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False dichiarazioni a pubblico ufficiale: la Cassazione

Un individuo è stato condannato per aver fornito false generalità ai Carabinieri. La Corte di Cassazione ha rigettato il suo ricorso, confermando che rilasciare **false dichiarazioni** a un pubblico ufficiale durante la redazione di un verbale di identificazione costituisce reato ai sensi dell’art. 495 c.p., poiché tale verbale è un atto pubblico. La Corte ha inoltre ritenuto corretta la valutazione della recidiva basata su un lungo curriculum criminale e ha escluso la non punibilità per particolare tenuità del fatto, data l’intenzione di eludere i controlli.

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Pubblicato il 2 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

False Dichiarazioni a un Pubblico Ufficiale: Quando è Reato?

Fornire generalità errate a un agente di polizia durante un controllo può sembrare un gesto di poco conto, ma le conseguenze legali possono essere significative. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ribadisce un principio fondamentale: le false dichiarazioni rese a un pubblico ufficiale per la stesura di un verbale costituiscono un reato. Questo articolo analizza la decisione, chiarendo quando e perché mentire alle forze dell’ordine integra il delitto previsto dall’art. 495 del codice penale.

I Fatti del Caso

Il caso ha origine dalla condanna di un uomo da parte della Corte di Appello per il reato di cui all’art. 495 c.p. L’imputato aveva fornito false generalità al personale di una stazione dei Carabinieri. Contro questa sentenza, l’uomo ha proposto ricorso in Cassazione, basandolo su tre motivi principali:

1. Natura dell’atto: Sosteneva che la dichiarazione non fosse destinata a un atto pubblico, elemento necessario per configurare il reato.
2. Recidiva: Contestava la correttezza della valutazione sulla sua recidiva, ritenuta ingiustificata.
3. Tenuità del fatto: Lamentava la mancata applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.).

La Decisione della Corte di Cassazione sulle false dichiarazioni

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso manifestamente infondato, rigettando tutte le argomentazioni della difesa e confermando la condanna. Vediamo nel dettaglio le ragioni giuridiche alla base della decisione.

Il Verbale di Identificazione è un Atto Pubblico

Il punto centrale della controversia riguardava la natura giuridica del verbale di identificazione redatto dai Carabinieri. La Cassazione, in linea con la sua giurisprudenza consolidata, ha affermato senza esitazioni che integra il reato di false dichiarazioni a un pubblico ufficiale la condotta di chi fornisce generalità non veritiere alla polizia durante la redazione di un verbale di identificazione.

Questo perché tali dichiarazioni diventano parte integrante del verbale stesso, il quale è a tutti gli effetti un atto pubblico. La Corte ha richiamato precedenti sentenze che confermano questo orientamento, stabilendo che la menzogna in tale contesto lede la fede pubblica che deve assistere l’attività documentale dei pubblici ufficiali.

La Valutazione sulla Recidiva

Anche il secondo motivo di ricorso è stato respinto. La Corte ha ritenuto che la pronuncia impugnata avesse adeguatamente motivato l’applicazione della recidiva. I giudici di merito avevano evidenziato come dal certificato penale dell’imputato emergesse un lungo e ininterrotto curriculum criminale, con numerosi delitti commessi in un arco temporale di oltre trent’anni (dal 1982 al 2014). Questa continuità nel commettere reati è stata considerata una ragione più che sufficiente per giustificare l’aggravante della recidiva.

Le Motivazioni della Sentenza e il suo impatto

La motivazione della Corte si fonda su una netta distinzione tra una dichiarazione informale e una dichiarazione formalizzata in un atto ufficiale. Quando un cittadino fornisce le proprie generalità a un pubblico ufficiale che le sta verbalizzando, quelle parole acquisiscono una rilevanza giuridica superiore. Il verbale di identificazione è uno strumento fondamentale per l’attività di polizia e la sua veridicità è tutelata penalmente.

Inoltre, la Corte ha considerato inammissibile la richiesta di applicare l’art. 131-bis c.p. (tenuità del fatto). La sentenza di merito aveva correttamente sottolineato che il comportamento dell’imputato non poteva essere considerato ‘tenue’. La ragione è che lo scopo delle false dichiarazioni era quello di eludere un doveroso controllo di polizia. Tale finalità elusiva conferisce al fatto una gravità intrinseca che osta all’applicazione della causa di non punibilità.

Conclusioni

L’ordinanza in esame consolida un importante principio di diritto: mentire alle forze dell’ordine durante procedure formali come un’identificazione non è mai un’azione priva di conseguenze. La decisione chiarisce che il verbale redatto in queste circostanze è un atto pubblico, e alterarne il contenuto con informazioni false integra pienamente il reato previsto dall’art. 495 del codice penale. Questa pronuncia serve da monito sull’importanza della lealtà e della correttezza nei rapporti con le autorità, sottolineando che anche condotte apparentemente minori possono avere serie ripercussioni penali, soprattutto se finalizzate a ostacolare l’attività di controllo dello Stato.

Fornire false generalità alla polizia durante un controllo è reato?
Sì. La Corte di Cassazione ha confermato che questa condotta integra il reato di false dichiarazioni a un pubblico ufficiale (art. 495 c.p.), poiché le generalità vengono inserite in un verbale di identificazione, che è considerato un atto pubblico.

Perché in questo caso non è stata applicata la non punibilità per ‘particolare tenuità del fatto’?
La Corte ha ritenuto che il reato non fosse di lieve entità perché l’imputato ha fornito le false dichiarazioni con lo scopo specifico di eludere un controllo di polizia. Questa finalità è stata considerata sufficientemente grave da escludere l’applicazione dell’art. 131-bis del codice penale.

Come è stata giustificata l’applicazione della recidiva?
La recidiva è stata ritenuta applicabile sulla base del certificato penale dell’imputato, dal quale risultava una lunga serie di delitti commessi in un arco temporale di oltre trent’anni, delineando un ‘ininterrotto curriculum criminale’ che giustificava l’aggravante.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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