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False dichiarazioni: Cassazione chiarisce i limiti

Due individui hanno collaborato per ingannare la polizia sull’identità di un conducente fuggito a un controllo. Un complice si è presentato, dichiarando di essere il conducente e mostrando i propri documenti. La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per il reato di false dichiarazioni a pubblico ufficiale (art. 495 c.p.), ritenendo il ricorso inammissibile e specificando che tale condotta, finalizzata a una sostituzione di persona, configura pienamente il delitto.

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Pubblicato il 5 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

False dichiarazioni a pubblico ufficiale: quando mentire sull’identità è reato

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 28098 del 2024, ha affrontato un caso complesso di false dichiarazioni a pubblico ufficiale, fornendo chiarimenti cruciali sulla configurabilità del reato previsto dall’art. 495 del codice penale. La pronuncia esamina la condotta di un individuo che, in accordo con un altro, si è falsamente attribuito la guida di un’auto per trarre in inganno le forze dell’ordine. Questa decisione ribadisce principi fondamentali in materia di diritto e procedura penale, definendo i confini tra una semplice menzogna e una condotta penalmente rilevante.

Il caso: un tentativo di ingannare le forze dell’ordine

La vicenda ha origine da un controllo di polizia durante il quale il conducente di un’autovettura, trovato in possesso di sostanze stupefacenti, si dava alla fuga. In un secondo momento, un altro soggetto si presentava agli agenti, esibendo il proprio documento d’identità e dichiarando di essere stato lui alla guida del veicolo.
Le indagini successive hanno però rivelato un accordo tra i due. L’obiettivo era quello di sostituire la persona del vero conducente con quella del complice, per eludere le conseguenze legali. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno condannato entrambi gli imputati per il reato di false dichiarazioni a un pubblico ufficiale sull’identità propria o altrui, in concorso tra loro.

I motivi del ricorso in Cassazione

Gli imputati hanno presentato ricorso alla Corte di Cassazione basandosi su otto distinti motivi, tra cui:

* La violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, sostenendo di essere stati condannati per un fatto diverso da quello contestato.
* La mancata rinnovazione dell’istruttoria in appello per sentire un testimone chiave.
* L’erronea applicazione dell’art. 495 c.p., argomentando che la semplice esibizione di un documento autentico non potesse integrare il reato.
* La contestazione sull’applicazione della recidiva e il mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto e delle pene sostitutive.

L’analisi sulle false dichiarazioni a pubblico ufficiale

Il fulcro della decisione della Cassazione risiede nella corretta interpretazione dell’art. 495 c.p. La difesa sosteneva che il reato non sussistesse, poiché il complice aveva esibito il proprio, autentico, documento d’identità. Tuttavia, la Corte ha specificato che il reato non punisce la falsità del documento, ma la falsità della dichiarazione resa al pubblico ufficiale.
Nel caso di specie, la dichiarazione del complice, supportata dall’esibizione del documento, era finalizzata a ingannare gli agenti sull’identità della persona che stavano cercando, ovvero il conducente del veicolo fuggito. Si è trattato, quindi, di un comportamento volto a sostituire l’identità del vero responsabile, integrando pienamente la fattispecie di reato contestata.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato inammissibili tutti i ricorsi, confermando la condanna. I giudici hanno respinto ogni motivo di doglianza, fornendo una motivazione dettagliata e rigorosa per ciascuno di essi. La sentenza ha consolidato importanti principi giurisprudenziali e ha chiarito l’ambito di applicazione di diverse norme procedurali e sostanziali.

Le motivazioni

La Corte ha ritenuto che la riqualificazione del reato operata in primo grado non avesse leso il diritto di difesa, poiché i fatti materiali erano rimasti immutati e gli imputati avevano avuto piena facoltà di contestare la nuova qualificazione nel giudizio di appello.
Per quanto riguarda la sostanza del reato, i giudici hanno ribadito che il comportamento degli imputati era stato correttamente inquadrato nell’art. 495 c.p., essendo finalizzato a creare una falsa rappresentazione della realtà riguardo all’identità della persona ricercata. La Corte ha sottolineato come il sindacato di legittimità non possa entrare nel merito della ricostruzione dei fatti operata dai giudici dei gradi precedenti, se questa è sorretta da una motivazione logica e coerente, come nel caso in esame.
Infine, sono stati respinti anche i motivi relativi al trattamento sanzionatorio. La recidiva è stata considerata correttamente applicata data la ‘persistente perniciosità sociale’ di uno degli imputati. La richiesta di applicazione della particolare tenuità del fatto è stata giudicata inammissibile per genericità, mentre la mancata concessione delle pene sostitutive è stata ritenuta una scelta discrezionale del giudice, adeguatamente motivata dalla natura del fatto e dalla mancanza di resipiscenza.

Le conclusioni

Con questa sentenza, la Corte di Cassazione rafforza un principio fondamentale: il reato di false dichiarazioni a pubblico ufficiale si configura non solo quando si mente sulla propria identità, ma anche quando si partecipa a un piano per sostituire l’identità di un’altra persona al fine di trarre in inganno l’autorità. La decisione sottolinea inoltre il rigore con cui devono essere formulati i motivi di ricorso, che, se generici o manifestamente infondati, portano a una declaratoria di inammissibilità. Infine, viene ribadita la natura eccezionale della rinnovazione probatoria in appello e il carattere ampiamente discrezionale delle decisioni del giudice di merito sul trattamento sanzionatorio, quando supportate da una motivazione congrua.

Quando mentire su chi era alla guida di un’auto integra il reato di false dichiarazioni a pubblico ufficiale?
Secondo la sentenza, ciò avviene quando la dichiarazione è parte di un piano concordato per sostituire l’identità di una persona con un’altra, al fine di ingannare le autorità che indagano su un illecito. La condotta è penalmente rilevante se finalizzata a far credere che la persona interpellata sia un’altra.

La riqualificazione del reato da parte del giudice in sentenza viola il diritto di difesa?
No. La Corte ha stabilito che il diritto di difesa è garantito anche quando il giudice riqualifica il reato direttamente in sentenza, a condizione che i fatti materiali contestati rimangano invariati e che l’imputato abbia la possibilità di contestare pienamente la nuova qualificazione giuridica tramite l’impugnazione.

La sostituzione della pena detentiva con una pena alternativa, come il lavoro di pubblica utilità, è un diritto dell’imputato?
No, non è un diritto. La sua concessione rientra nel potere discrezionale del giudice, il quale può negarla sulla base di una valutazione complessiva ancorata a parametri legali, come la natura del fatto, la personalità dell’imputato, la mancanza di resipiscenza e il rischio che le prescrizioni non vengano adempiute.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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