LexCED: l'assistente legale basato sull'intelligenza artificiale AI. Chiedigli un parere, provalo adesso!

False dichiarazioni: Cassazione chiarisce il reato

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato condannato per il reato di false dichiarazioni a pubblico ufficiale. I giudici hanno confermato che fornire generalità mendaci alla polizia, in assenza di documenti, integra il delitto ex art. 495 c.p. e non una più lieve contravvenzione, respingendo le censure sulla costituzionalità della norma e sulla recidiva.

Prenota un appuntamento

Per una consulenza legale o per valutare una possibile strategia difensiva prenota un appuntamento.

La consultazione può avvenire in studio a Milano, Pesaro, Benevento, oppure in videoconferenza.

02.37901052
8:00 – 20:00
(Lun - Sab)
Pubblicato il 19 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

False dichiarazioni alla polizia: quando è reato? L’analisi della Cassazione

Fornire generalità non veritiere alle forze dell’ordine durante un controllo è un comportamento che può avere conseguenze penali significative. Con l’ordinanza in esame, la Corte di Cassazione si è pronunciata su un caso di false dichiarazioni, chiarendo in modo netto la differenza tra il grave delitto previsto dall’art. 495 del codice penale e altre ipotesi meno severe. La decisione sottolinea come mentire sulla propria identità a un pubblico ufficiale, in assenza di documenti, non sia una leggerezza, ma un reato contro la fede pubblica.

I Fatti del Processo

La vicenda giudiziaria ha origine dalla condanna di un individuo da parte del Tribunale di Genova per il reato di false attestazioni a un pubblico ufficiale sulla propria identità, commesso in tre distinte occasioni. La Corte d’Appello di Genova aveva parzialmente riformato la sentenza, riducendo l’entità della pena ma confermando la responsabilità penale dell’imputato. Contro questa decisione, la difesa ha proposto ricorso per cassazione, sollevando dubbi sulla legittimità costituzionale della norma incriminatrice e sulla sua corretta applicazione al caso di specie.

La questione delle false dichiarazioni: Delitto o Contravvenzione?

Uno dei punti centrali del ricorso riguardava la corretta qualificazione giuridica del fatto. La difesa suggeriva che la condotta dovesse rientrare in ipotesi di reato meno gravi, come quella prevista dall’art. 496 c.p. o addirittura la contravvenzione di cui all’art. 651 c.p. (rifiuto di indicazioni sulla propria identità personale). La Cassazione ha respinto categoricamente questa tesi. I giudici hanno spiegato che la condotta di chi, privo di documenti, fornisce false dichiarazioni sull’identità alla polizia giudiziaria durante un controllo, integra pienamente il delitto di cui all’art. 495 c.p. La ragione risiede nel fatto che, in assenza di altri mezzi di identificazione, quelle parole diventano una vera e propria ‘attestazione’ preordinata a garantire al pubblico ufficiale le proprie qualità personali. Se mendaci, tali dichiarazioni ledono la fede pubblica e costituiscono l’elemento distintivo del reato più grave.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, smontando punto per punto le argomentazioni difensive.

In primo luogo, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 495 c.p. è stata giudicata ‘generica e poco chiara’. I giudici hanno ribadito che la severità della pena è proporzionata alla gravità del reato, un delitto contro la fede pubblica, e che il paragone con la semplice contravvenzione dell’art. 651 c.p. è del tutto ingiustificato.

In secondo luogo, come già accennato, la Corte ha confermato la corretta applicazione dell’art. 495 c.p. richiamando un suo precedente orientamento. Le false dichiarazioni rese in un contesto di controllo, senza documenti, hanno valore di attestazione e non di mera dichiarazione.

Infine, anche la censura relativa all’applicazione della recidiva è stata respinta per genericità. La difesa si era limitata a proposizioni astratte, senza confrontarsi con le specifiche argomentazioni contenute nella sentenza di merito, che la Corte ha invece ritenuto in linea con i principi stabiliti dalle Sezioni Unite.

Le conclusioni: Implicazioni Pratiche della Pronuncia

L’ordinanza della Cassazione ribadisce un principio fondamentale: mentire sulla propria identità a un pubblico ufficiale non è mai una condotta da prendere alla leggera. La pronuncia chiarisce che il contesto e le modalità con cui vengono rese le false dichiarazioni sono decisivi per la qualificazione del reato. Quando un cittadino, privo di documenti, fornisce informazioni false, non sta commettendo una semplice infrazione, ma un delitto che mina la fiducia nell’operato della pubblica amministrazione. Questa decisione serve da monito sull’importanza della veridicità e della cooperazione durante i controlli di polizia, evidenziando le severe conseguenze penali che possono derivare da dichiarazioni mendaci.

Quando mentire alla polizia sulla propria identità diventa un reato grave (delitto) secondo questa ordinanza?
Secondo l’ordinanza, mentire sulla propria identità alla polizia giudiziaria durante un controllo, specialmente se si è privi di documenti, integra il delitto di false dichiarazioni a pubblico ufficiale (art. 495 c.p.). Questo perché tali dichiarazioni, in assenza di altri mezzi di identificazione, assumono il valore di un’attestazione formale, ledendo la fede pubblica.

Qual è la differenza tra il reato previsto dall’art. 495 c.p. e altre ipotesi meno gravi come l’art. 496 c.p. o 651 c.p.?
La Corte chiarisce che l’art. 495 c.p. punisce una ‘falsa attestazione’ che garantisce al pubblico ufficiale qualità personali, costituendo un delitto contro la fede pubblica. L’art. 496 c.p. riguarda false dichiarazioni in generale e l’art. 651 c.p. è una semplice contravvenzione di polizia (rifiuto di dare le proprie generalità). La condotta di chi fornisce false generalità in un controllo, senza documenti, rientra nell’ipotesi più grave.

Perché il ricorso dell’imputato è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché i motivi presentati sono stati ritenuti generici e formulati in modo astratto. In particolare, la questione di legittimità costituzionale era poco chiara e il motivo relativo all’applicazione della recidiva non si confrontava con la specifica motivazione della sentenza impugnata, risultando quindi inefficace.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

Desideri approfondire l'argomento ed avere una consulenza legale?

Prenota un appuntamento. La consultazione può avvenire in studio a Milano, Pesaro, Benevento, oppure in videoconferenza / conference call e si svolge in tre fasi.

Prima dell'appuntamento: analisi del caso prospettato. Si tratta della fase più delicata, perché dalla esatta comprensione del caso sottoposto dipendono il corretto inquadramento giuridico dello stesso, la ricerca del materiale e la soluzione finale.

Durante l’appuntamento: disponibilità all’ascolto e capacità a tenere distinti i dati essenziali del caso dalle componenti psicologiche ed emozionali.

Al termine dell’appuntamento: ti verranno forniti gli elementi di valutazione necessari e i suggerimenti opportuni al fine di porre in essere azioni consapevoli a seguito di un apprezzamento riflessivo di rischi e vantaggi. Il contenuto della prestazione di consulenza stragiudiziale comprende, difatti, il preciso dovere di informare compiutamente il cliente di ogni rischio di causa. A detto obbligo di informazione, si accompagnano specifici doveri di dissuasione e di sollecitazione.

Il costo della consulenza legale è di € 150,00.

02.37901052
8:00 – 20:00
(Lun - Sab)

Articoli correlati