito a una richiesta degli agenti. Sul secondo motivo, relativo al legittimo impedimento a comparire, la Cassazione ha chiarito un principio fondamentale: sebbene la detenzione per altra causa costituisca un legittimo impedimento, è onere dell’imputato o del suo difensore portare tale circostanza a conoscenza del giudice procedente. Solo quando il giudice ne è edotto, scatta l’obbligo di disporre la traduzione dell’imputato o di rinviare l’udienza. Nel caso in esame, la comunicazione era avvenuta solo all’ultima udienza, e il giudice aveva correttamente disposto la traduzione per quella successiva. In merito alla recidiva, la Corte ha ritenuto adeguata la motivazione della sentenza d’appello, che aveva fondato il giudizio di maggiore pericolosità sociale non su un astratto ‘status’, ma sul concreto rapporto tra il reato attuale e i numerosi precedenti specifici per delitti contro il patrimonio. Infine, è stato respinto anche l’ultimo motivo. La richiesta di pene sostitutive, nel giudizio di appello, deve essere specificamente formulata nei motivi di gravame. In assenza di una tale richiesta, il giudice non ha l’obbligo di pronunciarsi sul punto. Inoltre, la Corte ha sottolineato come la valutazione negativa sulle circostanze attenuanti costituisca una motivazione implicita sul perché non si sarebbe comunque proceduto alla sostituzione della pena.

Conclusioni

La sentenza consolida alcuni principi cardine del diritto penale e processuale. In primo luogo, mentire sulla propria identità a un pubblico ufficiale che la richiede è una condotta che integra il reato di false dichiarazioni, essendo sufficiente la volontà cosciente di fornire un’informazione non veritiera. In secondo luogo, l’imputato che si trovi detenuto per altra causa ha l’onere di informare il giudice del proprio stato per far valere il legittimo impedimento a comparire. In assenza di tale comunicazione, la dichiarazione di assenza è legittima. Infine, l’accesso alle pene sostitutive in appello non è automatico ma è subordinato a una specifica richiesta della parte, sulla quale il giudice è chiamato a decidere.

Quando si configura il reato di false dichiarazioni sull’identità?
Il reato si configura quando una persona, interrogata da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni circa la propria identità o qualità personali, fornisce consapevolmente e volontariamente dichiarazioni non veritiere.

Se un imputato è detenuto per un’altra causa, il processo viene automaticamente rinviato?
No. Affinché il legittimo impedimento dovuto alla detenzione sia rilevante, è necessario che il giudice procedente ne venga a conoscenza. È onere della difesa o dell’imputato stesso comunicare tempestivamente lo stato di restrizione della libertà personale.

Il giudice d’appello è obbligato a valutare l’applicazione di pene sostitutive se non richieste?
No. La sentenza chiarisce che l’applicazione di pene sostitutive nel giudizio d’appello è subordinata a una specifica richiesta formulata nei motivi di ricorso. In assenza di tale richiesta, il giudice non è tenuto a pronunciarsi su questo punto.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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