Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 8619 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 8619 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 24/01/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOME, nato a Monastir il DATA_NASCITA COGNOME NOME, nato a Decimoputzu il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 30/05/2023 della Corte di appello di Cagliari;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Cagliari, riformando parzialmente la sentenza di primo grado, escludeva la provvisionale accordata alla parte civile e confermava nel resto la condanna degli imputati per falsa
testimonianza (art. 372 cod. pen.) perché, deponendo come testimoni nel giudizio davanti alla Sezione lavoro del Tribunale ordinario, avevano falsamente affermato di non conoscere NOME COGNOME e di non averlo mai visto lavorare per il NOME COGNOME.
Avverso la sentenza hanno presentato ricorso gli imputati, per il tramite del comune difensore, AVV_NOTAIO, precisando che la supposta falsa testimonianza sarebbe stata resa nell’ambito di un contenzioso giudiziario instaurato da NOME COGNOME.
Questi, infatti, aveva presentato ricorso dinanzi al Tribunale di Cagliari, Sezione lavoro, sostenendo di aver lavorato dal 1999 al giugno 2002, come bracciante, alle dipendenze di NOME COGNOME e poi, senza soluzione di continuità e fino al 2011, alle dipendenze del figlio di lui, NOME COGNOME, ogni settimana, dal lunedì al venerdì, per otto ore al giorno, chiedendo pertanto al datore di lavoro di versare i contributi in suo favore.
Chiamati a testimoniare davanti al giudice, i due imputati, dipendenti della ditta RAGIONE_SOCIALE, avevano dichiarato di non aver mai visto NOME COGNOME.
Ciò detto e posto, altresì, che determinante risulta la questione relativa al periodo durante il quale i ricorrenti sono stati impiegati alle dipendenze della ditta RAGIONE_SOCIALE, sono stati presentati i seguenti due motivi.
2.1. Mancata assunzione di prova decisiva di cui il difensore aveva fatto richiesta nel corso dell’istruzione dibattimentale e in sede di motivi d’appello.
Su istanza della parte civile, il Giudice di primo grado ha acquisito agli atti del processo il fascicolo del Tribunale di lavoro: acquisizione dovuta perché detto fascicolo costituisce corpo del reato.
Il difensore degli imputati, resosi conto che gli atti erano incompleti perché mancavano le produzioni del convenuto e, soprattutto, le dichiarazioni rese dal teste NOME COGNOME al Maresciallo dei Carabinieri, nonché la testimonianza dell’ispettrice NOME COGNOME, aveva chiesto l’acquisizione di tali documenti, ma la parte civile si era opposta e il Giudice non ne autorizzava l’acquisizione per mancanza del consenso, nonostante vi fosse tenuto perché il fascicolo costituiva corpo del reato.
La prova era inoltre decisiva.
Ribadito che gli imputati sono stati accusati di non aver visto nel 2010 NOME COGNOME lavorare per NOME COGNOME, dalla testimonianza resa dall’ispettrice COGNOME risultava, infatti, che il COGNOME cessò di lavorare per COGNOME nel 2003, e cioè molto prima che fossero assunti gli imputati (COGNOME nel 2008; COGNOME nel 2010).
Contrariamente a quanto affermato dalla parte civile, continuano i ricorrenti, il Tribunale del lavoro non aveva accertato che NOME COGNOME avesse lavorato
alle dipendenze di NOME COGNOME dal 1999 all’agosto 2011 e non aveva trasmesso una richiesta all’RAGIONE_SOCIALE perché il datore di lavoro versasse i contributi in favore della parte civile.
2.2. Contraddizione tra la sentenza emessa dalla Corte d’appello e gli atti del processo.
Premesso che, secondo l’insegnamento del giudice di legittimità, è opportuno che le dichiarazioni della persona offesa, ove la stessa si sia costituita parte civile, siano riscontrate, NOME COGNOME aveva dichiarato di aver lavorato senza soluzione di continuità, dal 1999, come bracciante, alle dipendenze dell’azienda di NOME COGNOME cui, nel 2002, era succeduto il figlio NOME COGNOME.
Ciò, tuttavia, non poteva essere vero, dal momento che, come attestato dalla RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME aveva chiesto la cancellazione della ditta nel 2001, ovverosia poco prima di morire, e la ditta era stata effettivamente cancellata il 15/10/2001. Pertanto, NOME COGNOME nulla poteva aver trasferito al figlio NOME.
L’ispettrice del lavoro NOME COGNOME ha dichiarato, sotto giuramento, di aver acquisito le dichiarazioni testimoniali di quattro testimoni da cui è emerso che NOME COGNOME ha cessato di lavorare nel 2003 e di non aver proceduto a sanzionare la ditta RAGIONE_SOCIALE perché, al momento dell’accertamento, nel 2011, i fatti relativi al 2003 erano prescritti.
Non esiste discrasia tra la deposizione di NOME COGNOME, riportata nel verbale ispettivo, e la dichiarazione dal medesimo fatta in qualità di testimone, poiché l’uso della locuzione «da un anno», anziché «dopo un anno» (riportata nel verbale), è stato frutto di un errore materiale, come chiarito nella testimonianza di COGNOME, che redasse il suddetto verbale e che, sotto giuramento, affermò che i testi da lei sentiti, tra cui NOME COGNOME, avevano affermato che NOME COGNOME aveva lavorato per la ditta soltanto fino al 2003.
Inoltre, la Corte non ha considerato che, all’udienza del 21/09/2018, la parte civile avesse dichiarato di avere visto gli imputati nell’azienda da lontano, in quanto potatori che venivano assunti annualmente per circa un mese; ha poi precisato di averli visti nell’atto di potare gli alberi mentre lui si trovava all’inte della serra, e soltanto nel 2010.
Alla Corte d’appello è parso inverosimile che gli imputati, lavorando centocinquanta ore all’anno nella stessa azienda, non avessero mai notato NOME COGNOME. Ancor più inverosimile avrebbe dovuto, però, ritenere il fatto che NOME COGNOME non conoscesse il nome dei colleghi i quali, secondo lui, lavorarono al suo fianco per sette mesi l’anno, dal 2008 al 2011, e che li abbia invece notati soltanto nel 2010.
Né la persona offesa ha mai dichiarato di essere stata vista, a sua volta, dai ricorrenti.
Per un verso, quindi, le dichiarazioni della persona offesa sono poco credibili; per altro verso, è illogico che la Corte d’appello, nell’attribuire rilievo a t dichiarazioni, ritenga invece quelle degli imputati, dei testi ascoltati dall’ispettri NOME COGNOME e le affermazioni della stessa COGNOME, vieppiù considerato che gli ispettori del lavoro sono ufficiali di polizia giudiziaria e ch quindi le loro dichiarazioni fanno fede fino a querela di falso.
Disposta la trattazione scritta del procedimento, ai sensi dell’art. 23, comma 8, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. dalla I. 18 dicembre 2020, e successive modificazioni, in mancanza di richiesta, nei termini ivi previsti, di discussione orale, il AVV_NOTAIO generale ha depositato conclusioni scritte, come in epigrafe indicate.
La parte civile NOME COGNOME, per il tramite dell’AVV_NOTAIO di San Filippo, ha presentato una memoria scritta in cui ha rilevato, in via preliminare, l’inammissibilità della produzione di nuove prove, rappresentate dall’allegazione di documenti relativi al giudizio del lavoro, in quanto tardive ed erroneamente ritenute, nel ricorso, corpo del reato (laddove, per contro, sono corpo del reato soltanto le dichiarazioni testimoniali rese dai due imputati nel procedimento civile).
Peraltro, il ricorrente non risulta aver richiesto, in primo grado, l’acquisizione della documentazione indicata nel ricorso.
Quanto invece alle dichiarazioni del teste COGNOME, in realtà, esse erano state acquisite in primo grado; mentre il verbale ove risulta sentita l’ispettrice COGNOME non fu prodotto su espresso rifiuto proprio della difesa.
Né il ricorso spiega per quale ragione le dichiarazioni dell’ispettrice COGNOME e del teste COGNOME dovrebbero avere rilevanza probatoria maggiore rispetto all’esame degli stessi testi reso in sede dibattimentale e quindi nel rispetto del contraddittorio.
In merito all’asserita contraddittorietà della sentenza della Corte d’appello, in realtà, è il ricorso – che si limita a proporre una rilettura delle risultanze probatori di primo grado – a non confrontarsi con la motivazione, compiuta e coerente, della Corte d’appello, che ha attentamente valutato le dichiarazioni della parte offesa utilizzando elementi di riscontro.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
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Invertendo l’ordine impresso dal ricorrente ai motivi di ricorso, la dedotta contraddizione tra la motivazione della sentenza impugnata e gli atti del procedimento si risolve, invero, nella sollecitazione di questa Corte affinché svaluti la credibilità della persona offesa sulla base di una ricostruzione dei fatti alternativa rispetto a quella compiuta nei due giudizi di merito.
L’eccezione non è ammissibile davanti alla Corte di legittimità, vieppiù considerato che la motivazione della sentenza impugnata è puntuale e tutt’altro che illogica o contraddittoria.
2.1. Nel concludere che «i due imputati, sebbene venissero chiamati ogni anno per periodi brevi in occasione della potatura delle piante, conoscevano la parte civile e lo avevano certamente visto in azienda proprio perché vi aveva lavorato con regolarità tutti i mesi dell’anno, dal lunedì al venerdì» – e ciò «sia dentro le serre che all’aperto» – si premette, infatti, come i giudici di primo grado, oltre a ritenere coerente e perfettamente credibile il racconto della persona offesa, vi avessero rinvenuto riscontri nelle deposizioni di COGNOME, COGNOME (nipote di COGNOME) e COGNOME, motivando le ragioni per cui avevano ritenuto credibili tali deposizioni e, per contro, inattendibili i testi della difesa (COGNOME, NOME COGNOME, altro fratello del datore di lavoro, NOME, NOME e COGNOME, fratello di un imputato).
Quanto poi alle dichiarazioni dell’ispettrice del lavoro COGNOME, si afferma che la stessa, citata ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen., precisò che, poiché diversi testi da lei sentiti avevano confermato che COGNOME aveva lavorato per molti anni in nero per conto di NOME COGNOME e, prima, del padre NOME COGNOME, ritenendo fondate le pretese del lavoratore, trasmise la pratica all’RAGIONE_SOCIALE per competenza.
Più nello specifico, dalle sentenze di merito risulta come COGNOME avesse spiegato che, dopo l’infruttuosa verifica dei documenti aziendali (in cui non trovò traccia della denuncia del rapporto lavorativo del COGNOME), tra maggio e giugno 2012 raccolse le dichiarazioni spontanee di alcuni ex lavoratori (COGNOME e COGNOME) nonché di NOME COGNOME, all’epoca ancora in forze nell’azienda agricola, precisando che tutti avevano confermato la presenza di COGNOME quale bracciante agricolo impiegato in nero per lungo tempo presso l’azienda, ed aggiungendo che era stato proprio COGNOME a ricordare perfettamente che questi aveva cessato di lavorare nel 2011.
In base a quanto riportato, non corrisponde al vero, dunque, che – come sostiene il ricorrente – l’ispettrice del lavoro affermò che COGNOME aveva lavorato presso la ditta solo fino al 2003.
Al contrario, ella testimoniò come, avendo motivo di ritenere che la persona offesa avesse lungamente lavorato presso quella ditta e non essendovi traccia, nella contabilità, della sua posizione, si fosse risolta ad attivare la pratic all’RAGIONE_SOCIALE.
D’altronde, con riguardo al momento finale del rapporto lavorativo di COGNOME con la ditta RAGIONE_SOCIALE, la sentenza di primo grado (pag. 7, nota 30) aveva già specificato come uno dei testi sentiti dall’ispettrice avesse riferito che, sebbene licenziato nel 2003, passava di fronte all’ex luogo del lavoro quasi tutti i giorni, così notando che COGNOME aveva continuato a lavorarvi anche negli anni successivi e, molto probabilmente, fino al 2012.
Quanto poi a COGNOME, nella sentenza impugnata si ribadisce che questi, sentito a distanza di poco tempo dai fatti dagli ispettori del lavoro (nel 2012), precisò che COGNOME aveva smesso di lavorare presso tale azienda circa un anno prima, e quindi nel 2011 (circostanza confermata dal nipote del querelante, che aveva ricordato come il lavoro dello zio fosse cessato nell’agosto del 2011, a causa del rifiuto opposto da COGNOME alla richiesta di regolarizzarne la posizione lavorativa), ritenendosi, d’altronde, poco plausibile che la persona offesa si fosse attivata per regolarizzare una posizione lavorativa che sarebbe invero cessata da tanti anni.
La Corte di appello ha pure spiegato che COGNOME rinnegò le sue dichiarazioni, ma che non fu ritenuto credibile.
In particolare, ha precisato che, a distanza di cinque anni e dopo l’iscrizione del procedimento penale a carico dei suoi colleghi, COGNOME mutò una prima volta la sua versione dei fatti e, sentito come teste della difesa nell’ambito di indagini difensive – depositate solo al giudice del lavoro e mai nella segreteria del Pubblico Ministero -, sostenne che la persona offesa aveva cessato di lavorare nel 2004.
La Corte d’appello ha poi aggiunto che, sentito nuovamente dinanzi al Tribunale, cambiò ancora versione, affermando che gli imputati non potevano aver visto COGNOME lavorare in azienda giacché vi avevano fatto ingresso quando quest’ultimo non vi stava più. Sicché, in ragione delle numerose contraddizioni, il verbale delle dichiarazioni di COGNOME fu trasmesso dal Tribunale, al pari di quello degli imputati, al pubblico ministero.
2.2. Una volta escluso che la motivazione della sentenza di appello sia viziata nella parte in cui ha ritenuto credibili le dichiarazioni della persona offesa ed ha accertato che i due imputati lavorarono per COGNOME anche negli anni in cui COGNOME era alle sue dipendenze, emerge la manifesta infondatezza anche delle deduzioni relative all’asserita coincidenza tra quanto riferito e quanto percepito dai testimoni, coincidenza che avrebbe negato la tipicità della condotta.
Come puntualmente e coerentemente argomentato dai Giudici di secondo grado, infatti, è impossibile che gli imputati non sapessero di essere colleghi: «Le modeste dimensioni dell’azienda e le modalità di svolgimento del lavoro, con presenza contestuale in azienda per molte ore durante la giornata consentono di desumere che tutti i braccianti si conoscessero e fossero reciprocamente al corrente di lavorare per la medesima azienda e alle dipendenze del medesimo
datore di lavoro», mentre la fragilità della prospettazione difensiva è confermata dalle dichiarazioni del fratello del datore di lavoro (NOME COGNOME), il quale riferì ch COGNOME si era licenziato perché non voleva essere regolarizzato: «affermazione intrinsecamente contraddittoria rispetto all’iniziativa assunta dalla persona offesa, dapprima davanti all’ispettorato del lavoro e poi in sede giudiziaria, perché gli fossero invece riconosciuti i suoi diritti di lavoratore subordinato».
A fronte di tali precisazioni – è il caso di aggiungere -, a nulla varrebbe la dedotta cancellazione della ditta di COGNOME, avendo l’istruttoria dibattimentale ampiamente provato che, comunque, l’attività imprenditoriale continuò ad essere svolta, negli anni successivi e senza soluzione di continuità, da NOME COGNOME, figlio di NOME.
Passando, inoltre, al primo motivo di ricorso, e cioè all’omessa acquisizione delle parti mancanti del verbale dell’ispettrice del lavoro NOME, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, tale verbale non costituisce affatto “corpo del reato”, rappresentando soltanto un elemento alla cui stregua valutare le dichiarazioni testimoniali dei due imputati.
L’acquisizione della documentazione non era, pertanto, doverosa.
Tanto premesso, i giudici dell’appello hanno dato atto che il difensore degli imputati aveva presentato motivi nuovi in cui aveva chiesto (ex art. 585 cod. proc. pen.) la rinnovazione dell’istruttoria con l’acquisizione del verbale dell’udienza del 06/06/2019, con le più volte citate deposizioni dell’ispettrice del lavoro NOME COGNOME, rinnovando la richiesta prima del giudizio di appello. Ed è vero che non hanno motivato il diniego della rinnovazione dibattimentale.
Tuttavia, in disparte ogni rilievo sulla non dimostrata decisività del verbale in oggetto, resta il fatto che la rinnovazione è stata chiesta dagli imputati per la prima volta nei motivi aggiunti di appello e che essa non presentava legami funzionali con le deduzioni oggetto dei motivi principali, il che ostava alla considerazione degli stessi (ex multis, Sez. 6, n. 45075 del 02/10/2014, COGNOME, Rv. 260666; Sez. 1, n. 5182 del 15/01/2013, Vatavu, Rv. 254485). Va da sé, dunque, che la mancata risposta ad una deduzione inammissibile in appello non vizia il provvedimento impugnato, non essendo ammissibile, per carenza d’interesse, il ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado che non abbia preso in considerazione un motivo di appello a sua volta inammissibile ab origine per manifesta infondatezza, in quanto l’eventuale accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio (tra le tante, Sez. 3, n. 46588 del 03/10/2019, Bercigli, Rv. 277281).
7 GLYPH
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Alla dichiarazione di inammissibilità consegue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento delle somme indicate nel dispositivo, ritenute eque, in favore della Cassa delle ammende, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Condanna, inoltre, gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile NOME COGNOME, ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Cagliari con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 d.P.R. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato.
Così deciso il 24/01/2024