Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 21074 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 21074 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 09/04/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da COGNOME NOME, nato a Palermo il DATA_NASCITA COGNOME NOME, nata a Palermo il DATA_NASCITA COGNOME NOME, nato a Palermo il DATA_NASCITA COGNOME NOME, nato a Palermo il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 02/05/2023 della Corte di appello di Palermo
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO Procuratore generale NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio per COGNOME NOME e COGNOME NOME per intervenuta prescrizione dei reati loro rispettivamente ascritti ai capi D) e F) e l’inammissibilità dei ricorsi COGNOME NOME e COGNOME NOME;
udite le conclusioni dei difensori avv. NOME COGNOME per COGNOME, AVV_NOTAIO. NOME COGNOME per COGNOME, AVV_NOTAIO. NOME COGNOME per COGNOME e AVV_NOTAIO. NOME COGNOME per COGNOME, che hanno concluso per l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Palermo ha confermato la sentenza emessa il 14 ottobre 2020 dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Palermo con la quale, all’esito di giudizio abbreviato, era stata affermata la responsabilità d COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOME e COGNOME NOME per i reati di falsa testimonianza e per il COGNOME anche per il delitto di calunnia nei confronti dei carabinieri, che ne avevano verbalizzato le sommarie informazioni rese il 26 dicembre 2012.
Il processo ha ad oggetto le dichiarazioni rese dagli imputati nel corso del procedimento svoltosi dinanzi alla Corte di assise di Palermo a carico di COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, condannati per l’omicidio di COGNOME NOME, ritenute false per palese contrasto con il contenuto delle intercettazioni e con la realtà dei fatti, come accertata nel processo di assise.
In particolare, al COGNOME si contesta di aver negato di aver assistito all’omicidio, mentendo sull’orario in cui lo COGNOME si era allontanato dal chiosco del COGNOME, prima di lui e degli altri presenti, compresi gli autori dell’omicidio, e s movimenti della vittima, invece, riferiti nel verbale di sommarie informazioni, nonché sostenendo di essere certo di non averlo fatto e di aver firmato senza leggere, in tal modo accusando i carabinieri di falso in atto pubblico (capo B); di aver mentito platealmente sul suo stato psicofisico dopo l’omicidio e sul senso di frustrazione provato per aver assistito all’omicidio, oggetto di commenti con il COGNOME, che invece, risultavano pacificamente dalle conversazioni intercettate (capo A); alla COGNOME si contesta al capo D) di aver negato che il COGNOME, dopo averla condotta sul luogo di ritrovamento del cadavere dello COGNOME, si era messo a ridere, riferendo, invece, di averne visto gli occhi lucidi; al COGNOME si contesta al capo E) di aver mentito sull’orario e sui movimenti della vittima, affermando, contrariamente al vero, che la vittima si era già allontanata dal chiosco del COGNOME quando lui era andato via intorno alle 18.35; al COGNOME si contesta al capo F) di avere negato di aver assistito all’omicidio, affermando che la vittima era andata via prima di lui e negando di aver commentato con il COGNOME il loro stato di frustrazione per aver assistito all’omicidio e per essere stati coinvolt nelle indagini.
Avverso la sentenza hanno proposto ricorso tutti gli imputati.
Nell’interesse di NOME COGNOME il difensore articola due motivi.
2.1. Con il primo deduce l’erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 372 e 368 cod. pen. e alla mancata applicazione dell’art. 384 cod. pen. nonché la carenza e l’illogicità della motivazione.
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I)
La sentenza è censurabile per mancata applicazione dell’art.384 cod. pen., ma anche dell’art. 54 cod. pen., nonostante la stessa Corte di assise avesse affermato che il ricorrente aveva subito numerose minacce dagli autori dell’omicidio, risultanti dalle conversazioni intercettate dalle quali emergeva la forte preoccupazione del COGNOME e del COGNOME per la posizione del ricorrente che aveva assistito all’omicidio ed era stato destinatario dei loro avvertimenti. Si menzionano passaggi della sentenza della Corte di assise in cui erano riportati stralci di colloqui intercettati dai quali risultava la pressione esercitata COGNOME sul COGNOME per non rivelare la dinamica dell’omicidio o il commento del COGNOME sull’eccessivo dimagrimento del ricorrente e il timore che potesse aver parlato anche delle loro minacce e si attribuisce rilievo alla considerazione espressa sulla deposizione del COGNOME e del COGNOME, ritenendole frutto della paura e della intimidazione subita.
Considerazioni analoghe valgono per la calunnia ai danni dei verbalizzanti, ricorrendo anche in tal caso lo stato di necessità per le minacce dirette e specifiche subite dal ricorrente, che non aveva inteso accusare i carabinieri di aver scritto il falso, ma soltanto affermato di non essere stato attento quando gli era stato riletto il verbale. Si sostiene che in entrambi i casi ricorre l’attualità del pericolo, la necessità di salvare sé stesso dal pericolo e il grave danno alla persona.
2.2. Con il secondo motivo si denunciano la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, motivato dal riferimento ad una personalità negativa e all’assenza di elementi favorevoli, ignorando gli elementi indicati nell’appello.
Il difensore di COGNOME NOME formula due motivi, deducendo:
3.1. violazione di legge e illogicità della motivazione in relazione all’art. 372 cod. pen. per inidoneità della testimonianza ad incidere sulla decisione e a fuorviarla.
La ricorrente ha riferito ciò che ricordava e quanto riferito non ha avuto alcuna efficacia per la posizione del COGNOME, asseritamente favorito dalla deposizione dell’imputata, atteso che la mera alterazione descrittiva dello stato d’animo del COGNOME, che, anziché essere dispiaciuto, avrebbe mostrato compiacimento per la morte dello COGNOME, non poteva in alcun modo condizionare o orientare la decisione. La ricorrente ha riferito una sua personale impressione, irrilevante ai fini del convincimento della Corte di assise, specie in presenza di un elemento di prova più efficace quale la conversazione tra la ricorrente e il COGNOME intercettata in ambientale;
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3.2. violazione di legge e mancanza di motivazione in relazione all’art. 49 cod. pen. per assoluta inidoneità del narrato testimoniale a ledere l’interesse tutelato dalla norma, atteso che il contenuto del narrato risulta neutralizzato dal contenuto nel colloquio intercettato.
Il difensore di NOME formula le seguenti censure.
4.1. Con il primo motivo denuncia plurimi vizi della motivazione.
La Corte di appello si è limitata a riportare pedissequamente quanto scritto dalla Corte di assise senza operare alcuna valutazione critica, individuando la falsità nella circostanza dell’allontanamento dello NOME dal chiosco del COGNOME prima che lui stesso andasse via alle 18.35, dopo essere stato chiamato dalla moglie; le discrasie individuate e rilevate in sentenza non tengono conto dei tempi diversi in cui le dichiarazioni furono rese e della distanza dal fatto, ma, soprattutto, della circostanza che il ricorrente non ha mai escluso la presenza del COGNOME e del COGNOME dal luogo dell’omicidio. Ancora non si è considerata l’affermazione della Corte di Assise sulla intimidazione e sulle minacce subite dal ricorrente, ritenuto un soggetto scomodo dagli autori dell’omicidio, che in tal modo dimostravano di ritenere che se avesse assistito all’omicidio avrebbe potuto riferirlo agli investigatori. Comparando le dichiarazioni rese in udienza e le sommarie informazioni non riferì né escluse che la vittima si trovasse nelle vicinanze del chiosco quando egli andò via, sicché non vi è prova del mendacio.
4.2. Con il secondo motivo deduce la violazione di legge per mancata applicazione dell’art. 384 cod. pen., nonostante gli stessi giudici della Corte di Assise avessero dato atto del clima di intimidazione e minacce e di paura che attanaglia i testimoni e che, valutato insieme alle atroci modalità dell’omicidio, indica chiaramente lo stato d’animo del ricorrente chiamato a deporre in udienza.
Il difensore di COGNOME NOME formula i seguenti motivi.
5.1. Con il primo motivo denuncia l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 192 cod. proc. pen. e 372 cod. pen. nonché vizi della motivazione.
La Corte di appello ha fondato la decisione solo sulle valutazioni della Corte di Assise nel processo per l’omicidio senza aggiungere autonome considerazioni e trascurando che le prove a carico degli autori dell’omicidio emergevano da altre fonti, a nulla rilevando la testimonianza del ricorrente, per quanto contraddittoria e poco credibile. Per la sussistenza del reato è necessario il pericolo che sia fuorviato il convincimento del giudice, escluso se la testimonianza riguardi circostanze irrilevanti ai fini del decidere, come nel caso di specie; il mendacio è ricavato dal confronto tra le dichiarazioni e alcune conversazioni intercettate che non provano che il ricorrente mentisse sulla sua presenza al momento
dell’omicidio, ma hanno ad oggetto commenti sull’aspetto fisico del NOME o considerazioni personali della cognata e della madre del ricorrente sul suo stato d’animo.
5.2. Violazione ed errata applicazione degli artt. 63, 192 cod. proc. pen. nonché assenza di motivazione sulla richiesta derubricazione del reato di falsa testimonianza in quello di cui all’art. 371 bis c.p.
Si sostiene che le dichiarazioni rese in dibattimento coincidono con quelle rese in fase di indagini quando fu sentito per ben quattro volte, sicché se già le prime dichiarazioni erano ritenute false, deve ritenersi integrato il diverso reato indicato e, tenuto conto che la falsità è stata ravvisata nel contrasto con le intercettazioni ambientali, dovevano essere interrotte; inoltre, trattandosi di dichiarazioni assunte in violazione dell’art. 63 cod. pen., il ricorrente doveva essere sentito in dibattimento come testimone assistito con facoltà di non rispondere.
5.3. Violazione dell’art. 62 bis e illogicità della motivazione per non avere la Corte di appello specificato le ragioni del diniego delle attenuanti generiche con incidenza sulla pena da infliggere nel minimo in assenza di elementi ostativi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono inammissibili per genericità, risultando i motivi meramente reiterativi di censure già proposte in appello e disattese dai giudici di merito con adeguata motivazione con la quale i ricorsi non si confrontano, tentando di spostare il fuoco dei rilievi critici sullo stato di necessità piuttosto sull’esimente di cui all’art. 384 cod. pen., la cui applicazione è stata esclusa con corrette argomentazioni (pag. 3-4 sentenza impugnata).
1.1. E’, infatti, agevole rilevare che i ricorsi, ad eccezione di quell proposto nell’interesse della COGNOME, ripropongono il tema dell’esimente di cui all’art. 384 cod. pen., nonostante i giudici di merito avessero correttamente chiarito che in tema di falsa testimonianza il timore di subire conseguenze pregiudizievoli per la propria vita o per la propria incolumità non rientra nella previsione normativa, essendo l’applicazione della causa di non punibilità limitata ai soli casi in cui il testimone possa subire un inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore, che, comunque, nessun imputato aveva provato di aver subito.
In tale prospettiva la sentenza chiarisce l’irrilevanza della denunciata erronea lettura delle risultanze istruttorie, stante l’impossibilità di estender l’applicabilità dell’esimente prevista dall’art. 384 cod. pen. anche ai casi d nocumento all’incolumità fisica, specificamente prevista dall’esimente dello stato
di necessità, per il rapporto di specialità con i delitti contro l’attività giudiz che ne delimitano l’ambito alla certezza del verificarsi dell’evento di danno.
1.2. Facendo corretta applicazione dei principi affermati sul punto, i giudici di appello hanno, comunque, escluso la possibilità di ravvisare nel caso di specie la scriminante dello stato di necessità per la mancanza di un pericolo attuale e non altrimenti evitabile di subire conseguenze per la propria incolumità fisica, non essendo sufficiente il mero timore o la circostanza che il testimone si senta minacciato, poiché il dovere di testimoniare non può subire deroghe di fronte al pericolo di intimidazioni. Questa Corte ha, infatti, precisato che il timore per eventuali ritorsioni dipendenti dalla testimonianza può rilevare ai fini del riconoscimento della scriminante dello stato di necessità ex art. 54 cod. pen., qualora sussista una situazione di pericolo concreto ed attuale, non essendo sufficiente che il teste si senta minacciato (Sez. 6, n. 7006 del 08/01/2021, Di Sanzo, Rv. 280840).
Sul punto non è ravvisabile la contraddizione denunciata dai ricorrenti, che fanno leva sul contenuto dei colloqui intercettati e sulla condizione di frustrazione e di paura del COGNOME e del COGNOME, riconosciuta nella sentenza della Corte di assise, in quanto correlata alla circostanza di avere assistito all’omicidio e d sentirsi minacciati per essere stati chiamati a rendere dichiarazioni.
Correttamente la sentenza impugnata rimarca l’inesistenza di un principio etico o giuridico che legittimi la falsa testimonianza per il timore di subir pregiudizio alla propria incolumità personale, essendovi, anzi, l’opposto interesse sotteso all’obbligo civico di collaborare con la giustizia anche nei casi in cui ci possa esporre il testimone a pericolo di vita, avendo lo Stato il compito di tutelarlo.
La motivazione resa si colloca, pertanto, nel solco del consolidato orientamento secondo il quale perché sussista lo stato di necessità occorre che l’azione costituente reato sia determinata non solo dalla incombenza di un pericolo grave, cui l’agente non abbia dato causa, ma anche dalla imminenza e dalla attualità del pericolo stesso di guisa che l’agente non abbia, in quel momento, altra scelta all’infuori di quella di subire il conseguente danno o di porre in essere l’azione che gli si imputa come reato e sempre che tra il pregiudizio temuto e l’azione di difesa sussista un giusto rapporto di proporzione (Sez. 6, n. 24255 del 16/03/2021, Deji, Rv. 281526; Sez. 4, n. 8471 del 29/03/1973, COGNOME, Rv. 125559).
Come anticipato, i ricorsi, che ripropongono motivi comuni solo formalmente deducibili, sono inammissibili, in quanto versati in fatto e diretti a sollecitare una non consentita rilettura del materiale probatorio, mirata a
sostenere la sussistenza di situazioni di fatto integranti la condizione di forte intimidazione subita dai ricorrenti ad opera degli autori dell’omicidio, in tal modo nuovamente riportando le censure sul tema dell’esimente e dello stato di necessità appena trattato.
Escluso che il sindacato di legittimità possa consistere in una revisione del giudizio di merito, va rilevato che la falsità delle dichiarazioni rese dibattimento dai ricorrenti risulta coerentemente ricavata dal contrasto tra le affermazioni rese e la ricostruzione dell’omicidio contenuta nella sentenza della Corte di assise nonché dal contrasto con il contenuto delle intercettazioni, da cui si ricava che il COGNOME e il COGNOME erano sul luogo dell’omicidio insieme agli assassini COGNOME e COGNOME e avevano assistito all’omicidio al punto da cadere in un profondo stato di sconforto e depressione. Analogo rilievo è stato attribuito all’insistente e pervicace negazione delle circostanze di fatto contestate dal Pubblico ministero o dal Giudice e dalle gravi contraddizioni dichiarative, oggettivamente dimostrative del mendacio.
Ciò vale per il COGNOME, che ha negato ostinatamente di essersi trovato sul luogo del delitto e di aver assistito all’omicidio, mentendo persino sulla sua condizione fisica, invece, nitidamente emersa dal colloquio con il COGNOME, e giungendo anche a calunniare i carabinieri, affermando che il 26 dicembre 2012, quando lo avevano sentito a sommarie informazioni, avevano verbalizzato dichiarazioni da lui non rese nella piena consapevolezza di accusarli di un falso in atto pubblico mai commesso. La riduttiva tesi difensiva sul punto, oltre a non confrontarsi affatto con la lineare e corretta motivazione resa (pag.11 e 12), si risolve nel tentativo di proporre una lettura alternativa delle emergenze processuali, preclusa in questa sede.
Considerazioni analoghe valgono anche per il COGNOME e per il COGNOME, le cui dichiarazioni sono risultate smentite, rispettivamente, dai tabulati telefonic e dalle conversazioni intercettate.
Contrariamente ai tentativi difensivi di minimizzare la portata e l’incidenza delle dichiarazioni rese dai ricorrenti, risulta correttamente ritenuto sussistente i delitto di falsa testimonianza, attesa la pertinenza e la rilevanza dei fatti sui qua i testimoni falsi o reticenti avevano deposto, sostenendo, contrariamente al vero, che la vittima si era allontanata dal chiosco del COGNOME.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, ai fini della configurabilità de delitto di falsa testimonianza, la valutazione sulla pertinenza (da intendersi come riferibilità o afferenza dell’oggetto della testimonianza ai fatti che il processo destinato ad accertare) e sulla rilevanza (che riguarda l’efficacia probatoria dei fatti dichiarati) della deposizione va effettuata con riferimento alla situazion processuale esistente al momento in cui il reato è consumato, ossia ex ante e
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non ex post (Sez. 6, n. 4299 del 10/01/2013, Buffaldini, Rv. 254433) e l’apparente non decisività delle dichiarazioni mendaci rispetto alla pronuncia del giudice non ne esclude la rilevanza quando in realtà sussiste un’oggettiva ed elevata idoneità ad alterare l’accertamento delle modalità e delle responsabilità del fatto oggetto di reato, anche se in concreto le deposizioni non hanno influito sulla decisione del giudice.
Manifestamente infondato è anche il secondo motivo del ricorso proposto nell’interesse del COGNOME, in quanto è vero che la sentenza non risponde alla eccepita violazione dell’art. 63 cod. proc. pen. e alla richiesta di riqualificare reato in quello di cui all’art. 371 bis cod. pen., ma il silenzio deve ritenersi giustificato dalla manifesta infondatezza del motivo.
Come affermato da questa Corte (Sez. U, n. 33583 del 26/03/2015, COGNOME e altri, Rv. 264481), le dichiarazioni “indizianti” di cui all’art. 63, comm primo, cod. proc. pen. sono quelle rese da un soggetto sentito come testimone o persona informata sui fatti che riveli circostanze da cui emerga una sua responsabilità penale per fatti pregressi, non invece, quelle attraverso le quali il medesimo soggetto realizzi il fatto tipico di una determinata figura di reato quale il favoreggiamento personale, la calunnia o la falsa testimonianza, in quanto la predetta norma di garanzia è ispirata al principio nemo tenetur se detegere, che salvaguarda la persona che abbia commesso un reato, e non quella che debba ancora commetterlo.
Inammissibili per genericità e manifesta infondatezza sono anche il secondo motivo del ricorso del COGNOME e il terzo del ricorso del COGNOME con i quali si censura il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, non ravvisandosi il denunciato vizio di motivazione.
Premesso che l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche non costituisce un diritto conseguente all’assenza di elementi negativi connotanti la personalità del soggetto, ma richiede elementi di segno positivo, dalla cui assenza legittimamente deriva il diniego di concessione delle stesse (Sez. 3, n. 24128 del 18/03/2021, COGNOME Crescenzo, Rv. 281590), deve osservarsi che per il COGNOME gli elementi positivi indicati nell’appello erano genericamente individuati nella evidente presenza di cause di giustificazione e nell’assenza di precedenti penali ovvero in elementi ritenuti non rilevanti e persino in contrasto con la valutazione espressa sul comportamento e sulla personalità dell’imputato.
Quanto al COGNOME, anche a fronte di un motivo di appello genericissimo, il diniego delle attenuanti generiche risulta idoneamente giustificato dal rilievo
attribuito alle modalità del fatto, ritenute espressive della personalità negativa dell’imputato, e dall’assenza di elementi favorevoli.
Analogamente inammissibile è il ricorso della COGNOME, in quanto la mancanza di motivazione sulla configurabilità del reato impossibile per irrilevanza e inidoneità della circostanza riferita dalla testimone ad incidere sulla decisione è solo apparente. La risposta è, invece, data, avendo la Corte di appello precisato che la circostanza non era affatto irrilevante né di marginale importanza perché rivelava l’intento della teste di nascondere il reale sentimento e lo stato d’animo del COGNOME, compiaciuto e non dispiaciuto per l’omicidio dello COGNOME.
I motivi mirano a svalutare la circostanza e a fornire una chiave di lettura orientata e riduttiva del contenuto della conversazione intercettata, sostenendo che nel riferire la circostanza la donna aveva espresso solo una personale impressione dello stato d’animo del COGNOME: prospettiva smentita dal colloquio, dal quale risulta, come riportato in sentenza, che la ricorrente lo aveva visto ridere, tanto da contestarglielo.
La valutazione espressa è del tutto logica e coerente perché è rapportata alla circostanza che la reazione del COGNOME sul luogo di ritrovamento del cadavere e a distanza di tempo dall’omicidio, il che giustifica il riliev attribuito dai giudici di merito al fatto e alla divergente dichiarazione res dall’imputata.
Sul punto va ricordato che nel giudizio sulla falsità ciò che deve essere valutato è la corrispondenza tra ciò che si è deposto e ciò che si è percepito, sicché l’accertamento non deve riguardare la differenza tra quello che il teste depone e la realtà oggettiva, ma tra la deposizione e quello che il testimone conosce e ricorda (Sez. 6, n. 37482 del 25/06/2014, Trojer, Rv. 26081) e nel caso di specie l’intercettazione ambientale dimostra pacificamente la divergenza tra quanto percepito e visto dalla testimone e quanto dichiarato in dibattimento.
La difesa tenta di porre l’accento sulla irrilevanza della circostanza, ma trascura che ai fini della configurabilità del delitto di falsa testimonianza sufficiente che i fatti oggetto della deposizione siano pertinenti alla causa e suscettibili di avere efficacia probatoria, anche se, in concreto, le dichiarazioni non hanno influito sulla decisione del giudice (Sez. 6, n. 51032 del 05/12/2013, Mevoli, Rv. 258507), sicché non è richiesto che le dichiarazioni siano decisive per la pronuncia del giudice.
Per le ragioni esposte i ricorsi vanno dichiarati inammissibili con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e al
versamento di una somma in favore della cassa delle ammende, equitativamente determinata in tremila euro ciascuno.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 09/04/2024